Project Gutenberg's Gli eretici d'Italia, vol. III, by Cesare Cantù This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Gli eretici d'Italia, vol. III Author: Cesare Cantù Release Date: November 3, 2014 [EBook #47278] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK GLI ERETICI D'ITALIA, VOL. III *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) GLI ERETICI D'ITALIA DISCORSI STORICI DI CESARE CANTÙ _Qui cathedram Petri, super quam fondata est Ecclesia, deserit, in Ecclesia non est: qui vero Ecclesiæ unitatem non tenet, nec fidem habet._ S. CIPRIANO, _De Unitate Ecclesiæ._ VOLUME TERZO TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE Via Carlo Alberto, casa Pomba, Nº 33 1866 DISCORSO XXXIX. GREGORIO XIII. SISTO V. EPISODIO FRANCESE. Per la solita altalena, a Pio V fu dato successore Ugo Buoncompagni bolognese, che volle chiamarsi Gregorio XIII. Arrendevole e clemente fin a scapito della giustizia, le inclinazioni sue mondane dovette reprimere a fronte della riforma morale, e a fatica potè favorire un proprio figliuolo, niente i nipoti; esatto del resto ai doveri di capo dei fedeli, ad elevare alla mitra i migliori, a diffondere l'istruzione. Secondo i decreti tridentini stabilì una Congregazione della visita, che sopravedesse a quella di tutte le diocesi, e mandava visitatori apostolici che si faceano rendere i conti delle chiese, de' luoghi pii, delle fraternite, per quanto eccitassero scontentezze. Prescrisse che ogni cattedrale avesse un teologo (1573). Spendendo quanto Leon X, per riparare ai guasti cagionati da questo fondò e dotò ben ventitrè collegi, tra cui quello di tutte le nazioni, alla apertura del quale si pronunziarono discorsi in venticinque favelle; rifondò il Germanico, palestra di futuri atleti; uno pei Greci, che vi erano allevati al modo e col linguaggio e il rito patrio; uno Ungarico, uno Illirico a Loreto, uno pei Maroniti, uno per gl'Inglesi; rifabbricò il Collegio romano, istituì quello de' Neofiti, poi ne seminò per tutta Germania e Francia, e fin tre nel Giappone. Spese due milioni di scudi in fare studiare giovani poveri, e un milione in dotare zitelle[1]. A suggerimento di lui, il cardinale Ferdinando Medici aprì stamperia di cinquanta lingue orientali, spedì in Etiopia, ad Alessandria, in Antiochia eruditi viaggiatori, massime Giambattista e Girolamo Vecchietti fiorentini, che ne recarono codici. Gregorio teneva una lista di quante persone fossero acconce al vescovado in tutta la cristianità; e così trovavasi informato all'occorrenza. Deputò il vescovo di Como agli Svizzeri per mantenerli in fede, e impedire s'unissero coi Protestanti: e il vescovo di Cremona Bonomo ad emendarvi il clero, nel che trovò grandi contrasti. Giovanni Delfino il 6 e 26 luglio 1572 scriveva al cardinal di Como Tolomeo Gallio, che a Vienna i diecimila italiani erano pervertiti da apostati, venienti dalla Savoja e dal Veneto; ma per ordine dell'imperatore dovettero partire. Il decantato tipografo Frobenio, venuto a Roma, si finse cattolico, tantochè il papa l'accolse con grandi cortesie, ed esortavalo a rimanere; partendo, ebbe raccomandazioni da prelati, e istituì una tipografia cattolica a Friburgo; speculazione, come fu poi lo stampar tante opere in senso contrario a Basilea: dove il papa diede opera non si pubblicasse il Talmud. Gregorio immortalò il suo pontificato colla riforma del calendario. Giulio Cesare l'avea corretto, fissando l'equinozio di primavera ai 25 marzo, e l'anno di trecensessantacinque giorni e sei ore; lo che è 11′ 42″ più del vero: laonde in cenventinove anni l'equinozio si anticipava d'un giorno. La Chiesa dovette prendersene cura, attesochè la pasqua cade nel plenilunio succedente all'equinozio di primavera. Il concilio Niceno del 325 già s'accorgeva che questo anticipavasi al 23 marzo, ma non si seppe indovinarne la ragione. Nel 1257 la precessione era di undici giorni; e fin d'allora si parlò d'una riforma, spesso tentata, non mai riuscita. La famosa Dieta d'Augusta non volle confessare tale anticipazione dell'equinozio, denunziandola per un lacciuolo della politica romana[2]. Come in tutti i Concilj, così nel Tridentino se ne discorse; poi a tal uopo Gregorio XIII convocò a Roma i personaggi meglio versati, e singolarmente il perugino Ignazio Danti domenicano e il gesuita Clavio di Bamberga, ma la formola vera fu rinvenuta da Luigi Lilio medico calabrese, e compita da suo fratello Antonio. Il papa nel 1577 ne mandò copia a tutti i principi, le repubbliche, le accademie cattoliche; e avutane l'approvazione, nel 1582 pubblicò il nuovo calendario, sopprimendo dieci giorni fra il 5 e il 15 ottobre. L'anno vi è fissato di trecensessantacinque giorni, cinque ore, quarantanove minuti e dodici secondi; e che ogni quattro anni secolari, uno solo sia bisestile. La correzione è tanto prossima al vero (365g 5o 48′ 55″), che sol dopo quattromila ducentrentotto anni i minuti residui costituiranno un giorno. Per verità sarebbesi potuto, invece del ciclo di quattrocento anni, adottarne uno di trecencinquantacinque, che avrebbe dato l'errore non di ventisette secondi, ma soltanto di un decimo di secondo sull'effettiva durata dell'anno: sarebbesi potuto far coincindere il cominciamento dell'anno col solstizio, e di ciascun mese coll'entrar del sole ne' varj segni dello zodiaco, e assegnare trentun giorno a quelli fra l'equinozio di primavera e l'autunnale, trenta agli altri, e scemo il dicembre. Questi difetti s'apposero in fatti, ma ben più spiaceva ai Protestanti che il papa comandasse, fosse pure in fatto di calendario; vi vedeano un attentato alla libertà dei principi, un'usurpamento sull'indipendenza delle nazioni, un'arroganza di questa razza italiana; esclamavano ne andasse dell'onore e della dignità dell'impero germanico, si compromettesser le libertà gallicane, fosse un'ordita de' Gesuiti; un primo passo, che chi sa dove menerebbe! Com'è stile dell'opposizione parlamentare, se non altro voleasi mettervi qualche restrizione; e i Grigioni proponevano di levar cinque giorni, invece di dieci. E lenti furono i principi ad accettarlo; solo nel 1699 vi s'acconciarono i Protestanti di Germania, nel 1700 l'Olanda, la Danimarca, la Svizzera, nel 1752 l'Inghilterra, nel seguente la Svezia, e non ancora i Russi nè i Greci, che perciò trovansi in ritardo di tredici giorni sul calendario nostro; locchè deve chiamarsi indipendenza. Di Sisto V succeduto papa resta una fama romanzesca, causata da dicerie popolari e da storie ciarlatanesche, fra cui quella di Gregorio Leti, veramente degna di servir di fonte alle empiamente fantastiche dei nostri contemporanei. Qui noi non abbiamo a provare nè a confutare, limitandoci solo alle cose che concernono il nostro assunto. Era Felice Peretti, nato umilmente il 15 dicembre 1521 a Montalto presso Ascoli, ove attendeva alla pastorizia finchè uno zio frate il tirò a Roma, lo fe studiare, e vestir francescano, nel qual Ordine ottenne tutte le dignità. Mentre predicava il 1552 ai Santi Apostoli in Roma fra generale ammirazione, gli arriva una lettera, che ripiglia i punti delle prediche di esso, e massime quelle che trattano della predestinazione, e a canto a ciascuno, _Mentisci_. Egli mandò la lettera al grande inquisitore ch'era Michele Ghislieri; ed ecco questo comparir nella cella di lui, e freddo, inesorabile, esaminarlo su tutti quei punti. Sisto V ricordossi sempre della terribile impressione causatagli da tale visita, ma rispose così appunto, che il Ghislieri ne pianse di tenerezza, e gli divenne amico e protettore. Unitosi al partito che avea tolto a riformar moralmente la Chiesa, il Peretti fu amico di sant'Ignazio, san Felice, san Filippo e d'altri; e zelando il giusto e il vero anche a fronte di persone autorevoli, riusciva poco amato. Fatto inquisitor della fede pel dominio veneto, due volte in Venezia corse pericolo per la gelosia di quel governo, e fuggendo disse: «Ho fatto voto di diventar papa, sicchè non potevo lasciarmi appiccare da costoro». Pio IV lo pose teologo al Concilio di Trento; fu spedito legato in Ispagna pel processo dell'arcivescovo Caranza, de' cui scritti notò i varj passi di Protestanti che aveva ammessi. Divenne vescovo di Sant'Agata de' Goti, poi cardinale nel 1570; ma salito papa Gregorio XIII, al quale era poco gradito, si ritirò, stampò le opere di sant'Ambrogio, meglio de' precedenti e di Erasmo, e mostrossi smanioso di fabbricare più che nol comportassero i suoi mezzi. Nessun più crede alla diceria che nel conclave comparisse come cascante e curvo sul bastoncello, per dar a sperare ai cardinali che presto morrebbe; poi appena eletto buttasse via la mazza e si raddrizzasse. Noi sappiamo che la sua candidatura era favorita e desiderata, come fu applaudita da poi[3]. Fatto papa, volle esserlo nella grandezza che le convinzioni sue gli attribuivano; e poichè i pontefici aveano perduto in potere quanto aveano acquistato in rispetto, egli volle recuperare anche il potere, spiegando una passione di giustizia, d'autorità, d'unità, sostenuta dal vigore d'un'anima ardente e d'un genio esteso, sicchè fu detto a Dio piacesse meglio la severità di Sisto che la santità di Pio. Una storia di Sisto V in senso affatto opposto alla buffoneria del Leti, compilò il Novaes, nella quale, oltre il resto, son indicate le premure di esso papa per le manifatture della lana e della seta. A dir solo di quest'ultima, ordinò che per tutto lo Stato si piantassero almeno cinque gelsi ogni rubbio di terreno; al qual uopo somministrava quindici mila scudi dall'erario; onde si esteser anche le piantonaje, che poterono spacciarsi utilmente di fuori: nella sua villa, che poi divenne dei Massimi, molto propagò la coltura de' bachi, e volea stabilirvi fiere franche: in case attorno alla piazza di Termini fe porre filatoj e torcitoj. Avendo l'ebreo Magino di Gabriele veneto promesso un segreto per aver due ricolti l'anno, il papa gliene diede privilegio per sessant'anni, e di abitar colla sua famiglia fuori del ghetto, e il cinque per cento de' guadagni che la Camera apostolica trarrebbe da tale innovazione, più un'oncia ogni libbra di seta. Ma il trovato non riuscì. Sisto eresse anche grandi edifizj, concepiti in senso religioso: protestò demolirebbe il Campidoglio se il popolo si ostinava a tenervi le statue che v'avea messo di Giove tonante fra Minerva e Apollo; e se lasciò Minerva, le sostituì alla lancia la croce; rizzò l'obelisco famoso in piazza del Vaticano, ma vi pose la croce e reliquie di santi: compiè la cupola di San Pietro, condusse l'acqua Marzia, congiunse con ampie vie le basiliche antiche. Dopo gli ingenti dispendj di Leon X, Adriano VI avea trovato l'erario esausto, impegnate le gioje; ed essendosi egli proposto di non impor nuove gabelle nè centrar debiti, dovette parere spilorcio, e lasciò nel tesoro appena tremila scudi: pure avea mandato quarantamila ducati in Ungheria e tre navi ai cavalieri di Rodi per resistere ai Turchi. Clemente VII, il quale vide il maggior disastro che a Roma fosse mai tocco, introdusse nuove imposizioni, istituì prestiti, fra cui notevole il Monte della Fede per soccorrere Carlo V contro gl'irrompenti Musulmani. A Paolo III si attribuisce la prima ordinata imposizione sopra tutto lo Stato, qual fu il sussidio triennale, ma ed egli e i successori usarono sempre con grande riguardo delle gabelle e delle taglie. Spese immense sostenne Pio V nell'interno, oltre le quali, ebbe la campagna di Levante, coronata dalla battaglia di Lepanto; diede ajuto alla Francia, agli Inglesi cattolici, alla regina di Scozia; distribuì due milioni di scudi d'oro ai poveri, ne lasciò un milione nel tesoro, e cinquecentomila che maturavano fra tre mesi: e nella propria camera tredicimila scudi, destinati a limosine manuali, e centomila presso il mastro di casa. Sisto V non introdusse un buon sistema: e chi lo conosceva allora? ma si fisse in mente che bisognava avere assai denaro per poter assai; onde, dopo avere speso secentomila scudi nella guerra de' Turchi, e cinquantamila per gli obelischi, ducentomila per l'Acqua Felice, ottocentomila per l'abbondanza, oltre le magnifiche fabbriche, ripose un tesoro di quattro milioni di scudi, che siamo meravigliati di trovare menzionato ancora ai giorni nostri nel trattato di Tolentino. Non affatto scevro del nepotismo, fece cardinale suo nipote Alessandro Peretti di quattordici o quindici anni, con ricchi benefizj e pingui abbazie; ma questi ne fece ottimo uso; dotava cento zitelle l'anno, e oltre le limosine a mano, dispensò più d'un milione di scudi d'oro. Memorabilissimo è l'aver Sisto V, alle sette congregazioni dell'Indice, dell'Inquisizione, dell'esecuzione e interpretazione del Concilio, de' vescovi, de' regolari, della segnatura, della consulta, cresciuto importanza e ordine, e aggiuntene altre otto; una per fondar vescovadi nuovi, una sopra i riti, le altre per ispacciare le cause temporali portate alla Santa Sede, a questa riservando le più gravi. Poco poi, nella Congregazione _de propaganda fide_, dovuta a Gregorio XV e a suo nipote Lodovico Lodovisi, tredici cardinali, tre prelati, un secretario furono destinati a diffondere la religione e dirigere i missionarj; che con portentosa attività dall'Alpi alle Ande, dal Tibet alla Scandinavia, dall'Irlanda alla Cina si spargono a convertire Protestanti, Maomettani, Buddisti, Nestoriani, Idolatri. E mentre la civiltà non portava ai selvaggi che acquavite per ubriacar sè, ed armi per uccider altri, era un portento l'aprire mondi interi senza violenza, e non soltanto recarvi un libro, ma fargliene applicare i dogmi, e ottenere sommessione all'autorità, abnegazione degli istinti, attuando il carattere della cattolicità, cioè la potenza di unificar l'umanità nel Cristo redentore. I prodigi dell'apostolato, coll'eroismo più disinteressato e coi miracoli più insigni si rinnovavano specialmente nelle missioni delle due Indie, sicchè di tante perdite in Europa i papi erano consolati ricevendo ambasciatori dall'Abissinia, dal Giappone, dalla Persia, dagli antichi imperi d'Oriente e dai nuovi d'America, dove s'istituivano vescovadi e conventi, scuole e spedali. Di poi Urbano VIII nel Seminario Apostolico preparò un vivajo di missionarj e un rifugio pei prelati che la Riforma spogliava: il cardinale Antonio Barberino vi istituì dodici posti pei Georgiani, Persi, Nestoriani, Giacobiti, Melchiti, Copti, sette per Indiani o Armeni. Rinnovando la gran politica de' maggiori papi, Sisto divisava abbatter l'impero turco mediante un'alleanza colla Persia e la Polonia; conquistare l'Egitto, e congiunger il Mediterraneo col Mar Rosso per restituire il primato all'Italia; conquistare il Santo Sepolcro, di cui allora il Tasso cantava la liberazione; coi potentati d'Italia non seguir la politica del Macchiavelli, vagheggiata da' predecessori, ma la fermezza del cattolicismo; proponendosi unico voto la propagazione della fede, eccita Filippo II a conquistare l'Inghilterra e vendicare Maria Stuarda; medita una crociata contro Elisabetta regina e Ginevra; sostiene la Lega in Francia; osteggia Enrico IV, benchè poi si sentisse allettato dal genio di questo in modo, che la pubblica opinione propalò inclinasse alle idee protestanti, e che in ciò obbedisse al diavolo, col quale avea stretto un patto, e che se ne portò l'anima quando morì dopo soli cinque anni di operosissimo papato[4]. Questi ricordi ci portano a dar un'occhiata alle vicende della Riforma in Francia, alle quali si annettono molti personaggi italiani, e principalmente Caterina de' Medici di Firenze. Vedemmo come suo zio Clemente VII le ottenesse la mano di Enrico, secondogenito del cavalleresco Francesco I; il quale celebrò quelle nozze col supplizio di varj Luterani, e con editti rigorosissimi contro di questi. Tal era la scuola, alla quale veniva questa italiana a portare (come pretendono i Francesi) i vizj, l'intolleranza, la machiavellica del nostro paese, mentre scrive Chateaubriand che _la debauche et la cruauté sont les deux caractères distinctifs de l'êre des Valois_, e troppo il provano Brantôme e gli altri cronisti. Essendo morto il Delfino, Caterina si trovò sui gradini del trono, ma fra la duchessa d'Etampe[5] amante del suocero, e Diana di Poitiers amante del marito; costretta a dissimulare ed ecclissarsi. Ma ecco Francesco muore, logoro dai piaceri, il 31 marzo 1547, e Caterina diventa regina, ma pur sempre avvilita dall'insultante presenza d'una rivale, che sebbene invecchiata, conservava sopra Enrico un predominio, che i contemporanei non seppero attribuire che a fatuchierie. Il re volle sua moglie venisse coronata il 10 giugno 1549, con feste splendidissime e un torneo quale soleasi in quel regno, che fu sopra gli altri reputato per tali spettacoli; e pensò rendere compiuta la festa col far bruciare quattro eretici. Ma uno di essi, col quale aveva egli medesimo più volte disputato, lo fissò con tal misto di dolore e di coraggio, che il re ne raccapricciò, e fece proponimento di più mai non esporsi a simile cimento. La Francia era paese robustamente sistemato, sicchè respinse costantemente le novità, quando più prevalevano nella Germania e nell'Inghilterra, sbranate fra l'aristocrazia; e tutte le memorie attestano come la maggioranza del popolo restasse avversissima ai novatori, e guardasse in sinistro ogni concessione che a questi si facesse. Li favorivano invece i principi del sangue e i grandi vassalli e guerrieri, come i reali di Navarra e l'ammiraglio di Coligny. Ne derivava per tutto il regno uno scompiglio, ben più grave che all'Italia non fosse sorto dalla lotta fra il papato e l'impero: e Caterina trovossene in preda allorchè, nel 1560 ucciso suo marito in un torneo, ebbe ad assumer la reggenza pel fanciullo Francesco II, poi per l'altro Carlo IX. Nipote di due gran papi, vedova d'un re, madre d'una fanciulla che sposò Filippo II, e di due figli che successivamente regnarono; bella, colta, maestosa, magnifica allo spender e al fabbricare giusta l'esempio della sua famiglia, nel vigor degli anni, istruita dalle sventure de' suoi e dalle proprie, inasprita dall'aver dovuto lunghi anni rassegnarsi a un'oltraggiosa rivalità e tenersi rimossa dagli affari, si vide d'un tratto a capo del regno, fra il vortice di poderose fazioni, che sbranavansi nella parte più vitale, la religiosa. Le imprecazioni, troppo consuete in tempi di partiti, e quando la parte che soccombe è la più attuosa in parole e scritture, perseguitarono questa donna, rea sopratutto d'esser forestiera: e la storia servile la copiò, esibendola come il tipo dell'astuzia e della fierezza italiana, d'una politica egoista da Machiavello, d'una fredda crudeltà; e testè Michelet la chiamava «un verme sbucato dal cimitero d'Italia». Realmente essa, ancor giovane e avvenente, più non depose il bruno; de' rotti costumi suoi non cianciano che i romanzieri[6], quantunque per politica tollerasse gli altrui; amante de' figliuoli, sebbene li trattasse da assoluta: operosa così, che fin venti lettere scriveva in un dopo pranzo: d'abilità insigne diè prova, dedotta da quel sentimento d'una grande responsabilità, che si eleva di sopra alle considerazioni secondarie e alle calunnie di fazione: inarrivabile nell'affascinar chi l'avvicinasse, tenea la corte più splendida d'Europa, ricreata da feste, balletti, amori; e mentre la imputavano di cumular tesori, alla morte non le si riconobbero che debiti. Chi conoscesse anche solo i miserabili tempi in cui viviamo, saprebbe quante difficoltà porti il regolarsi in età di passioni violente, dove la medesima condotta produce applauso o esecrazione, anzi dà alternamente l'uno e l'altra. Quest'è ben certo che la politica di Caterina fu eminentemente francese, e mentre gli Ugonotti avrebbero venduto la patria agli Inglesi o chiamato a devastarla i raitri tedeschi, ella si staccò dall'alleanza di Spagna, cercata dai partigiani; e nel volere conservar se stessa in dominio conservò la Francia che minacciava o andar a brani o cascar nella tirannide. Con ciò siamo a gran pezza dal voler giustificare tutti i suoi atti, ispirati, come gli altri del tempo, dalla politica di cui si fe' dettatore quel Machiavello, che merita le apoteosi de' nostri contemporanei perchè insegnò che «la fraude fu sempre necessaria a coloro che da piccoli principj vogliono a sublimi gradi salire; la quale è meno vituperevole quanto è più coperta»[7]. Coi Riformati tentò ella dapprincipio la conciliazione, e fu per sua opera che si tenne un colloquio a Passy. Per ottenerlo essa avea scritto a Pio IV, esponendo, le opinioni in Francia esser propense alla Riforma, come sempre verso ciò che è nuovo e che fiede l'autorità; quelli staccatisi dalla Chiesa sommare a tanti, da non potersi più reprimere con leggi e coll'armi, comprendendo magistrati e nobili, uniti e formidabili, ma non trovarsi fra loro nè anabattisti, nè libertini, nè d'altre opinioni mostruose, tutti ammettendo il simbolo apostolico. Perciò taluni pensano si deva tollerarli, benchè deviino in altri punti; sperando che Iddio dissiperà le tenebre, e farà sfavillare a tutti la luce e la verità. Qualora il papa volesse aspettar le decisioni del Concilio[8], bisognerebbe al male pressante trovar rimedj particolari per richiamare i traviati e ritenere i fedeli. Pei primi, il miglior mezzo sarebbe l'istruzione; pacifiche conferenze tra quei delle due parti che possedano maggior scienza e amore di pace; ne' vescovi zelo di predicare, d'avvertire, d'esortar alla carità, alla concordia; astenersi da diverbj e da termini ingiuriosi. A quelli rimasti in grembo della Chiesa, ma con dubbiezze e difficoltà e travagli di spirito, vorrebbesi toglier ogni occasione di scandalo; sbandire l'adorazione delle immagini e la recente festa del _Corpus Domini_: nell'amministrazione del battesimo ommettere gli esorcismi e la saliva e le preghiere estranie all'istituzione del sacramento. Vorrebbesi anche ammettere tutti alla sacra mensa sotto le due specie; non comunioni nè messa in privato, ma tutti insieme, e dopo la confessione generale de' peccati, e cantato i salmi, e facendo preghiere pel re, pei signori, per gli ecclesiastici, pei frutti della terra, per gli afflitti; tutto in vulgare anzichè in latino, acciocchè i fedeli possano scientemente esclamare _Così sia_. Indicava altre pretese aberrazioni del culto; e finiva esortando il santo padre a immolar se stesso, assicurandolo che le persone savie e moderate non attentavano all'autorità di lui, nè presumeano innovare il dogma. Solite illusioni, dalle quali prestamente ella fu riscossa per forza. Pio IV a quel colloquio deputò il cardinale di Ferrara, nato dalla famosa Lucrezia Borgia. Fu ricevuto senza le onoranze consuete, e subito i libellisti sparpagliarono ch'era nipote d'Alessandro VI, del quale si pubblicò la storia scandalosa, e gli aizzarono il popolo in guisa, che a fischi inseguiva il crocifero quando uscisse sulla mula a croce alzata. Nella villa di Passy l'agosto 1561 fu tenuto il colloquio, e Teodoro Beza, che veniva campione del suo amico Calvino, volle aver per appoggio Pietro Martire, come dicemmo (vol. II, pag. 76). Quivi undici ministri e ventidue inviati delle principali chiese riformate di Francia combatterono il cardinal di Lorena, alla presenza della Corte e di gran savj; Pietro Martire, che parlava italiano per compiacere a Caterina, vi spiegò grand'erudizione e aspirazioni moderate; si compilò la famosa formola intorno alla Santa Cena, transazione che i nostri teologi repudiarono come capziosa ed ereticale; onde il colloquio si sciolse, inutile come tutti quelli fra due partiti estremi. Al colloquio assisteva un altro prelato italiano, Giovanni Antonio Caracciolo. Era nato a Melfi, terzo figlio di Sergianni Caracciolo principe di Melfi e duca d'Ascoli, e gran siniscalco del regno, che passato in Francia dopo le vittorie del Lautrech, come maresciallo avea guerreggiato i Valdesi della val di Luserna, e fatti smantellare i castelli di Torre, Bobbio, Bricherasio, Luserna. Cresciuto alla Corte di Francesco I, presto se ne annojò, e ritirossi al deserto della Sainte-Baume in Provenza; poi reduce a Parigi, si fe certosino, indi canonico di San Vittore (1538), lo che non tolse che abbracciasse la milizia, finchè Francesco I per tenerlo alla religione lo costituì abbate di quell'insigne monastero. Come irrequieto nelle speranze, così era scandaloso ne' costumi, vestiva da laico, blandiva cortigianescamente, e con tal mezzo nel 1551 ottenne il vescovado di Troyes, colla licenza di conservare la lunga barba. Quivi inclinò alle dottrine de' Riformati, partecipò alle loro cerimonie, a cui la sua posizione aggiungeva molta autorità; Enrico II gli proibì di predicare; la Santa Inquisizione a Roma lo processò; ma egli ritrattossi pubblicamente, e si recò a' piedi del pontefice. Forse sperava il cappello cardinalizio, e non l'ottenendo, passò per Ginevra, e affiatatosi con Beza e con Calvino, adottò le loro confessioni: al colloquio di Passy cercò spedienti di conciliazione, ma dopo di quello professò apertamente la Riforma; chiamò alla sua città Pietro Martire e in man di esso abjurò, e unì una comunione protestante, pur conservando il titolo di vescovo, aggiunto a quello di ministro del Vangelo[9], ed i Calvinisti, distruttori della gerarchia, pur continuarono a osservarlo come vescovo. Morì del 1569, e non è certo s'ammogliasse. Scrisse il _Miroir de la vraie religion_ (Parigi 1541), e nelle _Lettere di principi a principi_ n'è una sua del 14 luglio 1559 per giustificare il Montgomery dell'uccisione di Enrico II. Tra ciò il calvinismo si diffondeva, e Pietro Paolo Vergerio, all'elettor di Sassonia scrivendo nel 1560 e 61, gratulavasi continuamente che le loro cose in Francia prosperassero; che essendo governatore il nuovo re di Navarra, zelante evangelico, sperava s'andrebbe in meglio, e si ridurrebbe a patteggi il papa. Il Barbaro, ambasciadore veneto a Parigi, alla morte di Francesco I calcolava che un terzo del regno fossero eretici: il Michiel, ambasciadore nel 1561, li portava a tre quarti, sebben l'altro ambasciadore Soriano l'anno stesso li restringesse a un decimo: e nel 1569 il Correr asseriva che, al tempo della maggior possa, gli Ugonotti erano un trentesimo del popolo, e un terzo della nobiltà[10]. Bayle, scrittore disaffezionato della religione cattolica quanto ognun sa, scrive che «stette a ben poco che i Protestanti non guadagnasser il sopravento al principio di Carlo IX, e se vi riuscivano, sa Dio che sarebbe divenuta la religione persecutrice. Se il re di Navarra, dichiaratosi per essi, avesse avuto la forza di conoscer il laccio che l'altro partito gli tendeva (massimamente nel promettergli il regno di Sardegna), sarebbe rimasto saldo nella loro comunione. Tanto bastava per assicurare la vittoria, essendo egli luogotenente del regno, nè era difficile far abbracciar la professione della chiesa riformata a Caterina de' Medici». Questa speranza nutrirono molti[11], e più da che, coll'editto del gennajo 1562, ella ebbe proclamato la tolleranza religiosa; ma poichè ciò fu causa della prima guerra civile, ella s'avvide come coll'unità della religione perirebbe l'unità del regno: e favorì i Cattolici, ricevette i primi Cappuccini, condotti da frà Domenico da San Gervaso, e assegnò loro un convento in Parigi nel 1571. Ma già le discordie erano scoppiate da per tutto; gli Ugonotti saccheggiavano le sacristie, i Cattolici distruggevano le cappelle; dagli insulti passavasi al sangue: martiri vantavansi da tutte le parti[12]; la guerra civile infuriava; i principi della casa reale erano divisi, gli uni appigliandosi pertinacemente al passato, gli altri agognando al nuovo. Giovanni Correr, dipingendo quelle miserie de' Francesi, conchiudeva: «Gli ho sentiti più volte esclamare: Oh se i miei beni fossero nel veneto! E mi domandavano se la Repubblica accettasse danari a prestito; voleano depor alla nostra zecca grandi somme, credendovele sicure. Venezia era per loro il luogo più sicuro, il paese ove non si conosce che un Dio solo, non si pratica che un solo culto, s'obbedisce a un principe solo, e tutti possono vivere senza paura, e godere il proprio bene in pace». Dacchè in Iscozia spossessavasi Maria Stuarda, la riverenza pei regnanti era scossa, e i Riformati aveano proposto pure in Francia di impadronirsi del re e del cardinale di Lorena; ma non riescirono che ad esasperarli. In realtà gli Ugonotti aspiravano a repubblica e a spezzar la Francia in provincie confederate: Calvino avea dichiarato che il re, il quale non ajuta la Riforma, si abdica da re e da uomo, onde perde il diritto di farsi obbedire, e merita gli si sputi in faccia, come a tutti i re cattolici. I suoi seguaci formavano quasi una potente massoneria: aveano fatto molte parziali uccisioni; le insurrezioni succedeano contemporanee, come allorchè son effetto di intelligenze segrete: levarono uomini e denari; e nel 1563 settantadue ministri calvinisti aveano sporto al re una petizione acciocchè prevenisse le eresie e gli scismi e le turbolenze che ne derivano, punendo severamente gli eretici, cioè chi dissentiva dalla loro confessione. Pare ancora che il famoso grancancelliere L'Hopital e il cancelliere Ferrier, protestante celato che stava ambasciadore a Venezia, e molto stretto con frà Paolo Sarpi, tramassero per istaccare il re dal papa, e indurlo a costituire una chiesa nazionale. E già i risoluti allestivansi a guerra rotta; gli Ugonotti, capitanati dal Condè, non esitarono a ceder all'Inghilterra le fortezze francesi; e coll'assassinio liberaronsi del duca di Guisa, capo de' Cattolici. Caterina, più fida al partito nazionale, malgrado i consigli di Filippo II e del duca d'Alba, credendo suo primo dovere l'evitar la guerra intestina, sopportava persino le sommosse parziali, le uccisioni, l'aperta resistenza; cercava tempo dal tempo; dicono gli uni per debolezza, dicono gli altri per ambizione: l'avrebbero esecrata come sanguinaria se reprimeva i primi eccessi: l'esecrarono quando di passo in passo lasciolli crescere fin alla spaventosa catastrofe di San Bartolomeo. Il granduca di Toscana avea cercato insinuare di perdere i nemici di Francia piuttosto in pace che in guerra. «Consideri la santità sua che, nel travagliare quel regno con l'armi, si fanno ogni dì nemici al re ed alla religione cattolica, nè può con tutti li ajuti che gli porga rimediarvi sua beatitudine; anzi, che i tristi si valeranno a suscitar le genti contra il principe loro naturale con il nome del papa, siccome si è veduto per il passato; dove che nella pace e quiete del regno sarà in potere di quelle maestà spegnere quei capi facinorosi e seduttori, e di questa maniera ridurre il restante a poco a poco e con facilità al gremio della Chiesa romana»[13]. Pio V, udendo la desolazione della Francia e i pericoli in cui gli Ugonotti metteano que' regnanti, risolse soccorrerli d'armi e denaro. Quelle affidò a Lodovico Gonzaga, duca di Nevers; ma di denari mancava, tutto avendo dato all'imperatore, a Venezia, ai Cavalieri di Malta per la guerra contro i Turchi; e durando nel proposito di non aggravare di più i sudditi. Uscì dunque con raccomandazioni, e subito vi risposero tutti i paesi d'Italia; il senato romano con centomila zecchini, altrettanto gli ecclesiastici, altrettanto lo Stato: molto i duchi di Savoja, parenti e vicini ai reali di Francia, ed Emanuele Filiberto impose ducento mila zecchini ai sudditi: centomila il duca di Toscana, altrettanti Venezia, ricevendo in pegno sette diamanti della corona: ducencinquantamila ne votò il clero cattolico. Dove ci pajon notevoli e la spontaneità di quelle offerte, che attestano come una tal guerra fosse popolare: e il dispiacere che il papa mostrava di esser costretto a cercare. Caterina si era indotta, nel 1568, a concedere l'editto di pacificazione di San Germano, col quale veniva a riconoscere gli Ugonotti e la pubblicità del loro culto; e impalmò una sua figliuola ad Enrico re di Navarra, capo di questi. Il Parlamento negò registrare quell'editto; il popolo indignavasi del matrimonio, e viepiù quando i seguaci di esso re ricusarono curvarsi all'effigie della Madonna. Il Correr, ambasciatore veneto nel 1570, scriveva: «In Parigi il popolo è così devoto, levatone un picciol numero, e così nemico degli Ugonotti, che con ragione posso affermare che in dieci città delle maggiori d'Italia non vi sia altrettanta devozione ed altrettanto sdegno contro i nemici della nostra fede, quanto in quelle». Commetteansi eccessi contro di loro, a loro attribuivansi le pubbliche sciagure e inumani delitti, come un tempo agli Ebrei; ai loro supplizj accorreasi come a una festa, piacendosi d'atroci mutilazioni. Crebbe l'ira contro gli Ugonotti dacchè le armi cattoliche di Spagna, di Venezia e del papa ebber rotta a Lepanto la flotta turca, e salvato da un'invasione musulmana l'Italia e l'Europa; mal soffrendo che una così segnalata vittoria si fosse riportata senza che la Francia vi concorresse. Il nuovo duca di Guisa, caporione del partito cattolico, viepiù se ne esaltò, e indispettivasi che la decretata tolleranza scemasse la sua onnipotenza, e fosse rimesso in onore l'ammiraglio di Coligny, ch'egli credeva autore dell'assassinio di suo padre. Invano Carlo IX, rinnovato l'editto di pacificazione, volle che i due emuli giurassero dimenticar le ingiurie. Il Guisa pensò ripagar l'assassinio coll'assassinio, spedienti allora pur troppo consueti[14]; e il Coligny fu colpito, non ucciso. Se la tigre assapora il sangue chi più la frena? e le fazioni son tigri. Quinci e quindi preparavasi una strage universale; il papa stesso la prevedeva, e ne dava avviso[15]: non restava che a decidere chi primo. E primi furono i Cattolici, che la notte di san Bartolomeo del 1572 assassinarono molti Ugonotti, sul cui numero corre grandissima diversità. L'esecrazione per quel fatto non potrà esser menomata da ragionamenti; ma i fatti provano che Carlo IX e Caterina ne erano innocenti, se non ignari; che dovettero consentire a quel che imponeva o il furor della vendetta o il pericolo di rimanerne vittima. Di questi successi noi abbiamo narratore Enrico Caterino Davila (1576-1631), i cui nomi derivano dal re e dalla regina, benefattori di suo padre dopo che i Turchi l'ebbero espulso da Cipro dond'era connestabile. Nacque a Padova, fu lungamente in Francia, della quale potè veder dappresso gli scompigli e prendervi anche parte. Fedele alla bandiera cattolica, meno per credenza che per politica, sostiene continuo la fazione regia; minuzioso come chi è abituato alle anticamere, pure con occhio arguto scerne le ipocrisie de' partiti, vagheggia la buona riuscita ottenuta dai furbi o dai forti, e la strage del san Bartolomeo disapprova solo perchè non raggiunse lo scopo. Ma che quella fosse una lunga premeditazione ogni carta che si scopre o che meglio si legge lo smentisce. Se Caterina pensò realmente toglier di mezzo il Coligny, e il misfatto crebbe a inaspettate proporzioni, ella non sarebbe men colpevole, ma in modo diverso dal vulgato. Ciò che sgomenta si è che quell'esecrabile delitto venne festeggiato, quanto vedemmo ai dì nostri alcuni altri assassinj, fin giustificati teoricamente: a Roma una medaglia fu coniata per rammemorarlo; il Vasari lo dipinse; il famoso milanese Francesco Panigarola, predicando in San Tommaso del Louvre, in presenza a tutta la Corte, congratulava il re che, dopo aver tanto pazientato, ed esposto l'onor del regno e la dignità propria a pericoli evidenti, avesse alfine restituito il manto cilestro e i gigli d'oro alla bella Francia, dianzi abbrunata; ristabilito la vera religione cristiana nel paese cristianissimo, purgato dall'infezione dell'eresia quanto è fra la Garonna e i Pirenei, fra il Reno e il Mare[16]. Il Tasso, e tutti gli scrittori del tempo magnificano quel fatto. Il Requesens, governatore di Milano, aveva scritto al granduca: _De Francia tengo casi los mismos. Y me pesa mucho que non se proceda contra los hereses con el rigor que se començo, y convenia. Plazera a Dios que el rey cristianissimo tenga el fin que publica, y a su tiempo tome la occasio._ Poi come ebbe notizia della strage, al 3 settembre rallegravasi seco _de lo subcesso en la corte de Francia a los 24 del passado, pues la muerte del Amirante, y de las mascabeças de Luteranos, que fueron muertos a quel dia por los Catolicos. Sarà tanta falta a los Ugonotes, y abierto camino al rey cristianissimo para que, con el buen zelo que tiene, pueda allanar su regno, y asentar las cossas de la religion como convenga demas delo que esto ymportara para asentar las cossas de Flandes ecc._ E al 10 settembre: _Espantome que entonces no tuniesse v. e. el aviso de la muerte del Almirante, y de los demas hereses de Francia. De que con el ordinario passado me alegre con v. e., come me alegro agora de nuevo, con la qual cessara lo de la armada de Estrozi: pues se occupara en cobrar la Rochela, y todos lo demas umores que v. e. dize que se sospechava que andavan levantandose._ E il 14: _Y es con muy gran razon alegrarse v. e. con migo del buen subceso de Francia, pues siendo aquel tan en servicio de la christianidad, y occasion para que el rey christianissimo pueda asentar las cossas delle como le conviene en su regno. Me avia de caber tanta parte de contentamiento despues a ca estan estas fronteras quietas, y nos ôtros mas Plega a Dios dellevallo adelante pues lo que mas conviene es la paz entre los principes christianos, y atender solo contra los infieles, ecc._ Anche altre lettere trovammo negli archivj, di congratulazione per quel fatto, pel quale furono ordinate feste di ringraziamento in tutta Toscana e altrove, considerandola come un gran pericolo isfuggito. Effetto immediato della strage in Francia fu il prorompere più violenta la guerra civile, la quale con variatissimi successi continuò lungo tempo[17]. Caterina, mescolata per trent'anni a que' fatti, subì giudizj affatto diversi, certo ebbe molto talento, molta ambizione, molta abilità, poca morale, badando solo al fine, qual era di salvare il trono dei Valois. Sisto V, coll'altissimo sentimento che avea dell'autorità, dovea condannare i re eretici di Francia, ma al tempo stesso riprovare la Lega che erasi formata contro di loro. Pertanto non volle continuare i soccorsi che Gregorio XIII avea dato alla Lega, e quando la Spagna lo eccitò a mantener le promesse del predecessore, all'ambasciadore che dicea volergliene far l'intimazione a nome della cristianità egli rispose: «Se voi mi fate l'intimazione, io vi fo tagliar la testa». Insieme però nel settembre 1585 avventava la scomunica a Enrico di Navarra ed Enrico di Condè, rimasti caporioni del partito ugonotto. Il parlamento di Parigi ricusò registrar la bolla; il re di Navarra fece affiggere in Roma una protesta, ove lo chiamava falso papa ed eretico, e che lo proverebbe in un Concilio legittimamente radunato. Sisto s'inviperì di tale atto, poi meravigliandosi che alcuno avesse tanto osato, malgrado il terrore che ispirava, prese buon concetto di quel principe; mentre d'Enrico III, altro figlio di Caterina, prevedeva che il suo carattere lo condurrebbe al punto di dover gittarsi in braccio agli Ugonotti. Così fu, e questo re che già s'era disonorato in Polonia, trovò un fanatico che l'uccise in nome della religione cattolica, come in nome della protestante era stato assassinato il Guisa. Toccava allora la corona di Francia al re di Navarra col nome di Enrico IV, ma era costretto conquistarsela. Sono vicende famose per istorie e poemi, dove noi tocchiam soltanto di volo ciò che appartiene all'Italia. La Lega formata dai Cattolici per respinger il re ugonotto, ebbe ajuti da Filippo II di Spagna, che vi mandò Alessandro Farnese duca di Parma[18] uno de' migliori generali del mondo, e che allora guerreggiava i Protestanti ribellati nelle Fiandre. Uom positivo quanto valente capitano, non ambiva la gloria, ma la riuscita; nulla abbandonava al caso, ma colla lentezza assicuravasi i successi. Se Enrico IV gli facea dire da un araldo «Uscite dal vostro coviglio, e venite ad affrontarmi in campo aperto», egli rispondeva: «Non ho fatto tanto viaggio per venir a prender consiglio da un nemico». In fatto con sapiente inazione riuscì a vittovagliare l'assediata Parigi: come un'altra volta, accorso in ajuto del circondato Mayenne, a Caudebec ne salvò tutto l'esercito, sotto gli occhi d'Enrico. In questi successi volea vedersi direttamente la mano di Dio. Per sostener il coraggio degli assediati, il papa avea spedito legato il cardinale Cajetano, a cui si accompagnò il milanese padre Panigarola. Questi era stato in patria scolaro di Primo Conti e d'Aonio Paleario: dotato di prodigiosa ritentiva, a soli tredici anni fu mandato a Pavia a studiar leggi, ed è bello udirgli dipingere la dissipazione degli studenti d'allora. «A poco a poco (narra egli di sè) così sviato divenne, che questione e rissa non si facea, dove egli non intervenisse, e notte non passava, nella quale armato non uscisse di casa. Accettò di più d'esser cavaliero e capo della sua nazione, che è uffizio turbolentissimo, e amicatosi con uomini faziosi di Pavia, più forma aveva ormai di soldato che di scolare. Nè però mancava di sentire in alcun giorno li suoi maestri,... de' quali, sebbene poco studiava le lezioni, le asseguiva nondimeno colla felicità dell'ingegno, e le scriveva; e quando andava talora a Milano, così buon conto ne rendeva al padre, che levava il credito alle parole di quelli, che per isviato l'aveano dipinto. Si trovò egli con occasione di queste brighe molte volte a Pavia in grandissimi pericoli della vita; e fra gli altri trovandosi presso San Francesco in una zuffa fra Piacentini e Milanesi ove fu morto un fratello del cardinale Della Chiesa, da molte archibugiate si salvò collo schermo solo d'una colonna, ove pur anche ne restano impressi i segni»[19]. Dopo gioventù così dissipata andò francescano, e preso a modello il famoso oratore Cornelio Musso, salse anch'egli in gran celebrità; dove arrivava era accolto a battimani, e spesso costretto recitare un discorso prima di riposarsi. A istanza di Pio V ito a Parigi, fu festeggiato, massime da Caterina regina. Tornato in Italia il 1573, continuò i trionfi, e venne fatto vescovo d'Asti nel 1587. Per verità egli non mostra conoscere nè la teologia abbastanza, nè il cuore umano; ma parla vigoroso, e forse più vigoroso declamava; donde quei grandi effetti. Da Sisto V rispedito in Francia il 1589, dal pulpito esaltava gli avvenimenti coi paragoni di Betulia liberata e di Senacherib: sul testo _Ecce motus magnus factus est in mari, ita ut navicula operiretur fluctibus_, confortava i Parigini a sostener que' patimenti, assomigliati a quelli di Cristo; prometteva a nome del papa un giubileo speciale: esortava a respinger la milizia inglese, «le cui crudeltà sono scritte con il sangue nei sobborghi vostri», e vendicarsi de' Politici e del re di Navarra, raffigurato in Acabbo. Ma il Farnese morì, ed Enrico IV calcolò che il regno di Francia poteva anche comprarsi con una messa[20]. Cercò dunque riconciliarsi col pontefice; fece l'abjura: e alfine fu ricevuto all'assoluzione, imponendogli di ristabilire il culto cattolico in tutto il Bearn; pubblicare in Francia il Concilio di Trento, salvo certe modificazioni; restituire al clero cattolico tutti i beni, escludere i Protestanti da ogni pubblica carica; a lui personalmente imponevasi di sentir messa conventuale tutte le domeniche, e messa privata ogni giorno, dire il rosario tutte le domeniche, le litanie tutti i mercoledì, digiunare tutti i venerdì, confessarsi e comunicarsi almen quattro volte l'anno. Il 15 novembre 1595 si fe la cerimonia, che pel papato riusciva un insigne trionfo dopo tante umiliazioni. In San Pietro, ornato colla massima pompa, il pontefice Clemente VIII nell'arredo più splendido sedeva sul trono, circondato da' cardinali e dalle cariche di palazzo: e con dodici penitenzieri portanti la bacchetta. I cardinali D'Ossat e Du Perron, incaricati di rappresentare il re, lessero la professione di fede, e promisero le condizioni imposte. Intonossi il _Miserere_, durante il quale il papa con una verga batteva or l'uno or l'altro dei due messi, e dichiarò assolto il re, e tornogli il titolo di cristianissimo. Allora proruppero i canti del gaudio, accompagnati da organi, campane, cannoni: e il papa abbracciando i due procuratori disse: «Mi reputo felice di aver aperto al vostro signore le porte della Chiesa militante». Du Perron soggiunse: «Accerto vostra beatitudine che, colla fede e colle opere buone, egli aprirà a se stesso le porte della trionfante». Il papa anche nell'interesse mondano aveva di che esultare, poichè da quell'istante cessava di esser protetto soltanto dalla Spagna, sincera e convinta cattolica, ma dura e imperiosa, e trovava un nuovo appoggio in questa Francia bizzarra e generosa. Enrico, che pur non s'intendeva molto di libertà religiosa, meritò da Clemente VIII quell'elogio: _nihil sibi de religione adsumens_. E quando fu ucciso[21], Paolo V disse al cardinal d'Ossat: «Voi avete perduto un buon padrone, io il mio braccio destro»; e scrisse alla vedova Maria de' Medici una lettera di cui trovammo la bozza al Nº 4029 dell'Archivio Mediceo: «La morte del re Enrico, che sia in gloria, essendo caso così grave e acerbo che eccede ogni esempio, dovrà credere la maestà vostra che sia altrettanto grave ed acerbo e con ogni eccesso d'amore il dispiacere con che sentiamo ancor noi questa disgrazia, la quale tanto più punge e ferisce l'animo nostro, quanto che partecipandone così gran parte, non conosciamo che questo rispetto possa diminuire in lei il suo dolore ecc.»[22]. Noi ci limiteremo a riflettere come Caterina proclamasse la tolleranza religiosa, e i Cattolici vi si opposero fino a proromperne la guerra civile: Carlo IX rinnovò l'editto di pacificazione, e vi rispose la micidiale notte di san Bartolomeo: Enrico III non vi riuscì per opposizione della Lega: Enrico IV potè stabilirla mediante l'editto di Nantes, che però fu revocato da quel che i Francesi chiamano il gran re. Se ne argomenti qual concetto s'avesse della tolleranza religiosa. NOTE [1] Il P. Theiner occupa tre volumi in-folio sol per narrare di questo pontificato. [2] DE THOU, L. LXXIX. [3] Nel carteggio de' Medici a Firenze, filza 255, si vede quanto fosse approvata e festeggiata l'elezione del cardinal Montalto. [4] Vedi sopra a pag. 386 il volume precedente. Anche il marchese Muti scriveva al duca di Savoja che, mentre Sisto V era malato, gli comparve in camera un frate vestito di bianco, ch'era il diavolo, e gli rammentò come fosse scaduto il tempo pattuito, e bisognava andarsene con lui: che il papa non volle confessarsi: e morto che fu, un uccellaccio volò attorno alla sua finestra, e il cielo da sereno si fe bujo; scoppiarono fulmini, e uno colpì lo stemma papale sul ghetto degli Ebrei. E sopra relazioni siffatte tessono le loro storie l'arguto Petrucelli ed altri. Vedasi J. LORENTZ, _Sixtus V und seine Zeit_. Magonza 1832. [5] Questa ottenne a suo zio Antonio l'abazia di Fleury, il vescovado d'Orleans, il cappello rosso, l'arcivescovado di Tolosa: a Carlo suo fratello l'abazia di Bourgueil e il vescovado di Condom; a Francesco altro fratello l'abazia di San Cornelio di Compiègne e il vescovado di Amiens; all'altro di nome Guglielmo il vescovado di Pamiers; due sorelle furono abadesse l'una a Maubuisson; l'altra a San Paolo in Beauvoisis. [6] Brantome, suo nimicissimo, non ne intacca la costumatezza. Enrico IV, pur suo nemico, diceva al presidente Claudio Groulard: «Affedidio, cosa poteva fare una povera donna, rimasta vedova con cinque figliuoli sulle braccia e le due famiglie di Navarra e di Guisa anelanti alla corona? Strane parti doveva ella sostenere per ingannar gli uni e gli altri, eppure salvar, come fece, i suoi figliuoli, che regnarono successivamente per la savia condotta di donna tanto accorta. Mi meraviglio che non abbia fatto di peggio». _Mém. de Groulard_, nel vol. II della collezione di _Petitot_, pag. 384. [7] _Discorsi_, lib. II, c. 13. [8] Il 7 gennajo 1559 da Blois Niccolò Capponi, per man del Tornabuoni ambasciador fiorentino, mandava al granduca notizie di Francia, soprattutto lagnandosi che molti colà sostenessero allora le dottrine luterane, mentre a Ginevra le calviniche; e si leggessero i libri di Melantone e «di Pietro Martire fiorentino che ne tengono conto»; cerca si dissuada il papa dal fare il Concilio, asserendo che «se si vien al Concilio, al certo hanno ragione, perchè si fonderanno in su una cosa ove si fonda la Chiesa romana anche lei; e se vengono alle mani, la risoluzione sarà che o non si farà nulla o con poca reputazione». [9] HAAG, _France protestante_, al nome. Il cardinale Commendone al cardinale Borromeo scriveva nel dicembre del 1561. «Del vescovo di Troye in Campagne mi hanno detto per cosa certa come, già pochi giorni, egli ha solennemente renunziato il vescovado e l'Ordine, e presa _manuum impositionem_ dalli ministri calviniani con queste solenni parole: _Abrenuntio manuum impositionem papisticæ sathanicæ_: e che avea voluto predicare nella chiesa di San Giovanni di Troye come ministro calviniano; ma che gli fu proibito dal conte d'Eo governatore della provincia, per paura che non si levasse tumulto nella città. Questo vescovo, ora ministro del demonio, fu figliuolo del principe di Melfi, fuoruscito di Napoli, di casa Caracciolo, stato soldato, frate, abbate, vescovo; e nel 1556 fu a Roma, dove fu accusato d'eresia, e che avesse, come veramente aveva, contaminato lui stesso gran parte della sua diocesi. Ora dicono ch'egli è in Parigi con gli altri ministri: dove vivono con somma licenza, poichè già si predica in più case dentro della città..... e con tanta insolenza che, già pochi dì, sonandosi le campane di San Medardo, dove vicino abita il Beza, egli mandò a comandare che non si sonasse, e non volendo colui che sonava obbedire, fu ammazzato insieme con altri preti». Nell'_Archivio Vaticano_. [10] Si dice che i Riformati fossero due milioni. Sarebbero il sesto della popolazione, giacchè il primo censimento, fatto il 1702, dopo tante annessioni, diede 19 milioni d'abitanti: nè poteano esser più di 12 milioni al tempo della Riforma. Eran però pensatori e proprietarj, sicchè quella era veramente una rivolta politica contro la monarchia. [11] Di Caterina stavano molto in sospetto i Cattolici; e il cardinale Commendone ai 12 ottobre 1561 scriveva al cardinale Borromeo: «Monsignor di Granuela....... m'ha detto come la regina non vuole udir consiglio, nè conoscere il pericolo nel quale si ritrova, nè ammettere l'offerte del re cattolico e delli duchi di Savoja e di Lorena a stabilimento suo e de' figliuoli, e che ogni dì va perdendo autorità, ed all'incontro la casa di Vendome l'acquista..... Appresso mi ha detto che frà Pietro Martire (Vermiglio) ha di continuo adito aperto alla regina, e sebbene non dubita della buona mente di S. M., teme nondimeno ciò portare gran pregiudizio alla causa, sgomentando li Cattolici, e dando ardire agli Eretici. Similmente ha mostrato maraviglia e dispiacere assai che il reverendo legato (il cardinale di Ferrara) dimostri molta amorevolezza e confidenza con la casa di Vendome, usando molti rispetti verso gli eretici». _Arch. Vaticano._ In una relazione di Francia al duca di Toscana 13 maggio 1563, filza 4012, dopo la pace, si scrive: «Il cardinale privato di Sciattliglion avea scritto alla regina che saria andato presto a trovare sua maestà e saria andato in abito di gentiluomo e cavaliero, avendo lasciato la impurità della veste romana, per dir quelle parole ch'egli temerariamente e insolentemente usa». Tra i famigliari di Caterina de' Medici fu Giacomo Corbinelli, d'illustre famiglia fiorentina e di bella coltura, e che pel primo pubblicò il libro di Dante del Vulgare Eloquio. Lo storico De Thou dice di lui: «Non sapevasi di qual religione fosse: era d'una religione politica _alla fiorentina_, ma era uomo di buoni costumi». Cosmo Ruggeri fiorentino s'introdusse alla Corte di Caterina de' Medici; e pien di talento e di sfacciataggine, ottenne onori e soldi. Tirò l'oroscopo de' signori della Corte: cominciò a far almanacchi ogni anno, sparsi di sentenze d'autori latini. Venuto in fin di morte, ed esortato a pensar a Dio, prese in burla il curato e i Cappuccini, protestando aver sempre creduto non v'abbia altro Dio se non i re e principi che possono farci del bene, nè altri diavoli sè non i nemici che ci tormentano in questo mondo. Morto in tali sentimenti, il suo cadavere fu strascinato ove si sepelliscono le bestie. Molto s'applicò alla magia, fu accusato di sortilegj contro Carlo IX ed Enrico IV. [12] A proposito di martiri d'eretici va citata un'opera di Feliciano Niguarda, oratore nel Concilio di Trento, poi vescovo di Como, _Assertio fidei catholicæ adversus articulos utriusque confessionis fidei Annæ Burgensis juris doctoris, et in academia aurelianensi olim professoris, ac postremo parlamenti parisini senatoris: quam ipse eidem parlamento obtulit cum, propter hæresim diu in carcere inclusus, paucis post diebus ad supplicium esset deducendus: nec non adversus pleraque id genus alia. Præterea contra ejusdem mortis historiam, quæ martyrium inscribitur, Lutetiæ editum; deque hæreticorum miraculis specialis additur articulus_. Venezia 1563. [13] Lettera del 6 ottobre 1570 a Nofri Camajani ambasciadore a Roma, nell'Archivio centrale di Firenze, _Carteggio di Roma_, app. LXXXII. Delle cose di Francia abbiam parlato nel vol. II, pag. 408. [14] Sull'assassinio politico abbiam noi raccolto bizzarre particolarità, e pubblicate nelle Spigolature degli archivj di Firenze. [15] Il 27 giugno 1566 Pio V scriveva a Caterina lamentandosi che, sotto il nome della pace, crescesse di tanto l'ardire de' Riformati, e da ciò prendesser ansa anche altri. _Non est quod quisquam istos Dei et vestros rebelles atque hostes patiendo, tollerando, dissimulando ad sanitatem redituros esse speret; et nescio quam temporis maturitatem expectandam censeat, et illo pacificationis edicto paci regni consuli existimet. Crescit eorum in dies furor, augetur animus; quo lenius cum illis agitur, eo magis eorum corroboratur audacia. Non solum matris Ecclesiæ obedientiam abjecerunt, sed in primis regiæ potestatis jugum excutere, et legum ac judiciorum metu abjecto, se se in libertatem asserere et rapinarum sacrilegiorum, scelerum et flagitiorum omnium licentiam assequi student. Quo circa majestatem tuam hortamur, monemus et per omnipotentem Deum obstestamur ut, cum videat jam nihil cunctando et patiendo perfici, tantum incendium, antequam latius serpeat, extinguere conetur: si enim hæreticorum sectas alias ex aliis in isto regno in dies exoriri, et multiplicari permiserit, tum volet illud extinguere cum minime poterit. Utinam non eveniant ea quæ eventura prædicimus!_ [16] Sermoni del Panigarola, Parigi 1599, in 8º, p. 318. Oltre i già conosciuti documenti, fu ultimamente dal Theiner Ann. Eccles. pubblicata la corrispondenza del nunzio Salviati, che conferma viepiù quel che Ranke, Raumer, Mackintosch ed altri protestanti sostennero, essere quello un delitto politico, non un delitto religioso. Vivissima era l'ira del duca di Guisa contro l'ammiraglio Coligny, cui attribuiva l'assassinio di suo padre. Coligny entrò in Parigi alla testa di trecento gentiluomini, quando trattavasi del matrimonio di Enrico di Navarra con Margherita di Valois: e acquistò le buone grazie di Carlo IX, che così parea sottrarsi alla dipendenza di Caterina de' Medici e del duca d'Anjou, e che forse andava a romper guerra a Filippo II per cacciarlo dai Paesi Bassi. Ciò spiaceva immensamente a quei due, onde risolsero di uccider l'ammiraglio, ispirati anche da Filippo II. Per l'uccisione di lui avvenne il massacro. Il nunzio Salviati sapea solo che si attentava alla vita del Coligny: nel riferire il fatto dice: «Quand'io scriveva i giorni passati che l'ammiraglio procedeva troppo, e gli si darebbe sulle mani, ero convinto che non si voleva più sopportarlo: ero confermato in tal opinione quando scrissi che speravo dar ben presto a sua santità qualche buona notizia, ma non credevo alla decima parte di quel che ora vedo co' miei occhi... Se l'ammiraglio fosse morto del colpo d'archibugio che gli fu tirato, non credo sarebbero perite tante persone». (Lett. 24 agosto). Carlo IX avea prevenuto il Salviati, spedendo assicurare il papa che il fatto riuscirebbe a pro della religione; ma in quel momento di stupore, le spiegazioni che gli stessi reali ne diedero eran differenti, secondo le persone e le circostanze. In fatto, messo mano a un primo delitto, i soliti ladri e assassini che compajono in ogni rivoluzione ne profittarono; si disse che uccideano gli Ugonotti perchè questi aveano tramato d'uccidere i Cattolici: Caterina fu contenta di poter palliare sotto un delitto universale il delitto particolare. «Quelli che si vantano d'aver colpito l'ammiraglio son tanti, che piazza Navona non basterebbe a capirli (dice lo spaccio 22 settembre)..... Tutto quanto scrissi riguardo all'ammiraglio si conferma. La reggente lo fece colpire senza che il re lo sapesse, ma con partecipazione del duca d'Anjou, della signora di Nemours e del duca di Guisa. Se Coligny fosse morto al primo colpo, gli altri non sarieno stati trucidati. Ma sopravvivendo alle ferite, gli autori dell'attentato temettero che il delitto fallito non attirasse maggiori pericoli, e s'intesero col re, e risolsero di buttar ogni vergogna, e sterminare quei del suo partito». L'Adriani, nella _Storia Fiorentina_, e il Davila _Guerre Civili_, asseriscono un concerto fra il re di Francia e quello di Spagna, fatto a Bajonna. Questa asserzione adottata dagli storici più letti, è vittoriosamente confutata dai documenti. Ponno vedersi l'italiano Alberi, _Vita di Caterina De Medici_, e il tedesco G. Goldan, _La Francia e la San Bartolomeo_; ed, oltre quel che ne abbiamo noi recato nella _Storia Universale_, libro XV, una pienissima dissertazione di Giorgio Gandy nella _Revue des questions historiques_, vol. I, pag. 1866. Un autore tedesco prese a dimostrare che fu un'ordita di Caterina col re di Navarra per distruggere i Cattolici. W. VON SCHUZ _Die aufgehelte Bartolomæusnacht_. Lipsia 1845. Non dico che abbia ragione, dico che anche questo punto fu sostenuto con buone ragioni. Da Bossuet gli accusatori copiarono che il legato pontifizio venne a Parigi a congratularsi con Carlo IX d'«un'esecuzione lungamente e saviamente meditata». Ma Bossuet donde ha tolta quest'asserzione? Eppur divenne la base de' racconti, poi della tragedia di Chenier, degli _Ugonotti_ di Scribe, e d'altri. Su tutti questi fatti si consultino in senso contrario: DE FELICE, _Histoire des Protestants de France_, 1850. COQUEREL, _Précis de l'histoire des Eglises reformées_, 1862. DABGAUD, _Histoire de la liberté religieuse_. MONAGHAN, _L'Eglise et la Reforme, Bulletin de la Société de l'histoire du protestantisme français_. Dopo tant'altre storie di Caterina vedasi _Debts et creanciers de la reyne mère Cathérine de' Medicis; documents publiés pour la première fois d'après les archives de Chenonceau, avec une introduction par_ M. L'ABBÈ C. CHEVALIER. Parigi 1862. [17] Delle questioni religiose di Francia, come d'ogni altra cosa dove ci fosse a far rumore volle impacciarsi il gran ciarlatano Giovanni Battista Marini. E nella _Sferza, invettiva a quattro ministri dell'iniquità_ (Napoli 1626) flagella quattro autori di un'opera eretico-democratica; sostiene che i Calvinisti sono nemici dei re; e conchiude, questa volta senza metafore, che «al fuoco dannare si devono tutti coloro, insieme con quei libri ove tali dottrine si contengono: deonsi punire gl'impressori e i venditori di essi: deonsi spianare le loro cattedre, e diroccare le loro chiese». [18] Il gesuita Guglielmo Dondini descrisse le imprese del duca di Parma a soccorso della Lega. Vedi _Bibliotheca romana_ di Prospero Mandosio. [19] Sono a stampa varie sue scritture polemiche, fra cui le _Lezioni Calviniche_, recitate d'ordine del duca di Savoja in Torino il 1582, per opporsi ai novatori che tuttodì cresceano. Ivi loda il congiungere la predicazione colla teologia; questa gl'insegnò a fare più sicure le lezioni. Una sua apologia per negare la voce sparsasi, ch'egli si fosse fatto predicatore evangelico a Ginevra, è manuscritta nella libreria Soranzo a Venezia. Scrisse pure _De Parisiensium obsidione_ (Roma, senza data). Ne' manuscritti della Magliabecchiana VII, 346 è quell'epigramma, probabilmente di Vincenzo Giliani, in lode del Panigarola. _Religionis honos et gloria magna, clerique_ _Seraphici summum, Panicarola, decus...._ _Ut nautæ occludant mundi a sirenibus aures_ _Quo valeat tuta sistere prora sinu,_ _Vitandumque mones Scillam, infestumque Caribdim...._ _Doctrinamque piam, sinceraque dogmata sectans_ _E scopulis navim litora ad alma vehis._ Nella classe XXXIV, cod. 17 de' manuscritti della Magliabecchiana è un _Breve compendio della dottrina di Platone in quello ch'ella è conforme alla fede nostra_, composto da un tal Verino, il quale dedicandolo a Giovanna d'Austria granduchessa di Toscana, dice: «Perlocchè l'A. V. S. con gran prudenza attende a sì bella notizia qual è quella de' movimenti de' cieli, servendosi dell'eccellentissimo astronomo Egnatio Danti... io stimo che vorrà sentire la non meno salutifera che gioconda dottrina della cristiana teologia del padre F. Panigarola». [20] Negli Archivj Medicei è una lettera del 26 aprile 1593, che Enrico IV scrive al granduca ringraziandolo d'avergli mandato il cardinale Gondi a consigliarlo di farsi cattolico ed «Ho voluto e voglio promettervi, com'io fo in fede e parola di re, per la presente, scritta e segnata dì mia mano, di far dichiarazione e professione pubblica della religione cattolica secondo le costituzioni della Chiesa, come hanno fatto i re di Francia miei predecessori, nel termine di due mesi». Accetta l'offerta fattagli di mille Svizzeri pagati per un anno, e del soldo per sei mesi di altri mille: gli fa comprendere di mancar affatto di denaro, e gli chiede a prestito altri ducento mila scudi contanti, coi quali mezzi potrà ridur in breve tempo la città di Parigi, sicchè a lui ne sarà debitore, e promette restituirglieli e restargliene obbligatissimo. [21] Frà Serafino Banchi, domenicano fiorentino, rivelò a Enrico IV la trama che Pietro La Barrière avea fatta per ucciderlo: onde costui fu preso e appiccato. Il Santo Uffizio di Roma credette avesse con ciò violato il secreto sacramentale, e perciò lo chiese al priore di Parigi, ma Enrico lo protesse, e lo fe giunger a Firenze, ove il granduca lo tenne salvo, finchè, nella riconciliazione di Enrico IV, si stipulò la salvezza del Banchi. _Storia segreta di Enrico IV_, Tom. III. Lo stesso partito che inventava Dante precursore dell'unità regia d'Italia, volle attribuir a Enrico IV l'idea d'ingrandir la Casa di Savoja sopra l'Italia tutta. La famosa sua _Repubblica Cristiana_, che al fin de' conti non era più che un progetto, mirava a metter de' limiti alle grandi potenze, tali che non aspirassero a sorpassarli, o se il volessero, fossero impedite da tutte le altre. Era insomma un intervento generale; unico modo invero che finora siasi divisato per prevenire le guerre. In essa _Repubblica Cristiana_ doveano esservi quindici signorie: cioè cinque elettive, il papa, l'imperatore, i re di Polonia, Ungheria, Boemia: sei ereditarie, Francia, Spagna, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Lombardia: quattro repubbliche sovrane; prima la veneta; la seconda composta dei ducati di Genova, Firenze, Modena, Parma, Mantova, e i piccoli Stati di Lucca, Mirandola, Finale, Monaco, Sabbioneta, Correggio e simili; la terza gli Svizzeri, la quarta delle diciassette provincie de' Paesi Bassi. A capo della Repubblica Cristiana doveva stare il papa. [22] Quando Maria De Medici partì per Francia, santa Maddalena de' Pazzi, ch'essa visitò più volte in Santa Maria degli Angeli in Firenze, le predisse avrebbe molti figliuoli, purchè avesse procurato presso il marito, Iº che i Gesuiti fossero rimessi nel regno, IIº che cercasse la distruzione degli eretici, IIIº che tenesse in ispeciale affezione i poveri. DISCORSO XL. ERETICI A NAPOLI. Degli eterodossi nel Napoletano largamente discorremmo, parlando del Valdes e di Galeazzo Caracciolo, e più nel Discorso XXXII sopra l'Inquisizione: non ci resta dunque che spigolar alcune cose ommesse. I primi semi della dottrina luterana diconsi sparsi dai soldati che aveano menata a orribile strazio Roma, e che colà passarono per iscacciarne il Lautrec e i Francesi. Nel 1536 Carlo V vi pubblicò un rigoroso editto che vietava ogni pratica coi Luterani, pena la vita e la confisca[23]: e già all'uopo stesso nel 1533 vi si erano stabiliti i Teatini, i quali vedemmo attenti sopra le dottrine sparse dal Valdes. Pure nel 1536 vi predicò l'Ochino in San Giovanni Maggiore, sentito con grand'attenzione da esso imperatore. Ma partito questo, il governatore Toledo, al quale esso avea raccomandato di badare non si propagasse l'eresia, non lasciogli continuar le prediche se prima non dichiarasse in pulpito chiaramente le sue opinioni circa i punti controversi. Il frate seppe schermagliar di modo, che potè continuare il quaresimale, e partendo lasciò molti imbevuti delle sue dottrine «i quali poi con la mutazione della vita furono detti spiritati»[24], o piuttosto _spirituali_, titolo che spesso vediam loro attribuito. In occasione d'un grave tremuoto al 7 agosto, il popolo gridò fosse castigo di Dio contra gli eretici, onde molti furono detenuti dalla Corte dell'arcivescovado. Pure nel 1539 tornò a predicarvi l'Ochino nel duomo[25], e il Castaldo dice che «le sue prediche diedero campo e ragione a molti di parlare della santa scrittura, di studiare gli evangeli, e disputare intorno la giustificazione, la fede e le opere, la potestà pontificia, il purgatorio e simili altre difficili questioni, che sono de' teologi grandi, e non da esser trattate da' laici, e massime di poca dottrina e di minime lettere. Ed io dirò cosa che parrà incredibile ed è pur verissima, che insino ad alcuni coriari della conceria al Mercato era venuta questa licenza di parlare e discorrere dell'epistole di san Paolo e dei passi difficultosi di quelle, e come in ogni parte d'Italia dove avea predicato, così anche in Napoli lasciò partendo alcuni fedeli discepoli». «Nella invasione che sopportò l'Italia degli eretici luterani sotto il Borbone, dice il Bernino[26], ritrovavasi già o infetto o dispostissimo alla infezione il regno di Napoli quando colà giunse Giovanni Valdes... sovversore miserabile di quel popolo. Conciossiachè egli profondamente eretico luterano, ma altrettanto bello d'aspetto[27], grato di maniere e, ciò che rende più attrattiva la bellezza, fornito di vaga erudizione di lingue, pronto di risposte e studioso della sacra scrittura, annidatosi in quella metropoli, ebbe uditori in copia e seguaci in fede». Anche nella vita di Galeazzo Caracciolo (Ginevra 1587) è detto che il Valdes, «avendo qualche conoscenza dell'evangelica verità, e sopratutto della dottrina della giustificazione, aveva cominciato a trarre alcuni nobili, coi quali conversava, dalle dense tenebre, rifiutando le false opinioni della propria giustizia e dei meriti delle buone opere, e per conseguente dimostrando molte superstizioni». Giosia Simler protestante scrive pure che il Valdes «guadagnò moltissimi e massimamente dei nobili, a Cristo, e vi fu in quel tempo nella città di Napoli una comunità non ispregevole d'uomini pii». Contano fra i pervertitori di que' paesi Marcantonio Flaminio, che, secondo il Bernino «si diè alla predicazione della vita spirituale pel territorio di Sessa e di Caserta», oltre il Carnesecchi e il Vermiglio, che a Napoli era abate degli Agostiniani in San Pietro ad Aram: il Giannone aggiunge che esso Vermiglio ebbe tanto credito e concorso di gente, che, chi non v'andava, era riputato mal cristiano[28]. Tra' costui auditori e settarj memorano Francesco Caserta, che poi trassesi dietro il marchese Caracciolo; Benedetto Gusano da Vercelli: Giovanni Montalcino «gran lettore delle epistole di san Paolo»[29], Lorenzo Romano siciliano. Per cura de' governanti le conventicole cessarono, anche prima che il Valdes morisse circa il 1540. In quest'anno il Carnesecchi avea già letto il libro del _Benefizio di Cristo_, forse ancora manoscritto, e che certamente era stampato nel 1543 a Venezia, e molto fu diffuso nel reame. Allora racconta il biografo di Galeazzo Caracciolo che infestavano il regno di Napoli alcuni Ariani e Anabattisti, «i quali, veduto che Galeazzo non aveva ancor raggiunto la piena cognizione delle Scritture, non tralasciarono nulla per insinuargli i loro dogmi falsissimi». Ma egli conversò quotidianamente coi discepoli del Valdes «che in Napoli erano numerosissimi, e che nella cognizione della verità cristiana non erano progrediti oltre l'intelligenza dell'articolo della giustificazione e lo schivare alcuni abusi del papismo: per altro usavano alle chiese, udivano messa, partecipavano alle consuete idolatrie». Esso li seguì alcun tempo, e ciò l'avrebbe certamente rovinato, come altri rovinò, i quali arrestati per motivo di religione, mancando de' primarj fondamenti si ritrattarono, come avvenne al Caserta ch'era stato il principale stromento della conversione del Caracciolo. Allora furono proibiti varj libri che prima eransi stampati liberamente, quali esso Benefizio di Cristo, il Sommario della Scrittura, opera di Melantone; e nel largo davanti la porta dell'arcivescovado furono bruciati, dopo una predica del domenicano Ambrogio de' Bagnoli. Il Castaldo che lo racconta, assicura che dopo d'allora non s'intese che alcun più li tenesse, e chi parlava della santa scrittura lo facea con più modestia e sobrietà. Poi una nuova prammatica del 1545 sulla censura de' libri, e la soppressione di alcune accademie fecero svanire lo studio di quelle curiosità[30]. Al Caracciolo avvenne altrimenti, perchè, venuto in Germania per gl'incarichi suoi, prese ad operare più intrepidamente che non i Nicodemiti che avea lasciati in Italia, e principalmente gli giovò Pietro Martire Vermiglio, che allora dettava in Argentina. Istrutto da costoro, tornò a Napoli, ove ai seguaci del Valdes predicò l'obbligo d'astenersi dall'idolatria, ma non gli diedero ascolto, non approvando essi la dottrina che promette afflizioni, persecuzioni, perdita di beni e di onori, abbandono della casa, della patria, della famiglia per servir Dio[31]. Che cosa di lui seguisse il vedemmo: qui riferimmo tali rimproveri del Balbani per indizio dello stato delle chiese eterodosse nel reame. E anche il Vergerio dice che il Valdes lasciò «molti discepoli, uomini di corte: che se una parte di essi è riuscita netta e calda, l'altra è restata con alcune macchie, fredda e paurosa. Dio la scaldi e la faccia monda». Contro i triumviri della repubblica satanica (come Antonio Caracciolo qualifica il Valdes, Pietro Martire ch'è dice Cacomartire e l'Ochino) avventossi san Gaetano; andava o mandava ad ascoltarli, e non potendo più dubitare de' lori errori, li denunziò al cardinale Teatino; rivelò ai Napoletani la ipocrisia di costoro, che in veste d'agnelli aveano contaminato la Campania, e le indegnità commesse nelle loro conventicole, dove andavano mescolati uomini e donne; onde i capi fuggirono. Forse era tra questi il marchese Gianbernardino Bonifazio d'Oria, del quale raccontammo a p. 327 del volume II, e al quale a Danzica sul Baltico fu posta una lapide che narrava qualmente _in medio hispanicæ inquisitionis furore[32], agnita ex scriptis Melanchtonis evangelii luce, paulo post exuli voluntario, ac primo Venetias, dein ob irati pontificis insidias per Helvetiam in Germaniam et ad wormatiense colloquium delato_, morì ottagenario nel 1597, _Bonifaciorum ultimus_. Il biografo di san Gaetano racconta che questi «co' suoi ebbe grande omaggio dai pii, e concorsero a San Paolo, chiesa de' Teatini, innumerabil quantità de' principali nobili e del popolo, acciocchè quivi ricevessero i sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, e udissero Gaetano e Giovanni Marinone che a vicenda predicavano sulle cose celesti, senza pompa di parole ma con egregio profitto di virtù». Non è però a credere che ogni seme dell'errore fosse divelto nel regno. Già nominammo (vol. II, pag. 329) Francesco Romano che v'avea partecipato, ed era fuggito da Napoli ove gl'inquisitori lo citavano: a Roma presentossi al cardinale Teatino, denunziandogli gli eterodossi del napoletano, fra cui persone qualificate: indi fece pubblica abjura a Napoli e a Caserta. Come la inquisizione spagnuola fosse respinta dai Napoletani[33] vedemmo nel Discorso XXXII, ove d'altri miscredenti s'è parlato. Il marzo 1564 a Napoli, in piazza del Mercato furono decapitati, poi arsi i nobili Gianfrancesco d'Aloisio di Caserta, e Gianbernardino di Gargàno di Aversa come luterani; e «spediti dal vicario dell'arcivescovo editti ad altri di cattivo nome, i quali andamenti della corte tanto temporale quanto spirituale posero la città quasi in rivolta, e così stette molti dì e mesi»[34]. Fu allora che il vicerè Parafan de Ribera scrisse a re Filippo il 7 marzo 1564: «Ho ricevuto la lettera che vostra maestà si degnò scrivermi di sua mano il 24 gennajo, e la premura sua che le cose della religione vadano come conviensi al servigio di nostro signore, è conveniente a sì gran principe e sì gran cattolico qual è vostra maestà, e alle grazie che da esso ha ricevuto. Io farò gli uffizj che vostra maestà comanda a Roma, benchè molto non sia da profittarne. Il rimedio vero è l'attenzione che vostra maestà adopera. In una lettera che vien per mano del segretario Vargas, scrivo a vostra maestà come furono suppliziati nella piazza pubblica di questa città un cavaliere e un gentiluomo per luterani. Un d'essi è quel che fece il principal danno in questa terra tutta: e la gente nobile e il popolo han mostrato gran contentezza, benchè mai non abbiano veduto giustiziar nessuno per causa siffatta. Parvemi d'avvisar vostra maestà di quel che, per sua confessione, s'intende d'alcuni prelati di questo regno, acciocchè vostra maestà sia avvertito nelle occasioni che possono presentarsi. Supplico la maestà vostra con tutto l'interesse che posso, che, essendo pericoloso il trattare di ciò, degnisi che nessuna persona ne sappia[35]. Guardi il Signore la real persona vostra». «Dalla deposizione di Giovanni Francesco di Aloysio, detto altrimenti Caserta, si fan le seguenti confessioni. «Dell'arcivescovo d'Otranto, dice che dal 1540 fin al 1547 quando furono i tumulti a Napoli, parlò con esso molte volte, e dichiarò che teneva e credeva la dottrina luterana, e si trovò presente quando con grandissima veemenza e autorità, parlando con altri, discorreva, predicava e insegnava la dottrina luterana; e in quel tempo a Napoli era tenuto dai Luterani per un de' caporioni della setta. Deposero contro tal confessione altre persone, e quando si cercasse di passar avanti nell'esame della sua vita vi si troveriano cose più brutte: ma ci vorrebbe espressa commissione di sua santità[36]. «Del vescovo di La Cava San Felice[37] dice il Caserta che nel 48 e 49 stando in Trento, avea avuto disputa con un altro del suo uffizio perchè contraddiceva la giustificazione per la sola fede; la qual opinione egli tenea per verissima: e che così per avere detto ciò, come per esser discepolo d'altro luterano, esso lo ha tenuto per un della setta. «Dal vescovo di Catania[38] dice che, poco prima dei tumulti di Napoli, fu a visitarlo con un altro compagno suo luterano, e parlando delle cose della Scrittura, dichiarò che teneva e credeva le opinioni luterane, e mostrò possedere i Sermoni di frà Bernardino da Siena e il Benefizio di Cristo, e altri scritti di man del Valdes eresiarca, dei quali lessero alcune parti in sua presenza. «Dice il Caserta del vescovo di Ana (?) coadjutore di Urbino che, quando frà Marco di Tursi eresiarca stava in Sant'Agostino di Napoli, era molto suo amico: e parlando con esso, alcune volte dissegli che teneva e credeva il punto della giustificazione come lo teneva il Valdes, cioè che l'uomo si giustifica per la sola fede, e che per le opere non merita se non in quanto son come frutto della fede. «Dell'arcivescovo di Sorrento[39] dice il Caserta avergli detto che teneva le opinioni luterane e che quel cammino di Lutero era il vero, e che lodò molto un libro che possedeva, intitolato Summario della Scrittura, che se lo fece comprare. «Del vescovo di Isola Fascitelli[40] dice che l'abate di Tursi gli disse era delle medesime opinioni luterane. «Del vescovo di Cajazo[41] gli disse Geronimo Scanapeco che avea le stesse opinioni luterane. «Del vescovo di Nola[42] che, prima che gli dessero l'uffizio presente, teneva un libro luterano intitolato _Il Benefizio di Cristo_, e molto se ne piaceva. «Del vescovo di Civita di Penna[43] dice il Caserta avergli detto don Apollonio Merenda eresiarca ch'era delle stesse sue opinioni, e credeva e teneva quelle di Lutero. «Del vescovo di Policastro[44] dice che, avendolo un giorno invitato per esaminarlo sopra certa causa, gli mostrò una composizione che avea fatta sopra il punto della giustificazione, nella quale si dichiarava e insegnava conforme all'opinione del Valdes; e che udì da un Luterano, ora morto, che, leggendo le epistole di san Paolo, aveva insegnato e predicato della predestinazione quel che opinano i Luterani. «Dell'arcivescovo di Reggio[45] dice il Caserta, e così il Gargano, che, prima che gli si conferisse la presente dignità, stando nel suo convento, lo visitarono essi ed altri Luterani, e che dichiarò teneva e credeva le opinioni luterane, e che una volta nel sermone trattò della giustificazione, e conchiuse si debba tener e credere al modo che insegnava Martin Lutero; e che volendo un giorno uscir fuori, cavò le pantofole che aveva in piede, e si pose le scarpe, dicendo: «Lasciatemi prender la giustificazione de' miei piedi» e gli mostrò alcuni libri luterani che possedeva». In Calabria, oltre i Valdesi di cui discorremmo a pag. 329, dicesi serpeggiasse il luteranesimo, e ne fossero presi molti monaci e alcuni famigliari dell'arcivescovo di Reggio Agostino Gonzaga. Ma non ne venne notizia al Governo che dalle fiere nimicizie tra i Monsolino e i Malgeri di Reggio, scoppiate nel 1561 in vera guerra civile, ove i Monsolini riusciti superiori, trucidarono i nemici. Gli uni rimbalzavano agli altri la taccia di luterani, con tale ostinazione che il vicerè nel 1562 spedì in Calabria Pietro Antonio Pansa, uomo di inflessibile rigore, che molti convinti d'eresia condannò al rogo. Contansi in essi quattro cittadini di Reggio, undici di San Lorenzo, fra cui sette erano frati cappuccini. A quelli che abjurarono fu dal Pansa ordinato portassero sul petto e sulle spalle un panno giallo, attraversato da una croce rossa. NOTE [23] GREGORIO ROSSO, _Hist. delle cose di Napoli sotto l'imperio di Carlo V_. Napoli 1635. L. 1, p. 133. [24] Così Antonino Castaldo, che morì verso il 1560, e che spesso fu copiato dal Giannone. Vedi _Raccolta de' più rinomati scrittori dell'istoria generale del regno di Napoli_. Napoli 1769. [25] Forse all'advento, perchè la quaresima vedemmo predicava a Venezia. [26] _Storia delle eresie._ T. IV, 447. [27] Ciò potrebbe provare che Giovanni fosse altro da Alfonso, osteggiato dal Castiglione, che dice: «La malignità ancora, senza parlare vi si vede dipinta nella pallidezza di quel volto pestilente». [28] Il Giannone in tutto il ragionare degli eretici è inesattissimo. Sponde, nella continuazione degli _Annali_ del Baronio, dice che il Vermigli _Neapoli nactus nonnulla Erasmi, Zuinglii et Buceri scriptis, et conversatione Joannis Valdesii j. p. hispani, ex Germania illuc delati, atque lutheranesimo imbuti, corruptior factus, una cum ipso, spiritu et conatu rem agens, clam cœtum quemdam tam virorum quam fœminarum, primæ etiam nobilitatis collegerunt, quibus ipse concionabatur_. [29] CASTALDO, c. 5. [30] Questo passo è copiato _ad literam_ dal Giannone, che invece di _summario_ scrive _seminario_. [31] In fatto il Valdes nel _Mercurio_, da un'anima pia fa dire che non credeva necessarj i pellegrinaggi, pure lodava la buona intenzione con cui alcuni vi si moveano: e che, mirando essa coi giubilei e le indulgenze a procurar di seguire la dottrina di Cristo, se altri gliene facesse rimprovero, rispondeva: «Fratelli, prendete il cammino che vi par migliore, e a me lasciate pigliar quello che voglio, poichè non è cattivo». [32] L'inquisizione spagnuola non v'era a Napoli, come dicemmo. L'epitafio fu pubblicato nel 1859 a Königsberg nel giornale _Neue Preussiche Provinzialblätter_, tom. IV, pag. 215. [33] Si ha manuscritto un _papel sobre poner la inquisicion en Napoles_, ove a Carlo V si fa dire: «Amo meglio il regno senza inquisizione, che l'inquisizione senza regno». [34] SUMMONTE, _Storia di Napoli_. L. X, c. 4. [35] La lista era scritta con tanta gelosia, che le persone non sono indicate che per numeri, poi dichiarati in cedola a parte. Il documento in spagnuolo fu prodotto dal sig. Edwardo Böhmer in calce alle _Centodieci divine considerazioni di Giovanni Valdesse_. Alla di Sassonia 1860. [36] Il Bernino, appoggiandosi al manuscritto del Caracciolo, dice che «in terra d'Otranto vi fu Ladislao, auditor del vescovo d'Otranto, e l'istesso arcivescovo fu gravemente processato, e si disse che aveva mandato Lodovico Manna a leggere alla sua chiesa d'Otranto pubblicamente, e che avea commercio di lettere con Martino Bucer, e che fu amico del Valdes, leggeva i suoi libri, e che tenne gran tempo in casa il Giannetto, eretico marcio che se ne fuggì poi a Ginevra. A questo arcivescovo impedì il cappello il cardinale Caraffa». L'arcivescovo era Pietro Antonio da Capua, lodato dall'Ughelli per gran dottrina, erudizione e probità; onorato assai nel Concilio di Trento, ove spesso orò. [37] Giovanni Tommaso Sanfelice, che al Concilio fu rimproverato dal vescovo di Chironia, poi privato dell'uffizio di commissario, espulso dal Concilio, e a Roma al tempo di papa Paolo incarcerato insieme col cardinal Morone, come si disse nel Discorso XXVIII. [38] Nicolò Maria Caracciolo; persona di grande autorità presso i papi e i governanti. [39] Giulio Pavesi bresciano, de' Predicatori, commissario del Sant'Uffizio. [40] Onorato Fascitello d'Isernia, cassinese, lodato per letteratura dal Casa, dal Bembo, dal Flaminio. Fu al Concilio di Trento. [41] Fabio Mirto. [42] Antonio Scarampi piemontese, de' conti di Cannella. Fu al Concilio. [43] Giacomo Guidi, nobile di Volterra, scolaro di Francesco Guicciardini. Fu pure al Concilio. [44] Nicola Francesco Missanelli. Contro di lui nel 1567 fu pronunziata sentenza, qualmente fosse caduto in sospetto perchè molti eretici adoperavansi palesemente nella sua diocesi, onde venne sospeso per dieci anni, togliendogli metà della prebenda. [45] Gaspare Fossa calabrese, de' Minimi, inaugurò con un suo sermone il Concilio di Trento nel 1562, e vi era molto ascoltato. DISCORSO XLI. ERETICI IN LOMBARDIA. Nella città dove lo spirito guelfo fu lungamente alimentato dalle nimicizie contro gl'imperatori; dove nell'età moderna questa medesima avversione si espresse colla predilezione mostrata al principio religioso nazionale, fino a sorgervi gli antesignani del partito neo-guelfo, è notevole come spesso siasi pronunziata la antipatia al primato romano, e dietro ad essa lo spirito acattolico. Il ricordo di tempi quando Milano fu città non seconda che a Roma vi dovette contribuire non meno che la pinguedine del territorio e l'indole degli intelletti; e così il trovarsi essa abbondevole di ricchezze, e un de' principali centri della politica italiana. L'importanza ch'ebbe nel IV secolo sant'Ambrogio e l'esser rimasti capi di un rito particolare pareva attribuire ai successori di quello un'autorità e una rappresentanza eccezionale, viepiù da che divennero anche capi del governo secolare e primarj nelle assemblee del regno. Ma queste cure secolari distrassero talvolta gli arcivescovi dall'attendere alle ecclesiastiche, e vedemmo come a Milano si dilatassero le sêtte dei Patarini, della Guglielmina, de' Nicolaiti, e con quanto stento Pier Damiani e sant'Anselmo inducessero questa diocesi al celibato sacerdotale e alla soggezione a Roma. Indizj che non trascurammo rivelano come di quelle sêtte non fosse mai divelta affatto la radice. Gli studj umanistici, che quivi prosperarono sotto la protezione de' Visconti, dovettero fomentarvi quello spirito d'esame e di scherno che accompagnò la rinascenza, sicchè presto vi ottennero ascolto le dottrine predicate in Germania. Fin dal 1521, correvano a Milano versi in lode di Lutero, e che finivano: _Macte igitur virtute, pater celebrande Luthere,_ _Communis cujus pendet ab ore salus;_ _Gratia cui ablatis debetur maxima monstris,_ _Alcidis potuit quæ metuisse manus[46]._ Il rozzo cronista Burigozzo parla come nel 1534 «venne a predicare in domo un frate de Santo Augustino eremitano; e questo fu una dominica a dì 25 januario, e predicò tutta la settimana seguente. E la dominica, primo febraro, annunziò un perdono, con certe bolle de assolvere dei casi; e fu messo per la cittade le cedole in stampa, qual se contenevano in ditta bolla; ditto perdono fu messo fôra el dì de santa Maria delle Candele; e fu fatto procession dal clero. Circondorno la ecclesia del domo de dentro, e riportorno ditto perdono a loco suo, sempre col ditto frate e commissario de ditta indulgenzia, e con certi confessionali, sì per li vivi che per li morti; et ognuno che volea ditta indulgenzia (dando li danari ch'erano d'accordo), gli davano la ditta carta, e li metteva suso il nome de colui che pagava, overo de suoi morti; durò questo circa a otto giorni. Et in questo termino assai homeni mormoravano, vedendo questa indulgenzia così larga; dondechè fu trovato questa cosa essere una ribalderia, et essere false le bolle; et a questo fu preso dicto frate et il commissario; e furono messi in prigion in casa del capitano de justizia; e gli fu data la corda e tormenti. Al fine disseno che era vero; e furno reponuti fin a che da Roma venisse la risposta di quello che di lor far se dovesse; et a questo passò qualche giorni: al fine fu concluso che fusseno mandati in galea.....» Egli stesso all'anno seguente ricorda un processo contro sospetti Luterani, e che gl'imputati, fra cui un prete, dopo lettane la condanna, furono in duomo riconciliati dall'inquisitore e dall'arcivescovo, obbligandoli per alcune domeniche a starsi alla porta maggiore, vestiti di sacco, e con una disciplina flagellarsi dal principio della messa fino all'elevazione. Nel 1536 trovandosi a Milano il cardinale Morone, Paolo III con breve 26 giugno gli ordinò di vigilare che si svellessero alcuni errori, che in quella città andavansi disseminando[47]. Il senato mandò legati ai Grigioni per impedire si eseguisse in Valtellina il decreto che partecipava ai predicanti i benefizj delle chiese cattoliche. Venuto nel 1555 governatore il duca d'Alba, famoso persecutore di Luterani in Ispagna e nel Belgio, esacerbò i rigori, e il grigione Federico Salis, colle esagerazioni e colla credulità consueta in tempi faziosi, scriveva al Bullinger aver quello promesso al papa di sterminare gli eretici dalla Lombardia. Il Fabrizio soggiungeva aver costui bruciato due Cristiani, un de' quali frate di non sa qual Ordine, come non ne sa bene la storia; che fu bruciato un sellajo, e appena passa settimana che non si veda qualche esempio[48]. Frasi da giornalista, vaghe, nè appoggiate che alla diceria. Ben è certo che nel 1556 Paolo IV lagnavasi col Morone sudetto, milanese, che a Milano si fossero scoperte conventicole di persone ragguardevoli d'ambo i sessi, professanti gli errori di frà Battista da Crema[49]. Nel registro dei giustiziati, tenuto dalla confraternita di San Giovanni alle Case Rotte, sotto il 23 luglio 1569 trovo abbruciati «un frate di Brera e Giorgio Filatore (degli Umiliati) quali erano luterani»: e un Giulio Pallavicino della Pieve d'Incino eretico, che «fu messo sul palco in duomo l'anno 1555 e 1573; poi il 1 ottobre 1587 fu morto, dopo essersi confessato e comunicato. Fra le _Prediche di teologi illustri_ pubblicate da Tommaso Porcacchi ne sta una di frate Angelo Castiglione da Genova, recitata nel duomo di Milano il 1553, per consolare alcuni i quali doveano, subito dopo la predica, abjurare l'eresia. Milanese era frà Giulio Terenziano o di san Terenzio, che imprigionato a Venezia, potè fuggire oltremonti, e stampò opere ereticali col pseudonimo di Girolamo Savonese. Il Gerdesio (pag. 280) mal lo confonde con Giulio da Milano, agostiniano apostata, che predicò fra' Grigioni, e, da Poschiavo apostolava la Valtellina e l'Engadina, in Isvizzera pubblicò la prima e seconda parte delle prediche da lui recitate in San Cassiano di Venezia nel 1541, dov'egli stesso narra aver fatto ventidue prediche, le quali furono condannate. Di lui conosciamo una «Esortazione al martirio; vi son aggiunte molte cose necessarie di sapere a' nostri tempi, come vedrai nel voltar del foglio; «Se a cristiano è lecito fuggire la persecutione per causa della fede; «La passione di Fannio martire; «Epistola a li Farisei ampliati; «Epistola contro gli Anabaptisti, scritta a una sorella d'Italia; «Una pia meditazione sopra del _Pater noster_[50]». Morì vecchissimo nel 1571, nè sappiamo di che casato fosse. Anche frà Girolamo da Milano fe da pastore a Livigno in Valtellina, dove introdusse dottrine antitrinitarie. Di connivenza alle massime nuove è prova l'essersi a Milano tenuto gran tempo per maestro Aonio Paleario, benchè tacciato di disseminarne. E nella Biblioteca Ambrosiana abbiamo lettere sue, dove ringrazia il senato perchè neppure in tempo di gran carestia non lo lasciò mancar di nulla. Anche Celio Curione, del quale divisammo nel discorso XXIX, sottrattosi all'Inquisizione piemontese, ricoverò a Milano, v'ottenne una cattedra e ospitalità dalla famiglia Isacchi, colla quale villeggiava a Barzago in Brianza, e della quale sposò una fanciulla: e sebbene il papa insistesse perchè il senato milanese nol tollerasse, i giovani studenti lo difendeano così, che non si osava porgli addosso le mani; e sol dopo tre anni ritirossi a Venezia. Il tante volte citato Caracciolo sa che «a Milano v'erano molti preti e frati e secolari eretici; capo di questi fu un don Celso canonico regolare, eretico marcio, e quel che fu peggio, era valente predicatore e favorito tanto dai nobili e dalla città, che il _povero_ inquisitore, ancorchè in fin dal principio s'accorgesse delle sue proposizioni eretiche, tuttavia si ritenne dal processarlo. Costui infettò particolarmente il castellano suo grande amico. L'esito fu che alla fine, vedendosi processato dal Muzio per ordine del Sant'Uffizio di Roma, se ne fuggì a Ginevra, e di là mandava lettere ed avvisi a' suoi amici». Intende Celso Martinenghi, bresciano, del quale tocchiamo altrove: ma in paese nè di lui trovammo menzione, nè di altri. Che però la diffusione dell'eresia fosse temuta ce l'attesta questa provisione dell'arcivescovo Arcimboldi, che sedette dal 1550 al 55. Volendo il reverendissimo ed illust. signor Giovanni Angelo Arcimboldo, per grazia di Dio e della santa sedia apostolica arcivescovo di Milano e cesareo senatore, e il molto reverendo signore Bonaventura Castiglione prevosto di Sant'Ambrogio di Milano, commissario generale apostolico contro la eretica pravità in tutto il dominio di Milano, provedere che non seguino inconvenienti e scandali contro la santa fede cattolica ed apostolica nella città e diocesi di Milano; anzi volendo a suo potere provedere alla salute delle anime d'ogni fedele cristiano, e levare ogni errore e inconveniente che puotesse occorrere: per tenor delle presenti, ancora con partecipazione e consenso dell'illustrissimo ed eccelentissimo Senato Cesareo di Milano, ordinano e comandano che nell'avvenire, nessuno, sia di qual grado e religione si vegli, nè prete o altra persona ecclesiastica o laica, non ardisca nella città nè diocesi di Milano in alcuna chiesa o luogo di qual condizione o sorte si voglia, ancora fosse nelle loro proprie chiese o case, predicare, o leggere altrui la Sacra Scrittura, senza speciale licenza in scritto delli prelati monsignori, proibendo a qualunque prepositi, priori, rettori, guardiani e ministri delle chiese della città e diocesi di Milano, che non ammettano alcuno a predicare, nè leggere senza licenzia, come di sopra, sotto le medesime pene. Ancora non recedendo dagli altri ordini e cride fatte in questa materia de' libri proibiti, ordinano e comandano che non sia persona alcuna, di qual stato, grado o condizione si voglia, la qual presuma condurre, vendere, nè far vendere, nè donare in modo alcuno libri latini nè volgari, di qual sorte si voglia, nelli quali si tratta della Sacra Scrittura, se avanti siano condotti, non presentano alli prefati monsignori, o a chi sarà da loro a questo deputato, la nota _sine descriptione_ di tali libri, sotto pena di escomunicazione _latæ sententiæ_, e di scudi cento per cadauna volta e per cadauno contrafaciente, la terza parte da esser applicata all'officio de l'Inquisizione, un'altra terza parte alla Cesarea Camera, e l'altra terza parte all'accusatore, il quale sarà tenuto secreto, e se gli darà fede con uno testimonio degno di fede. In le quali pene incorreranno, e così fin adesso si declara essere incorsi li conduttori scienti, o compratori di tali libri, ancora che li libri fossero ascosti in altre robe o mercanzie. Ancora ordinano e comandano, che tutti li librari e ligatori di libri, condottieri o venditori, fra due mesi prossimi avvenire debbano avere fatto inventario di qualunque sorte di libri, così latini quanto volgari, quali si ritroveranno avere presso di sè e in suo potere, tanto nelle stanze, quanto nelle botteghe loro, e presentare l'inventario sottoscritto di loro mani all'officio delli prefati monsignori, sotto pena di escomunicazione e scudi cento per cadauno, per la terza da essere applicata all'officio dell'Inquisizione, un altra terza parte alla Cesarea Camera, e l'altra terza parte all'accusatore: e nello avvenire non possino tenere in bottega, nè in casa propria, nè ad altri vendere nè donare nè comprare alcuni libri che non siano descritti nelle liste e inventarj presentati all'officio delli suddetti monsignori. E se si trovasse alcuno, che avesse venduto o donato o altramente dato alcuno libro, che non si trovasse scritto nelle dette liste e inventario, _ipso jure et facto_ s'intenda essere incorsi, ed incorrano nella pena di escomunicazione, e di scudi dieci per cadauno libro, e qualunque volta; da essere applicati nelli modi e forme come di sopra; si tenerà secreto l'accusatore, al quale si crederà con uno testimonio degno di fede, acciocchè per l'avarizia non si abbiano per librari o mercanti di libri a non propalare e presentare li libri eretici e proibiti, che per l'Officio dell'Inquisizione se gli fa sapere, che presentando loro all'Officio dell'Inquisizione se gli provederà acciò non restino in danno, mentre la presentazione si faccia fra dieci giorni prossimi. Ancora ordinano e comandano a tutti quelli, li quali hanno presso di sè alcuni libri o scritture, di qual sorte voglia, li quali siano eretici, o che non si ammettano dalla santa Chiesa cattolica e apostolica, e siano di qua in dietro per alcun arcivescovo, inquisitore, sive commissario, proibiti, e massime gli infrascritti qua di sotto annotati, che, nel termine di mese uno prossimo, li vogliano avere consegnati nelle mani delli prefati monsignori, da' quali saranno assolti da tutte le censure e pene, nelle quali fossero incorsi: e passato detto termine, non si ammettono più, anzi contra di loro si procederà irremissibilmente non solo alla pena, nella quale saranno incorsi, ma ancora in maggiore pena, secondo la qualità delle persone, all'arbitrio delli monsignori: e chi accuserà sarà tenuto secreto, avrà la terza delle pene pecuniarie come di sopra. Ancora ammoniscano ogni e qualunque fedele dell'uno e dell'altro sesso, o di qualunque stato, grado o condizione e dignità, che, sotto pena di escomunicazione _latae sententiæ_ e di scudi cinquanta d'oro, da essere applicati per uno terzo all'ufficio de l'Inquisizione, un altro terzo alla Cesarea Camera, e un altro terzo all'accusatore, qual sarà tenuto secreto, infra giorni trenta dopo la pubblicazione delli presenti, cioè dieci per il primo, dieci per il terzo e perentorio termine e monizione canonica, che debbano avere denunciato, revelato e notificato se hanno conosciuto o udito alcuno eretico, o suspetto, o diffamato d'eresia in la città o diocesi di Milano. Similmente avere notificato per nome e cognome tutti quelli, li quali straparlano delli articoli della fede, delli sacramenti della Chiesa, delle ceremonie, della autorità del Sommo Pontefice, e delle altre cose pertinenti alla fede cattolica e sacramenti ecclesiastici. Similmente quelli che dimandano o pregano li demonj, o che loro sacrificano, o che li fanno sive prestano altri divini onori, e chi dà ajuto alli Luterani o altra sorte d'eretici o sospetti d'eresia. Rendendo sicuro caduno e qualunque che avesse in premisse cose, o alcuna di loro errato, che comparendo personalmente innanzi alli sudetti monsignori nel termine d'uno mese prossimo, si accetteranno a penitenza secreta, e si libereranno ed assolveranno gratis e senza spesa alcuna. E più se alcuno Luterano, o altramente eretico, spontaneamente comparesse e accettasse la penitenza, o non interrogato denunciasse alcuno complice, esso notificante sarà tenuto secreto, e guadagnerà il quarto delle pene pecuniarie, e beni che si potessero esigere e conseguire giustamente, secondo i termini della ragione di tali complici e delinquenti. Declarando che, se alcuno contravenisse in alcuna delle sopradette cose, e da se stesso si notificasse e denunciasse li complici, che si assolverà dell'escomunicazione e pene, nelle quali fosse incorso, e se gli darà la terza parte della pena pecuniaria, che si esigerà dalli complici. Certificando ogni persona, che le licenze e altre cose, che si faranno e si concederanno in tutti li premessi casi, si faranno e concederanno gratis e senza pagamento alcuno, ancora inerendo alle determinazioni della santa Madre Chiesa, la quale non immeritamente ha statuito e ordinato per la salute di tutte le anime, che ogni fidele cristiano dell'uno e l'altro sesso, dopo che saranno pervenuti alla età della discrezione, ogni e qualunque suo peccato, almeno una volta l'anno abbiano a confessarsi al proprio confessore; ingiuntali la penitenza, per le proprie forze studiino adempirla, pigliando riverentemente almeno ad ogni pasqua di risurrezione del nostro Signore, il santissimo sacramento della Eucaristia, salvo se per caso di consiglio del proprio sacerdote, per qualche giusta e ragionevole causa, si ordinasse che dovesse astenersene; altramente vivendo, non si ammetta nell'ingresso della Chiesa, e morendo non gli sia concesso la cristiana sepoltura. Oltra di questo, esso monsignor reverendissimo arcivescovo, inerendo alle determinazioni della santa Madre Chiesa ordina, che tutti i fedeli cristiani dell'uno e l'altro sesso, vogliano in qualunque festa di pasqua della resurrezione del nostro Signore, o almeno per tutta l'ottava d'essa pasqua, confessare i suoi peccati al sacerdote, e pigliare il santissimo sacramento della Eucaristia, secondo la predetta determinazione della santa madre Chiesa: altramente, non rispettando qualità nè grado di persona alcuna, si scomunicheranno per nomi e cognomi, e saranno cacciati fuora delle chiese con gran vitupero: e morendo in tale errore e pertinacia, se sepelliranno al terragio: e a quelli che per due anni continui non si saranno confessati nè comunicati gli se procederà contra, e saranno puniti nelle pene di ragione e delli sacri canoni; etiam, se sarà spediente, con intervento del cesareo fisco. Ed acciocchè non si possa pretessere ignoranza, nè pigliare scusa alcuna, per tenor delli presenti esso monsignore ammonisce per il primo, secondo, terzo e perentorio termine tutti i prepositi, rettori, vicerettori, capellani, curati, sacerdoti e altri ministri delle chiese della città e diocesi di Milano, che in cadauna e tutte le domeniche della quadragesima di qualunque anno, alle loro Messe, nelle ore che si troverà congregato maggiore popolo, sotto pena di escomunicazione e di scudi vinticinque per cadauno contrafaciente o meno osservatore della presente ordinazione, da essere applicati alla fabbrica della chiesa maggiore di Milano, vogliano avvisare ed ammonire tutti li fideli cristiani, che nella solennità di pasqua scorrente, o almeno per tutta l'ottava della pasqua, si confessino, e si comunichino come di sopra, altramente si pubblicheranno per escomunicati. E affine che le presenti ammonizioni e comandamenti pervenghino a comune utilità di tutti, dopo la pubblicazione fatta nel cospetto del popolo, li sudetti monsignori reverendissimo e illustrissimo e molto reverendo Comissario Generale comettono e mandano, che siano affisse, inchiodate alle porte della chiesa maggiore di Milano, e della chiesa di Santo Ambrogio maggiore, e della Scala di essa città. Nelle altre città del dominio manda il sudetto Generale Comissario siano affisse alle chiese loro maggiori, acciocchè da tutti possan essere vedute, lette, ed alla giornata pubblicate, nè rimanga iscusazione d'ignoranza di non avere inteso quello che si è patentemente pubblicato. Dato in Milano, l'anno 1551. Ben presto, a capo dell'arcidiocesi milanese venne uno de' più zelanti promotori della riforma cattolica, Carlo Borromeo. E in relazione a quanto accennammo da principio, è notevole l'avversar che fecero i Milanesi a un santo, il quale, a tacer la pietà, fu ammirato per una splendidissima carità e per insigni istituzioni, tanto che, in un tempo dei più esorbitanti, fu presentato all'imitazione come modello di ottimo patriota[51]. L'emendazione ch'egli volle fare dei frati Umiliati gli concitò l'inimicizia di questi, spinta fino a tirargli una fucilata. I gran savj milanesi poi mormoravano che il Borromeo volesse far troppo; pretendesse al monopolio della carità, anzichè lasciar che tutti la applicassero come più voleano; criticavano quel che facea, suggerivano quel che avrebbe dovuto fare; asserivano che il tanto suo adoprarsi venisse per ambizione d'esser nominato, per fare scomparire gli altri, per acquistarsi l'aura popolare. Ai pensatori s'insinuava come le tante sue riforme fossero puerili, da sacristia, come volesse sostituire in man de' nobili il rosario alle spade, i confratelli ai bravi, i tridui ai duelli, invilendo così la nazione milanese. Alla plebe si insinuava com'egli co' suoi divieti contro le profanazioni della festa, contro il prolungamento delle gazzarre carnovalesche, diminuisse i divertimenti, che pur sono la ricreazione del povero popolo e un giusto sollievo dopo tante fatiche. Poi, sempre per patriotismo, s'insinuava all'autorità ch'egli voleva far prevalere la sua giurisdizione, a scapito della secolare; che invadeva le competenze del municipio o del governo; che, durante la peste, quando i governatori erano fuggiti ed egli era rimasto a dividere ed alleviare i patimenti, aveva sin fatto decreti ed esecuzioni, represso i ribaldi, e altri atti, che son devoluti solo ai magistrati. E coi magistrati sostenne lotte durissime; e i cittadini si piacquero di trarne occasione di scandali; e il capitolo di Santa Maria della Scala arrivò fin a chiudergli in faccia la porta della Chiesa: dalla stessa autorità municipale accusato al papa e al re come trascendente in fatto di giurisdizione, Carlo più d'una volta dovette interrompere le sante sue sollecitudini per andar a Roma o spedire a Madrid, onde scagionarsi. E se non vorremmo sostenere ch'egli avesse sempre ragione nella quantità e nei modi, nessun ci contraddirà se asseriamo che sempre era mosso da rettissime intenzioni. Ciò sia di conforto a' suoi successori; e in simili contrarietà pensino come la giustizia soglia rendersi anche qui dopo la morte. Restano, ed hanno vigore ancora moltissimi atti del suo episcopato, ma pochissimi si riferiscono ad eretici di quel paese. Giulio Poggiano, di Suna nel novarese, uno de' più belli scrittori latini di quel tempo, adoprato come secretario di molti cardinali, della Congregazione del Concilio Tridentino e di san Carlo, in lettera al cardinale Sirleto descrive la venuta di quest'arcivescovo a Milano nel 1565, e come «cantò messa nel duomo, dove fu il principe e il senato con tutti li magistrati..... È ferma opinione che fossero alla messa più di venticinque mila persone. Un canonico fece una orazione al cardinale assai impertinente e lunga, _nihil boni præter vocem et latera_. Il cardinale a mezza messa fece un sermone, nel quale parlò della giustificazione, a proposito del vangelo _Plantavit vineam_. Della materia se n'era informato dal padre Benedetto Palmio....» Da qui appare che il santo toccava anche nelle prediche ai punti fondamentali della dottrina. Il Poggiano aggiunge: «Ho inteso che, oltre all'Aonio, qui sono due o tre letterati, ma perchè, non so per qual disgrazia o maledizione loro, si mormora che sono infetti di opinioni poco cattoliche, son risoluto di non parlargli, nè vederne alcuno»[52]. La vicinanza della Lombardia al Piemonte pose Filippo II in paura non ne contraesse le nuove credenze, sicchè insistette presso Pio IV onde potervi istituire l'Inquisizione alla spagnuola, cioè indipendente dal vescovo e dai magistrati. Portata la domanda in concistoro, molti cardinali vi repugnavano; nè il papa inclinava a far questo infausto dono a' suoi concittadini: pure alfine vi consentì nel 1563. Sbigottissene il paese, fioccarono i reclami; il governatore Cordova mandò procurando dissuaderne il re. Al quale la città deputò Cesare Taverna e Princivalle Besozzi, ma non conosciamo nè le commissioni date loro nè l'esito. Bensì nell'archivio diplomatico stanno le commissioni, che furono date ad altri, che al tempo stesso e per lo stesso effetto erano inviati a Roma. Eccole: Istruzione di quanto avranno a dir e negoziar in nome di questa città l'illustre signor conte Sforza Morone e molto magnifico signor Gotardo Reina, vicario di provisione, oratori in nome di questa città appresso a sua santità nostro signore. L'illustri e molto magnifici signori sessanta, rappresentanti il consiglio generale della città di Milano, hanno fatto elezione delle persone de v. s. quale vadino a Roma con la maggior celerità sia possibile, e prima ricorreranno dalli illustrissimi signori don Aloisio de Avila commendatore maggiore, e ambasciatore Vargas, e baciatogli le mani in nome di questa città, gli presentaranno le lettere credenziali che se gli danno, e gli esporranno che, essendo avvisata e certificata questa città come si tratta di porre costì una Inquisizione molto più rigorosa del solito, il che ha fatto stupire, e restar piena di meraviglia tutta la città e Stato, vedendo che tutte le novità aggravano e danno infinita discontentezza alli popoli, e eterno aggravio appresso a tutta Italia e cristianità. Perciocchè essendo stata questa città delle prime del mondo, che ricevettero la santissima fede del nostro Signore Gesù Cristo, sino al tempo di San Barnaba apostolo, e così per mille cinquecento e venti anni e più sempre è perseverata nella santissima fede cattolica romana, nè mai ha deviato in cosa alcuna. Questa città fu la principale che scacciò li Ariani, e sotto li imperatori Greci, che favorivano le eresie più presto si lasciò quasi distruggere e desolare, che mai consentirgli. Furono a Milano a migliaja de questi cittadini fatti martiri per non voler consentire ad adorare li falsi Dei, siccome gli comandavano Diocleziano e Massimiliano Erculeo imperatori, quale Massimiliano allora abitava in questa città, e qui depose l'impero, e più sotto Valerio Maximino suo successore: e come altro Massimiano inondò la nostra città del sangue de martiri, e molto più sotto l'imperio del terzo Massimiano erede del tirannico furore del primo e secondo suoi predecessori, si numerano più martiri milanesi, fatti per la fede del nostro Signore Gesù Cristo, che non sono di quattro altre città delle prime. Non si ritrova che da molti e molti anni in qua a l'ufficio della santissima Inquisizione sia mai stato, non che condannato, ma anche accusato alcun milanese; come sua santità potrà venirne in cognizione ordinando che gli sia fatta relazione delli processi fatti alla santissima Inquisizione, ovvero mandato li libri. E se alcuni sono stati accusati e condannati, quali abitavano in questa città, non sono milanesi, onde non accade la medicina dove il corpo è sano, nè la pena rigorosissima e il proceder simile dove mai non fu delitto nè superstizione. Poichè questa nuova istituzione non è mai stata introdotta nè in questa città, nè in questo Stato nè in alcuna parte delle nostre regioni, e così siamo perseverati per più di mille cinquecento venti anni continui, nè ora è accaduto, ovvero accade cosa, per la quale si abbi di caricar le città dello stato d'una sì insolita ed infamatoria novità, stando la città e Stato caricata e colma d'ogni sorta di carichi, nè per soprasomma se gli dovrebbe aggiungere questa sì universalmente mala contentezza di tutto lo Stato, il quale presuppone che questo gli sia peggio, che se tutto fosse distrutto e desolato. E sebbene alcuni delli vicini sono macchiati della maledetta, e scellerata eresia, non è però da temere che un popolo, nè alcuno del popolo tanto cattolico, tanto pio e tanto confirmato nella nostra religione si debba mai partir o separarsi dall'unione della santa madre Chiesa Romana, nella quale per tante e tante centinaja d'anni è perseverato e persevera, il che apertamente dimostrano tanti ospitali, tanti luoghi pii, tanti monasteri, tante chiese, tante congregazioni, che si mantengono con le elemosine si fanno, e si edificano ogni giorno, e si esercitano in questa città, ed il concorso universale che si fa da tutti e continuamente alli divini officj, e sagramenti e all'udir le sacre prediche, e a pigliar le santissime Indulgenze, alle quali tutte concorre indistintamente e a gara tutto il popolo. Chi potrebbe tener le lagrime veggendo in tutte le chiese parrocchiali di questa città, quali sono infinite, in un medesimo tempo pubblicamente esposto il santissimo corpo di nostro Signor Gesù Cristo, avanti il quale, giorno e notte senza intermissione ogni sorta di gente umilissimamente con singulti e pianti, misti con grandissimi prieghi e supplicazioni, e con ogni sorta di voti supplicano la divina clemenza, ragionando tutti i tempi delle divine litanie, e d'ogni sorta di salmi e orazioni, che si degni infondere e inspirare la grazia dello santissimo Spirito nelli cuori di sua beatitudine, suo vero vicario in terra, e di S. M. che sono in mani sue, quello che sia per onore della santissima sua Chiesa e che convenga alla religione e pietà nostra antichissima, acciocchè dove meritiamo lodi non siamo infamati appresso tutta la cristianità senza colpa nostra, il che parerebbe troppo duro a questa città tanto ubbediente, affezionata e schiava a sua santità e sua maestà, di vedersi con questa innovazione senza sua colpa quasi infamare. Il che risulterebbe in non poco dissertivo a S. M. perchè essendo il nervo di questa città le mercanzie e arti che qua si esercitano, tanto dispiace questa cosa a tutti, che sarebbe fargli abbandonare per una gran parte, e trasportar le merci e arti altrove, donde ne patiranno assai li dazj e entrate di S. M. perchè la città, e così la patria di sua santità, si verrebbe a despopolare, il che si comincia a fare sin ad ora, perchè non si ritrova chi voglia per prezzo ancorchè vile comprar alcuna cosa di stabile; impauriti come sono della fama di questa innovazione. E se rispondesse che questo si fa per conservar pura e chiara questa città, atteso l'incendio e il fuoco che arde nelli vicini nostri, e per la contrattazione che si fa tra essi e noi, si può rispondere come di sopra, che al corpo sano e alla virtù continuamente esperimentata non si ha da adoperare più forte medicina, ovver maggior freno del solito, anzi il dar medicina ad un sano gli porta spasmo e repentina morte. Ma quello, che non meno importa sarebbe questo ungere la piaga di contrario liquore, perchè essendo a questa città alcuni delli vicini eretici veri nemici a noi, per essere noi cattolici e essi scismatici, veggendo il modo rigoroso della Inquisizione, dubita che, acciecati dall'odio ed ardenti dal furore, somministrarono falsi testimonj contro di noi cattolici per infamarne e distruggerne. E se è bastato l'animo ad un eretico ammazzar il principe di Ghisa, generale di un tanto re, circondato e amato da un tanto esercito, e macchinar nella propria vita del re cristianissimo per esser cristiano, che cosa faranno potendone rovinar nell'onore, nella vita e nella roba con falsi testimonj? E per le sacre istorie si vede esser così stato fatto per li eretici alli cattolici e sovente, e ne bastino alcuni esempj di Eustachio episcopo d'Antiochia, che per esser cattolico, li Ariani colla falsa deposizione d'una donna, alla quale allora per il rigore si credeva, ingiustamente fu detenuto, e poi scoperto ma tardo, fu restituito all'episcopato: e san Atanasio illustre e santissimo uomo episcopo de Alessandria, dalli Ariani sotto Costantino imperatore cristianissimo fu per simili vie ancora nel Concilio Niceno tanto travagliato e per tanti modi, che si può dir ebbe infiniti martirj. L'altro delle persecuzioni per testimonj falsi fatte a san Gerolamo dalli eretici sono notissime. Nè una legge conviene a tutti li popoli, siccome nè un rimedio ad ogni infermo, e manco alli sani. E qua vi sono bonissimi ordini sopra la santissima Inquisizione, i quali si servano. Egli è un tribunale della santissima Inquisizione, osservato con antichissima consuetudine, nel quale, conforme alli sacri canoni, intervengono molti teologi di tutte le religioni, molti ecclesiastici, per assessori molti dottori del collegio di Milano e un senatore: al qual tribunale non gli manca alcuna sorte di braccio e ajuto, chiamandolo, e dal principe, e dal senato, e hanno ogni autorità opportuna, e l'illustrissimo e invitto principe di Sessa più e più fiate si è offerto in pubblico di prender con le proprie mani li eretici, e consegnarli all'Inquisitore e ne ha mandato a prender dalla sua guardia tanto da piedi, quanto da cavallo. Nè manca al Sant'Officio d'ogni ajuto l'eccellentissimo senato, e questo è notorio. E perciò si supplica sua santità sia contenta non dar credenza alle false lingue, nè a chi, forse sotto specie di bene, non cessa seminar zizzania. E se per tanto tempo alcuni delli vicini eretici non hanno mai potuto infettare questa città, il che si ha da tener per certo, non riuscirà nell'avvenire con l'ajuto del nostro Signore Iddio. E se altrimenti è stato persuaso sua santità ovvero a sua maestà, è proceduto da persone o male informate, o malevole, e poco amorevoli al beneficio di sua maestà, e di questa città. E perciò le signorie vostre diranno esser venute in nome di questa città da sua santità per supplicare come a vicario del sommo Iddio in terra, e trattandosi di cose della fede, e per essere sua santità della nostra patria, e nostro vero padre e protettore, alla cui santità è notissima la nostra religione, e sincera e vera fede con le opere verso l'onnipotente nostro Signore Iddio, acciò sua santità non solo non venga in questa opinione de innovare cosa alcuna in questa causa, ma ancora ne ajuti e favorisca appresso la serenissima cattolica maestà del re n. s., che per le suddette cagioni si contenti fare il medesimo, e ne tenga in quell'opinione, che convien esser tenuti sì buoni, sì veri e sì antichi cristiani, e amorevoli e fedeli soggetti a S. M., come noi siamo, e devoti alla sedia apostolica, e che di questo ne faccia piena fede a sua santità e di ciò ne resteremo tutti, e in universale e in particolare obbligati alli predetti signori, e che per questo la nostra città non ha ancora inviato oratori da sua maestà. Poi le signorie vostre andaranno a baciar le mani all'illustrissimo e reverendissimo cardinale Borromeo, nostro arcivescovo e pastore, supplicandolo in nome di questa città di favore e ajuto presso sua santità, sì per essere di questa comune patria, sì per trattarsi dell'interesse de sua signoria illustrissima, non solo come nobilissimo membro di questa patria, ma come pastore e arcivescovo, al quale appartiene ordinariamente la cura e cognizione della fede e della Inquisizione, e dell'onore del suo gregge: onde parerebbe, che per trascuraggine de suoi agenti fosse bisogno di nuovo ordine e più rigoroso tribunale: sì per essere e per sangue, e per dignità e per valore sua signoria ill. tanto grata a sua santità, e perciò sia contento aggiustar il negozio, e introdurre le signorie vostre da sua santità[53]. E così ancora le signorie vostre procureranno il medesimo con l'illustrissimo e reverendissimo cardinale San Giorgio, e reverendissimo signor Castellano di Sant'Angelo, e col reverendissimo Datario, e altri nostri cittadini, e con tutti li illustrissimi, e reverendissimi cardinali in Roma, e con ispecie con li illustrissimi e reverendissimi cardinali Santa Croce, Ferrara e Castelli, quali s'intende averne favoriti, ringraziandoli sommamente e supplicandoli di consiglio e favore, che tutti insieme gli siam perpetuamente obbligati, dando a ciascuno le lettere credenziali, che se gli danno: ed allo reverendissimo Alessandrino dandogli le lettere, e pregando ne voglia aggiustare. E poi fatti tutti questi e altri caldi officj, quali meglio pareranno alle signorie vostre circa questo negozio, le signorie vostre procureranno quanto più presto baciar li santissimi piedi di sua santità, supplicandola come di sopra, presentando a sua santità le lettere di credenza che se gli danno. Da questa nota, così stranamente mista di rozzezza e pretensione, appare quanto fosser temuti dai Milanesi da un lato la reputazione di eretici, dall'altro i danni che ridonderebbero dall'Inquisizione fin ai loro commercj e ai possessi. Contemporaneamente Brivio Sforza era spedito allo stesso fine al Concilio di Trento; ed è riferito dagli storici che esso e un altro ambasciadore supplicarono i prelati e cardinali della Lombardia ad aver pietà della patria comune, la quale, se ai tanti mali s'aggiungesse questo gravissimo, vedrebbe molti cittadini migrare. Che se quelli che esercitano il Sant'Uffizio in Ispagna, sotto gli occhi proprj del re, abusavano tanto, e rigidamente pesavano sui compatrioti, che non farebbero nel milanese, lontano e non amato? I prelati lombardi del Concilio, uniti scrissero al papa e al cardinale Borromeo, come quello a cui viemmeglio spettava la tutela della patria, e mostravano come qui non militassero le ragioni che l'aveano fatto istituire in Spagna; che, oltre portare sicura rovina nella Lombardia, avrebbe avviato a istituirla anche nel regno di Napoli, con diminuzione dell'autorità della santa sede, giacchè i prelati si sarebbero conservati devoti non ad essa, ma al principe. Anzi i Padri domandavano che nei decreti del Concilio si mettesse qualche espressione, che esentasse e assicurasse i vescovi dal Sant'Uffizio spagnuolo, e stabilisse il modo delle procedure. Il cardinale Morone, presidente al Concilio, dava qualche promessa di ciò, ma non ne fu fatto nulla; pure l'incidente tenne turbato e sospeso quel sinodo finchè non si seppe che il governatore duca di Sessa, vedendo pericolo che i Milanesi imitassero i Fiamminghi e si facessero protestanti, sospese il decreto, che poi fu lasciato in dimenticanza. In una relazione dello Stato di Milano di quel tempo, deposta nella biblioteca Trivulzio, leggiamo: «Essendo il re di Spagna e per sua propria volontà e per varj suoi rispetti principe veramente cattolico, di sua volontà e comandamento nello Stato di Milano sono gravemente perseguitati gli eretici, e novamente ha comandato sua maestà che tutti i fuggitivi degli altri Stati d'Italia per la religione, non siano tollerati nel detto Stato, per provvedere che non infettino gli altri. E di più si suppone che al presente sua maestà disegni d'introdurvi l'Inquisizione al modo di Spagna: mossa a ciò non tanto da zelo delle cose della religione, quanto da molti sospetti in che sono entrati gli Spagnuoli del suo consiglio, a suggestione di quelli che sono in Milano, circa alla devozione verso lei de' sudditi di quello Stato; vedendo gli Spagnuoli che niuna cosa possa maggiormente tener in freno i suoi vassalli, che la severità di questo Ufficio. La quale essendo grandemente abborrita dai Milanesi per il sospetto che hanno che, con questa via, abbiano ad essere spogliati di tutti i loro beni, si fa giudizio che abbiano a rendersi molto difficili in accettarla». Segue riferendo che, al 29 agosto 1564, pubblicavasi dal governatore De la Cueva una grida, per la quale «informata, l'enissa mente di sua maestà essere che tutti i Regni e Stati, e massime lo Stato di Milano siano preservati da ogni pravità eretica....... in nome di sua eccellenza si fa pubblica grida..... che niuno il quale sia eretico dannato nominatamente, o fuggito di mano dell'Offizio della Santa Inquisizione, o scacciato dal suo paese e da' suoi signori per causa d'eresia, o partito da qualsivoglia parte e luogo, e andato in altra parte e luogo ovver paese, dove e acciò possa vivere liberamente in eresia, ardisca di stare, praticare, nè vivere nel detto Stato di Milano, sotto pena della disgrazia di sua maestà cattolica, e di essere punito dall'Offizio della Santa Inquisizione secondo le sacre leggi. Item sua eccellenza ordina e comanda che, capitando alcuno il quale si sappia esser tale, come di sopra, nel detto Stato di Milano ad ostaria, che gli osti e padroni de li luoghi prefati, barcaroli e portinari siano tenuti subito a dar notizia di tali eretici e ut supra alli prefati inquisitori, e prestargli ogni ajuto e favore perchè detti eretici e ut supra siano presi e consegnati all'Offizio predetto della Santa Inquisizione, sotto la pena sopradetta» con quel che siegue. S'interessarono i Cantoni Svizzeri, e con calore grandissimo Zurigo per far togliere il pregiudizievole generale divieto; ma pei novatori dinotati dal Sant'Uffizio, e pei fuggiaschi d'Italia fu mantenuto, come dal dispaccio in ispagnuolo 17 dicembre 1565 dello stesso governatore Gabriele della Cueva. Finalmente per interposizione dei deputati di Lucerna, Uri ed Untervaldo, recatisi espressamente a Milano, alli 13 gennajo del 1579 si ebbe dal marchese d'Ayamonte nuovo governatore l'esplicita dichiarazione che i Locarnesi emigranti, fatti cittadini in Zurigo e Basilea, eccettuato il solo evangelista Zanino, potessero, venire in questo Stato «e anco a Milano e contrattare; con che, per quanto spetta a la religione, stiano molto riservati, non parlando nè facendo cosa che sia in offesa di essa, nè meno usino cibi proibiti, nè vi portino libri reprobati. Li processati però per l'Offizio della Santa Inquisizione, e che si sono assentati e fatti fuggitivi da questo Stato non possino rientrar in esso; meno sarà lecito che entrino quelli, che avendo abjurato, sono tornati a reincidere, così in questo Stato come fuori. Sarà parimenti proibito a li dottori ed altri che non sono della vera fede cattolica.... e che non averanno contrattazione e non saranno artefici, di entrar e fermarsi nel Stato, se non dieci giorni per volta, e in quel tempo averanno da servare il contenuto ne li suddetti Capitoli. Averanno però da avvertire che, sopra tutto i detti Locarnesi, se vogliono praticar qui, e non essere molestati dal Santo Offizio, conviene che servino i detti Capitoli inviolabilmente». Gli eretici credeansi nemici pubblici, e quindi lecita ogni rappresaglia contro di essi, fin sequestrarne le merci, come si fece a robe dei Pelizzari e dei Lumaga di Chiavenna, massime se libri: Beatrice Fiamenga, nobile bresciana, per simile titolo si separò da suo marito Geremia Vertemate di Piuro: a Vicenza trovavansi arrestati quaranta protestanti, la più parte Grigioni; e tanto era il sospetto, che i Cattolici provenienti dai Grigioni munivansi di bollette dei parroci loro. Un Teodoro da Chieri, figlio del ministro di Tirano nel 1583, e Lorenzo Soncino da Chiavenna nel 1588 furono consegnati all'Inquisizione di Milano[54]. Nel 1594, frà Diodato da Genova inquisitore generale a Milano promulgava un nuovo editto, ove agli eretici proibivasi d'entrare nel ducato milanese, nè di farvi commercio; a Svizzeri e Grigioni sia concesso alloggiare o presso case private o all'albergo, purchè al venire e al partire notifichino i loro nomi all'inquisitore, non parlino di religione, non vadano in chiesa, se pur non sia per udir la predica. Nel 1598 fu ripetuto l'editto, con divieto ai mercanti di trafficare con eretici, eccetto sempre gli Svizzeri e Grigioni, e non si aprano le balle se non in presenza d'alcuno dell'Inquisizione. Son le sevizie che il secolo della libertà stabilì poi regolarmente, in nome della polizia e del buon governo. Nato a Milano e discepolo di Romolo Amaseo, Ortensio Laudi variò spesso di nome, talchè l'Indice de' libri, dal Concilio di Trento proibiti in prima classe, lo nomina _Hortensius Tranquillus, alias Jeremias, alias Landus_. Non occorre rovistarne le colpe ne' molti suoi nemici, abbastanza egli stesso dipingendosi sinistramente, come piccinacolo, losco, sordo, macilento, color cenerognolo, membra brutte, favella e accento lombardo, pazzerone, superbo, impaziente ne' desiderj, collerico sin alla frenesia, composto non di quattro elementi come gli altri uomini, ma di ira, sdegno, collera, alterigia. Finiti gli studj e passato medico, cominciò a ronzare, e col conte di Pitigliano venuto a Lione nel 1534, vi fu incontrato da Giovan Angelo Odone suo condiscepolo, il quale lo descrive come «gran nemico della religione, del greco e delle scienze: in Italia (soggiunge) non osava palesare i suoi sentimenti, ma a Lione l'udii assicurare che stimava unicamente Gesù Cristo e Cicerone; ma di possedere questo non mostra ne' libri; se quello abbia nel cuore, Dio lo sa. Scampando d'Italia, portò, come sue consolazioni, non il Vecchio e Nuovo Testamento, ma le epistole di Cicerone a' famigliari»[55]. Da lui stesso sappiamo ch'era bandito d'Italia, e nascondeva il proprio nome: eppure prima di quel tempo avea servito al Caracciolo vescovo di Catania, assistente di sua santità, e al Madruzzi vescovo di Trento; presso il quale tornò poi quando si aperse il Concilio. Questa tolleranza non è la men bizzarra rivelazione di quel secolo, avvegnachè costui si fosse mostrato sempre e paradossale ed empio. Come coloro che vogliono acquistarsi fama dal pubblico collo schiaffeggiarlo, sputacchia tutti gli idoli del giorno; chiama animalaccio Aristotele; il Boccaccio incolto, ruffianesco, spregevolissimo; e dice amar meglio il parlar milanese o bergamasco che il boccaccevole, e vitupera i Toscani perchè pretendono parlar bene. Nelle _Cose notabili e mostruose d'Italia_ (1548) scrive di Milano: «La seconda Roma, chi ora la vedesse avendola prima veduta, direbbe: questo per certo non è Milano: egli non è desso: non vi è stata città in Europa già molti anni sono tanto flagellata....... Quivi s'è ritrovato una donna, a guisa di lupa affamata divorare i fanciulli: un fratello giacersi carnalmente con tre sorelle, e tre fratelli goder una sorella; il figliuolo la madre, il zio la nipote, il cognato la cognata. Quivi si son trovati uomini sì crudeli, che da niuna ingiuria mossi, sol per esser l'un guelfo e e l'altro ghibellino, vivi gli hanno arrostiti, e mangiatoli del fegato, e dentro il corpo messo del fieno e dell'orzo, e adoperato i corpi umani per mangiatoja de' cavalli. Quivi sonosi trovati uomini che hanno ammazzato nella propria chiesa i religiosi mentre cantavano li divini ufficj, e Iddio lodavano; nè una sola volta questo è accaduto. S'è trovato uno, di furore tanto accecato, che non si vergognava di dire impudentemente ch'egli volesse far un lago di sangue ghibellino. Non si sono vergognati uomini per nobiltà di sangue ragguardevoli molto, di starsi al bosco, e assassinare indifferentemente chiunque gli capitava alle mani..... È una setta, da una gran femina retta, la qual si sforza di ridur i suoi seguaci alla battesimale purità e innocenza, e del tutto mortificarli, e per quanto m'è stato riferito da persone degne di fede, per far prova della mortificazione fa coricare in un medesimo letto un giovane di prima barba e una giovane, e fra loro vi pone il crocifisso[56]; certo per mio consiglio meglio farebbe ella se vi ponesse un gran fascio di spine ed ortiche». Il Landi encomia l'infedeltà conjugale, il libertinaggio, i pregiudizj; alla guisa del Doni e dell'Aretino, scombichera libri sopra materie le più disparate; flagella gli scrittori antichi e moderni e le scienze stesse, null'altro cercando che il brillante. «Fastidito de' costumi italiani» e desideroso di «patria libera, ben accostumata e alieno del tutto dall'ambizione», passò in Isvizzera e ne' Grigioni, ma il _Dialogo lepidissimo_ pel funerale di Erasmo di cui parlammo (Vol. I, pag. 345), gli eccitò contro la città di Basilea. Fuggitone, visitò Francia; a Parigi penetrò nella Corte; e a Lione stampò i _Paradossi_, empio e licenzioso imbratto, pel quale dovette mutar paese: corse la Germania, finì a Venezia, dove aveva per amici il Muzio e l'Aretino. Parrebbero a cercarsi le sue opinioni ereticali nei «Quattro libri de' dubbj con le soluzioni a ciascun dubbio accomodate» (Venezia, 1552); un de' quali libri è di dubbj religiosi; ma non sono che frivolezze e grossolanità. Ha pure un dialogo «nel quale si ragiona della consolazione e utilità che si riporta leggendo la sacra scrittura, e si tratta eziandio dell'ordine da tenersi nel leggerla, mostrandosi essere le sacre lettere di vera eloquenza, di vera dottrina alle pagane superiori» (Venezia, 1552), e ribocca di proposizioni erronee, che lo mostrano più ignorante che ardito. Ma se della sua religione non può dirsi che male, non sembra professasse la nuova; e chi lo asserì lo ha probabilmente confuso con Geremia Landi di Piacenza, ch'egli introduce nel dialogo _Cicero relegatus_, e che, disfattosi da agostiniano, fuggì in Germania, apostatò, e scrisse _Oratio adversus cœlibatum_; _Explicatio symboli apostolorum, orationis dominicæ et decalogi_; _Disquisitiones in selectiora loca Scripturæ_. Di Ortensio pajono le _Forcianæ quæstiones_, dove si espongono i varj umori de' varj paesi d'Italia, e che alcuno male assegna ad Aonio Paleario. A lui pure è attribuito il _Sermone di Rodolfo Castravilla_ contro Dante, ma lo credo piuttosto di Belisario Bulgarini da Siena. Più tardi l'imitò nella sguajataggine un altro milanese, Gregorio Leti (1630-1701). Dissipato in viaggi ogni aver suo, s'attaccò ai Riformati, e speculatore d'esiglio e di libertà, professò il calvinismo a Losanna, insegnò a Ginevra, dove ottenne la cittadinanza per rimerito delle sue scritture contro Roma e la Chiesa cattolica. Le quali son numerosissime, e tali che nemmanco i titoli può la creanza lasciar ripetere, bastando accennare _il Parlatorio delle monache_, _i Precipizj della sede apostolica_, _la Strage dei Riformati innocenti_, _il Sindacato di Alessandro VII col suo viaggio all'altro mondo_, _il Nepotismo romano_, _l'Ambasciata di Romolo ai Romani_; _il Vaticano languente dopo la morte di Clemente X, con i rimedj preparati da Pasquino e Marforio per guarirlo_. Si vantava di sempre aver tre opere sul telajo; e quando per l'una gli mancasse ordito, si applicava all'altra. In fatto però gli doveano costare ben poco, giacchè affastellava baje insulse; raccoglieva di qua, di là senza critica, non pensando che ad impinguare i volumi e moltiplicare dedicatorie, come lo accusa il Bayle. Per toccar solo di quelle che s'accostano all'argomento nostro, _l'Italia regnante_ è un viaggio in quattro volumi (Valenza 1675) dove accumula anche aneddoti scandalosi, con notizie affatto inesatte[57]. Nella _Historia ginevrina_ narra con insipida prolissità di Mario Miroglio canonico di Casale, il quale, rimproverato dal suo vescovo perchè viveva scandalosamente, fuggì a Ginevra, vi si fe catechizzare dal ministro Diodati, menò moglie e lasciò figliuoli, morendo nel 1665 (Parte IV, lib. 3). Il _Livello politico, ossia la giusta bilancia nella quale si pesano tutte le massime di Roma ed azioni dei cardinali viventi_, stampate a Ginevra il 1678, non è forse altro che plagio d'opera colà comparsa il 1650, col titolo di _Giusta stadera de' porporati_. Adulatore quanto soglion essere i maldicenti, non trova parole sufficienti per esaltare Luigi XIV, «l'invincibile tra' guerrieri, l'eroe tra' Cesari, l'augusto tra' monarchi, il prudente tra' politici, il pianeta illustrato dell'universo» (_La fama gelosa della fortuna_). E lodi e vituperi distribuisce a man salva a Carlo V, al duca d'Ossuna, al presidente Aresi, talvolta in seconde edizioni conculcando codardamente quei che aveva codardamente esaltati nella prima. Eppure, mentre rinega continuo la critica e il buon senso, non sa tampoco imbellirsi collo stile e coll'ingegno; negletto e pretenzioso, grottescamente iperbolico, prolisso, nessun sosterrebbe la noja del leggerlo, se non vi fossero solleticate le basse passioni dallo sputacchiare Roma e violare il pudore. Che, come avviene dei libercoli di partito, queste parodie dilavate dell'Aretino fossero esaltate allora e tradotte, non fa meraviglia a chi conosce gl'intrugli di certe glorie: ben fa da piangere che, ai dì nostri, siasi voluto ridestarne la memoria e ripubblicarne alcune, fra cui la _Vita di Sisto V_, lurido romanzo, degno di quanto scrissero di peggio i nostri contemporanei. Chiesto dalla Delfina se fossero vere le mille sciagurataggini che asserì di quel papa, come di Filippo II e d'Elisabetta regina, rispose che una cosa ben immaginata piace quanto e più che la verità. Andato in Inghilterra, vide dallo scisma d'Enrico VIII «nate tante disgrazie a quell'isola e a quei popoli, che si può dire che da quel tempo in poi non hanno avuto momento di riposo i carnefici, essendo un miracolo che la Tamisa si navighi sopra acqua e non sovra sangue»[58]. Da re Carlo II ebbe accoglienza e mille scudi, coll'incarico di scrivere la _Storia della Grande Brittania_; e la fece in modo, che dovette andarsene se non volea di peggio; allora ingiuriando quelli che dianzi aveva blanditi[59]. Il famoso erudito Clerc, per consenso religioso e per amor d'una figlia di esso il fece accogliere e crear istoriografo di Amsterdam, ove improvviso morì. A dir suo, Paolo IV vide il libro di Calvino contro Serveto ove sostiene _jure gladii hæreticos esse coercendos_, e ne pigliò fidanza a istituire il Sant'Uffizio, come egli stesso ebbe a dire in concistoro; notizia che il Leti ricava da un libro a me ignoto, MENDI, _le rivoluzioni di Roma contro al tribunale dell'inquisizione_. «Una inquisizione più orribile di quella di Roma» a Ginevra sentenziò alle fiamme _il Livello politico_, _l'Itinerario_, _il Vaticano languente_, opere del Leti in cui trovava proposizioni repugnanti alla fede, ai costumi, allo Stato, ed egli fu cancellato di cittadino. Di Girolamo Cardano da Gallarate, scienziato non vulgare, autore di varie scoperte, eppure teosofista, astrologo e ciarlatano sfacciato, in altro luogo divisammo (Vol. II, pag. 372). Qui badando solo alle sue opinioni religiose diremo come a principio nel _De Uno_ sostenesse l'unicità dell'intelligenza secondo Averroé: di poi la negò nel _De Consolatione_; infine nel _Theonoston_ volle conciliar le due opinioni, col dire che l'intelligenza può considerarsi nella esistenza eterna ed assoluta, oppure nella fenomenica nel tempo; è unica nella sorgente, è molteplice nelle manifestazioni; soluzione che molti aggradiranno: ma Giulio Cesare Scaligero, suo gran nemico, l'accusa sempre di averroista. Più viene al caso nostro il passo _De subtilitate_, dove fa argomentare un contro dell'altro un Cristiano, un Musulmano, un Ebreo, un Gentile, e non tira alcuna conclusione, lasciando perfin sospeso il periodo. I Gonzaga di Mantova tenevano per l'imperatore, e perciò avversavano il papa; Ferrante Gonzaga era generale nell'esercito cesareo quando saccheggiò Roma; Giulia Gonzaga era stata scolara del Valdes; Guglielmo Gonzaga ricusò mandar a Roma alcuni, citati per eresia. Di ciò indignato, e perchè Mantova fosse un nido d'eretici (BZOVIUS), il papa voleva assalirlo colle armi nel 1566, ma gli altri principi s'interposero. Pio V, a reprimer gli eretici, spedì a Mantova Camillo Campeggi teologo del Concilio, il quale carcerò molti e processò, e otto condannò a fare pubblica abjura in San Domenico. I costoro parenti cercarono levar il popolo a rumore, affine d'impedire quell'atto, e non riuscendo, insidiarono la vita dell'inquisitore, e ferirono due Domenicani la notte di Natale. Il duca Guglielmo, dopo professatosi ligio al Sant'Uffizio sino a offrirgli il proprio braccio se occorresse, pubblicò severo bando contro que' riottosi, ma insieme domandò al papa rimovesse il Campeggi (1568). Il papa, zelantissimo de' diritti ecclesiastici, non v'acconsentì; anzi di que' disordini imputò la tepidezza del duca. Questi era legato col Cellario, che conosceremo, e prese sdegno dell'arresto e della morte di questo: e tutto il pubblico n'era così irritato, che Pio risolse pubblicar la severissima bolla del 1569. E spedì colà san Carlo col cardinale Commendone, sicchè fu infervorata l'Inquisizione, e gravissime procedure si fecero e abjure pubbliche, non senza supplizj. Anche quelli che di là si erano dispersi pel resto d'Italia perseguitò alacremente il Borromeo, finchè tutti gli ebbe in mano. Da Mantova era fuggito il canonico Strancario, che trovammo predicatore antitrinitario in Polonia, ed Alfonso Corrado che in un commento sull'Apocalisse scagliasi violentissimo contro i pontefici. Il benedettino Giambattista Folengo, fratello di Merlin Coccajo autore delle _Macheronee_, pubblicò commenti sulle Epistole e sui Salmi, che i Protestanti trovarono nel loro senso, e vollero indurne ch'e' fosse del loro pensare; vennero messi all'Indice, ma l'autore li corresse, e Paolo IV non esitò a mandarlo in Ispagna, visitatore del suo Ordine. Como, essendo contiguo a paesi settentrionali, soleva servire di passaggio a uomini e cose infette, e da Germania vi si mandavano balle di libri ereticali, come si scoprì poi nel 1549 per mezzo del Sant'Uffizio di Roma[60]. Doveva fomentarvi le nuove idee la vicinanza degli Svizzeri e de' Grigioni; pure, sebbene con cura speciale abbiam indagato gli archivj di quella curia, dov'erano nelle visite indicati tutti i miscredenti o sospetti, non trovammo alcun comasco personalmente indicato, oltre il Minicio e il Gamba che già mentovammo. Questo è detto bresciano dal Vergerio; certo fu morto a Como, e della prigionia e morte di esso un minuto ragguaglio si ha in lettere scritte a un fratello di esso da un comasco, e che furono ripubblicate dal De Porta[61]. Vedemmo come vi fosse trattato l'inquisitore Michele Ghislieri (VOL. II, PAG. 430), il quale, mentre dal monastero di San Giovanni entrava in città, fu preso a sassate dai ragazzi, sicchè a fatica ricoverò in casa dell'Odescalchi, principal fautore del Sant'Uffizio: il governatore gli comandò tornasse a Milano per quiete della città; ed egli il fece per distorte vie, temendo incontrar la sorte di Pietro Martire. I canonici comaschi andarono allora a portar discolpe a Roma: v'andò pure il Ghislieri, e fu la prima volta ch'ei vide la città, ove poi dovea seder pontefice. Vescovo di Como era allora Bernardino Della Croce, tenuto però lontano da Carlo V come amico di Paolo III e de' Farnesi. Gl'interpreti del Concilio di Trento nel maggio 1567 querelavano il vescovo di Como perchè non avesse ancora stabilito il seminario nella sua diocesi, esigendo la tassa stabilita su tutti i frutti che si riscuotono nel vescovado, e la mezza decima su tutti i benefizj; gli raccomandano di collocarvi di preferenza i figliuoli de' paesi infetti di eresia; e questi paesi egli visiti di frequente e vi abbia occhio[62]. Da Cremona nel 1528 fuggì per religione Bartolomeo Maturo, priore de' Domenicani, che predicò a Vicosoprano fino al 1547, e morì a Tomiliasca nell'Engadina, ove predicò pure Bartolomeo Silvio suo conterraneo. Di là migrarono anche Giovanni Torriano, Agostino Mainardi, celebre ministro a Chiavenna, Paolo Gaddi, un frate Angelo e Gian Paolo Nazzari domenicani; Gajo Lorenzo minorita, Daniele Puerari, due Offredi, un Torso, un Cambiaghi, un Fogliata, un Pelizzari. Paolo Orlandini, in una satira contro gli astrologi, deride senza nominarlo un cremonese che avea scritto intorno all'anticristo, alla riforma della Chiesa e alla fine del mondo pel 1530. Fra le lettere manuscritte nella biblioteca di Zurigo ve n'ha due di Alfonso Roncadello, padre di famiglia, il quale narra al ministro di Zurigo le persecuzioni che soffre, chiedendogli consolazioni. «Questi poveri membri cristiani, afflitti ed aggravati da questa intollerabile tirannide di anticristo, vi pregano caldamente che, insieme con tutta la santa Giesa, pregate il Signor per noi ne dia tanta fede, che ne liberarà da questa captività acciò potiamo offerire i corpi e l'anime nostre come bene sia piaciuto a Dio». Non è detto donde egli sia, ma lo crediamo tutt'uno con Alessandro Roncadello cremonese, il quale morendo a Ginevra, legò trentotto corone l'anno per li pii ch'erano fuorusciti d'Italia[63]. Di rimpatto in Cremona mostravansi zelanti contro gli eterodossi Angelo Zampi domenicano, autore d'un'opera _De veritate purgatorj_; divenuto inquisitor generale del ducato di Milano, colle multe imposte ad eretici comprò fondi e case a favore del Sant'Uffizio, come diceva il suo epitafio nel convento de' Domenicani a Milano. E quanto rigoroso operasse il Sant'Uffizio di Cremona ci apparve già nel decorso di quest'opera. Isidoro Isolano milanese (1480-1550), domenicano, fu de' più zelanti a repulsare Lutero, come avea ribattuto gli Averroisti e sostenuta l'immortalità dell'anima secondo i filosofi. Contano fra i milanesi Pietro Galesino, benchè nato ad Ancona, perchè lunghissima dimora fece tra essi, e fu opportuno sussidio a san Carlo, pel quale compilò gli atti o i sinodi, e l'ajutò nella restituzione dei riti, materia dov'era versatissimo. Oltre moltissime opere ecclesiastiche e vite di santi, accenna aver composto un volume _Contra Hæreticorum historiam_, che però non abbiamo; confutò il Platina. Magno Valeriano, nato in Milano il 1587 di illustre casa, resosi cappuccino, andò in Germania, dove fu caro e onorato dall'imperatore e dai principi; e fatto prefetto di quelle missioni, molti convertì, fra' quali il margravio di Hermannstadt. Ciò inimicogli molti, anche cattolici, e secondo un artifizio conosciuto, cercarono perderlo col tacciar d'ereticale un'opera sua stampata a Praga. Facilmente dissipò l'accusa; soffrì percosse, carcere, calunnie, e dopo sostenute onorevoli ambascerie, morì il 1661, e fu sepolto con un epitafio di quasi ducento linee, ove, in mezzo ad altre gonfiezze, si dice che la porpora cardinalizia vergognossi di coprir col suo ostro lui, cui già di più nobil ostro avea coperto il sangue versato per la fede cattolica. Molte opere scrisse, polemiche e apologetiche, e quella _De Catholicorum regula credendi_ (Praga 1628, Vienna 1641) gli attirò molte confutazioni di acattolici e di socciniani. NOTE [46] SCHOELHORN, _Amœnitates ecclesiasticæ_. [47] POLI _Epistolæ_ vol. III, _diatr._ p. 262. Sugli eretici che serpeggiavano allora in Lombardia e in tutta la regione transpadana, portano luce due lettere del Vida, che il cavaliere Ronchini trasse, la prima dalla Biblioteca Palatina di Parma, l'altra dall'Archivio governativo d'essa città, o che sono cosifatte: Al reverendissimo signor mio osservandissimo il signor cardinale Contareno. Cum vidissem in tota fere transpadana regione antiquissimam Psallianorum [Degli Psallj o _Precatores_ parla il Macri nello _Hierolexicon_] hæresim, improborum quorumdam scelere nostris temporibus repetitam, suscitari, literis statim Paulum III Pont. Max. admonendum duxi; si forte, dum malum adhuc est recens, occurrere vellet. Quod autem hic audio tibi, Contarene pater amplissime, curæ esse, ut, quæ spectant ad rem sacram, omnia e religione fiant dicanturve, neu quis quippiam contra sanctorum patrum placita moliatur, teque huic negotio in primis summi pontificis decreto de ejus sacri senatus sententia præfectum fuisse, tibi literarum ipsarum exemplum transmittimus, ut videas an ea, quæ scribimus, sint alicujus momenti, et tanti pontificis animadversione digna. Leges igitur prius tu quicquid id est; et, si quid ad rem facere videris, literas reddendas curabis. Quia vero etiam fortasse pluribus verbis egi quam par erat in re adeo clara; si tibi longiuscula epistola videbitur, judicaverisque habendam rationem pontificis ætatis jam, ut videor videre, in gravescentis, brevi tu coram rem explicabis. Deinde mihi ut quam primum rescribatur operam dari velim, simulque abs te mihi ignosci, quod, non multa mihi tecum familiaritate intercedente, ad te, ista gravitate, dignitate ac doctrina virum, tam familiariter scribere ausus sim: quod ut boni consulas te etiam atque etiam rogo. Vale, et Vidam tui observantissimum dilige. Cremonæ, calendis febr. MDXXXVIII. Tui observantissimus famulus Hier. Vida, Albæ episcopus. Al molto reverendo signor mio osservandissimo, il signor Marcello secretario secreto di Nostro Signore. [Marcello Cervino, che fu poi papa.] In queste parti et in Lombardia gli errori de' moderni heretici vanno molto hora dilatandosi: non parlo già della diocesi mia, che, per Dio gratia et per uno gagliardo Breve a me da nostro signore per sua benignità el suo prim'anno concesso contra tanto esenti quanto non, è assai ben netta. Dico la cosa esser in colmo; e, se non se li provede, vedo l'impendente total ruina. A questi giorni trovandomi in Asti per vedere il signor marchese del Vasto, et ivi ragionando sopra questa mala influentia, per alcuni predicatori, i quali in diversi lochi hanno havuto ardire predicare perniciosa dottrina contra il pubblico consenso d'antichi Padri, in molto pregiudicio de l'anime de' fedeli christiani, ritrovandosi a questi parlamenti il signor Giovanni Battista Speciano senatore di Milano et capitano generale di justitia, huomo molto da bene et catholico, mi promise volere alla fiata, anchor che sia occupatissimo, ire alle prediche, per potere obviare a tali inconvenienti: il che facendo, son certissimo sarà di molto freno a queste pesti, per la suprema autorità e potestà che tiene. Vero è che in la mente li resta qualche scrupolo, imperocchè essendo materia mera ecclesiastica, accasca spesse fiate fare qualche dimostrazione contra detti heretici; ma, dandoli poi da essere giudicati al giudice ecclesiastico, si vede che subito senza altra animadversione sono rilassati, sotto pretesto che siano pentiti et emendati, e che non siano relapsi. Io poi ritornato alla mia Chiesa, e facendo molta consideratione sopra questa cosa, et vedendo che questa setta di heretici non è per errore, ma per espressa malitia, e che non solamente fanno questo perchè così sentano, ma tutto procedere perchè attendono alla destruttione del vivere christiano, e sitiscono il sangue dei catholici, macchinando etiandio con l'arme in la vita nostra, e che non fu mai setta tanto pernitiosa, mi parerebbe se li dovesse precedere contra con maggiore severità, e non darli occasione di far peggio, perdonandoli sotto pretesto di falso pentimento. Questi falsamente repentiti (io ne ho veduto l'esperienza molte volte) fanno come gli uccelli, i quali sono stati in la rete una volta: non mutano il costume suo, ma sono assai più cauti, temendo di non cascare in la rete un'altra fiata, e con astutia serpentina al coperto spargono tutto il veneno, et fanno peggio assai che prima. Per obviare a tanto male, si serva pratica in Francia di condennare alla morte et al focho chi è represo, nè si aspetta che la seconda volta incappino; e, per questo, in quelle contrate capitano rarissimi heretici. Quando tal pratica si servasse in Italia, non sarebbe tanto dannoso, nè si dilaterebbe tanto questo male, il quale ogni dì va serpendo per summa impunità e licentia di delinquire. Nè mi parerìa fuori di proposito che hor si facesse una severa costitutione contra gli heretici, come al tempo d'Innocentio IIII in _Concilio Lugdunense_ fu fatta contra quelli i quali commettevano homicidio per mezzo degli assassini; dove el detto pontefice volle che, constando che alcuno avesse commesso tal delitto, come inimico della religione christiana fusse diffidato da tutto il populo christiano, et ciascuno potente senza altra sententia lo potesse punire della vita. A questa impresa mi pare saria molto a proposito l'animo di nostro signore, come anche sua santità nel suo pontificato ha fatto altre imprese honorevolissime, intentate dagli altri pontefici suoi predecessori. Se pur sua beatitudine non volesse fare una cosa pubblica e generale, me parerìa molto a proposito ch'ella facesse electione d'alcuni signori seculari in Italia, persone di buona fama et catholici, alli quali desse piena libertà di potere executivamente punire tutti gli heretici convicti (o fusseron relapsi, o non), con partecipatione del vescovo di quella diocesi per riverenza. Se nè ancho questo piacesse a sua beatitudine fare in ogni loco, certo almeno sarìa necessario in Lombardia et in queste contrate di Piemonte. E, piacendole, non potrebbe trovare huomo più a proposito in queste parti di quello, del quale di sopra è fatta mentione, essendo dottore e dotto senatore, et capitano generale di justitia, di molta autorità. De l'integrità et virtù sua, sua beatitudine potrebbe far pigliare informatione dal reverendissimo cardinale di Veruli, havendo sua signoria reverendissima praticato molto tempo nel ducato di Milano. Tal facoltà ho inteso fu data altre volte al marchese di Saluzzo, e fu di tanto spavento in queste parti, che, poichè n'ebbe punito due o tre, mai più nel tenimento suo non si vide pur un heretico, ancorchè li circumvicini paesi ne fusseron pieni. Se tal facultà se fusse havuta, un mastro Agostino dell'Ordine de' Servi (credo sia aretino) [Dovrebb'essere maestro Agostino Bonucci da Arezzo, che nel 1542 fu generale dei Serviti, e del quale trattano gli _Annali dei Servi di Maria_ al tom. II, pag. 131 dell'edizione lucchese del 1721], il quale or fa l'anno predicò gagliardamente in Cremona mille heresie, non sarìa partito impunito. Quest'anno poi predicando in Genova, non fu già tollerato dai Genovesi, ma scacciato con vergogna anti mezza quaresima; provisione certo non bastante, imperocchè un altro anno andarà a seminare queste male sementi altrove. Costui, oltra le bestemmie ch'ebbe ardimento predicare in Cremona contra Dio e li santi, tutto incumbeva a demolire la potestà ecclesiastica e del sommo pontefice. Venne a tanto, che seditiosamente tentò di persuadere al populo che fusse lecito ire a casa di prelati ecclesiastici, e popularmente depredarli, levando li grani e robe quanto se poteva. Per soddisfare al debito mio mi è parso non poter far di meno, che non procurassi per qualche via queste cose tanto periculose pervenissero a notitia di nostro signore, acciò vi facesse opportuna provisione come li paresse. Piacerà dunche alla signoria vostra, comunicando prima il tutto col reverendissimo et illustrissimo signore padron nostro (il cardinale Farnese), la cui signoria intendo già essersi applicata alle faccende, parlarne opportunamente con sua beatitudine. E s'ella non potesse comodamente fare che non li dicesse l'autore da chi ha queste cose, lo dica con tal destrezza, che sua santità non mi tenga nè presuntuoso, nè in tutto inetto, ch'io mi sia arrogato prescrivere quale modo s'habbia tenere circa cose di tanta importanza. Il zelo della fede et il studio ch'io ho sempre havuto a quella sacrosanta sede, m'hanno spinto a ciò fare. Baso il piede di sua santità, le mani allo reverendissimo et illustrissimo signor padrone, et me raccomando alla signoria vostra. In Alba alli XXVII di maggio MDXXXIX. Se nostro signore ordinasse che 'l Breve fosse fatto al signor Giovanni Battista Spetiano, vostra signoria lo facci dare al mio agente. E perchè ho nuove fresche che monsignor illustrissimo e reverendissimo dovrà ire in Ispagna, in absentia sua insinui pur queste cose a sua beatitudine. Di vostra signoria servitore Hier. Vida, vescovo d'Alba. Segue la bozza d'un _Breve_, che il Vida proponeva alla Corte di Roma. Paulus PP. III. Dilecto fili, salutem et apostolicam benedictionem. Cum, sicut ad nostrum displicenter pervenit auditum, in partibus Lombardiæ ac totius fere Galliæ Cisalpinæ, scelere et culpa quorundam diversorum ordinum verbi Dei prædicationis officium sibi assumentium, magis ac magis recentium hæreticorum hæreses quotidie invalescant, multique eorum exemplo non pertimescant serere ac spargere perniciosa in suarum et aliorum Christi fidelium animarum periculum, atque in Dei et ejus sanctorum, nec non hujus sacrosanctæ sedis nostræ contemptum, sacros canones et sanctorum Patrum constitutiones ludibrio habentes, nitunturque in populo christiano, quantum possunt, seditiones commovere, ac totis viribus simplicium atque imperitæ multitudinis animos contra dictam sedem concitare non desinant; nos, ad quos ex commisso nobis desuper pastoralis officii debito pertinet in talibus debitam diligentiam adhibere, præmissis, ne deteriora parturiant, congruentibus remediis occurrere desiderantes, tibi, de quo in iis et aliis specialem in Domino fiduciam habemus, quique, ut accepimus, in ducatu Mediolani, atque in dictæ Galliæ Cisalpinæ plerisque regionibus potestate tibi a Cæsare contra delinquentes puniendos tradita plurimum polles, fideique catholicæ propugnator ac vindex strenuus semper extitisti, ac devotione quadam præcipua erga dictam sedem nostram teneris, per præsentes, auctoritate apostolica, motu proprio et ex certa scientia committimus et mandamus quatenus omnes et singulos utriusque sexus tam laicos et seculares, quam ecclesiasticos et quorumvis Ordinum regulares, cujuscumque dignitatis, status et conditionis, ac quovis exemptionis privilegio muniti fuerint, in præmissis culpabiles, hæresis videlicet labe aspersos, seu suspectos, eisve auxilium, consilium et favorem quomodolibet præstantes, nemine irrequisito, persequi, capere, ac detineri facere possis ac debeas, eosque deinde, ad Dei laudem et honorum exaltationem et perversorum exemplum, juxta canonicas sanctiones debilis pœnis compescere auctoritate nostra procures, requisito tamen ac tecum talibus examinandis ac condemnandis adhibito loci illius episcopo, seu ejus vicario, ubi talia contigerit perpetrari. Quia vero propter nimiam levitatem, qua judices ecclesiastici agere solent contra hujusmodi deprensos, sæpius contingit improbis majorem delinquendi causam atque occasionem præberi, cum quisque malus, spe facilis veniæ, confidentius ad malum invitetur, sæpiusque contingit hujusmodi perversos, prætextu falsæ pœnitentiæ, quam ecclesiæ constitutionibus illudentes preseferunt, ut mortem, atque alias pœnas evadant, pejores ac magis perditos fieri, magisque perniciosa audere, atque moliri, eadem auctoritate committimus ac mandamus ut, si eos, qui in hujusmodi crimine deprehensi fuerint, tu una cum dicto diocesano tales esse inveneritis, quod sine periculo eis parci nos possit, quod scilicet non tantum hæretica labe inquinati sint, sed insuper factiosi et seditiosi in populo christiano catholicorum ac bonorum sanguinem sitientes, ac dictæ sedis nostræ ruinam inhiantes quotidie nova moliantur, non expectes donec iterum deprehendantur, sed tu eos tunc primum etiam juxta legum imperialium severitatem, tamquam religionis hostes, a toto populo christiano diffidatos, digna animadversione punias; mandantes in virtuto sanctæ obedientiæ venerabilibus fratribus nostris archiepiscopis, episcopis, ac aliis ecclesiarum prælatis ut, quoties in præmissis in eorum diocesibus a te requisiti fuerint, operam et interventum suum non denegent, sed etiam auxilium, consilium, favorem opportune præbeant, non obstantibus præmissis ac quibusvis apostolicis, nec non in provincialibus et sinodalibus conciliis editis generalibus vel specialibus constitutionibus et ordinationibus, privilegiis quomodocumque indultis, et literis apostolicis etiam in forma Brevis, etiam motu simili, et ex certa scientia, ac de apostolicæ sedis potestatis plenitudine, etiam super exemptione et alias quomodolibet concessis, approbatis et innovatis, quæ adversus præmissa nullatenus suffragari posse, sed eis omnino derogari ac derogatum esse volumus, ac si de eis cxpressa mentio de verbo ad verbum hic facta foret, ceterisque contrariis quibuscumque. Datum Romæ etc. _A tergo._ Dilecto filio Jo. Baptistæ Spetiano cæsareo senatori, ac justitiæ in ducatu Mediolani capitaneo generali. _Nota, tutta di pugno del Vida:_ — Si è facto questo schizzo per instrutione: uno pratico lo metterà poi in forma. [48] Lettere al Bullinger, 10 giugno, 15 agosto, 22 agosto 1558, 29 luglio 1559. [49] RAYNALDI _Ad ann._ [50] Conoscesi un'altra _Esortazione al martirio, colla Dottrina vecchia e nuova_: e il Vergerio la dice opera di Urban Reggius (nato ad Argalonga (?), morto il 1541), «il quale quasi tra i primi hanno nominato e condannato; e anche in questa si vede la loro crudeltà, per ciò che vogliono ogni giorno affliggere e perseguitare, cacciare in prigione, metter in galera, mandare in bando, privare della dignità e della roba questo o quello, e non vogliono pure che egli abbia dove consolarsi». [51] Intendo un panegirico al tempo della Repubblica Cisalpina. [52] JULII POGGIANI _Epistolæ_, vol. II, pag. X. [53] Carlo Borromeo come Pio IV erano milanesi, e qui per la Spagna governava a Milano in que' giorni don Gonsalvo Ferrante di Cordova, duca di Sessa. [54] ROSCIO DE PORTA III, 10. [55] Lettera del 29 ottobre 1535 a Gilberto Cousin (Cognato), nelle opere di questo. Tom. I, pag. 313. [56] Certe cronache esistenti nella Biblioteca Ambrosiana attribuiscono siffatte prove alla duchessa di Guastalla, istitutrice delle Angeliche di San Paolo. [57] Dà a Milano 250 mila abitanti; cento piazze da vendita, e in Europa non si trova città più abbondante di quella di cose da mangiare, come ancora di orefici, armaruoli, tessitori di panni di seta ecc. Il castello può assomigliare ad una mediocre città, mentre vi si trovano contrade, piazze, palazzi, botteghe d'ogni sorta d'artefici. [58] _Vita di Sisto V._ [59] Nella prefazione alla sua _Vita di Cromuel_ si legge: «Può dirsi che le opere date in luce dal sig. Leti sino a quest'anno 1692 giungano al numero di ottanta, senza comprendere il _P...nesimo moderno_, il _Conclave delle P..._, il _P...nesimo di Roma_, il _Parlatorio delle Monache_, il _Ruf... del gobbo di Rialto_; delle quali opere vogliono autore il sig. Leti, che però da lui si nega; ed a' suoi confidenti, allorchè l'interrogano sopra tal materia, suol rispondere: _Delicta juventutis meæ et ignorantias meas ne memineris, Domine..._ In italiano ha ancora fatto stampare molti epitalamj, come _il Letto fiorito_, _il Trasporto d'amore_, _la Rôcca assediata_, _il Vicino avvicinato_, _l'Oriuolo sonoro_ ed altri versi». [60] Lo dice il Caracciolo, e vedasi il nostro Vol. II, PAG. 347. [61] P. II, p. 258. [62] JULII POGGIANI, _Ep._ vol. I, p. 417, e di nuovo alla 428 e 435. [63] ROSCIO DE PORTA, vol. II, pag. 53. DISCORSO XLII. CLEMENTE VIII. I FILOSOFI NUOVI. BRUNO. CAMPANELLA. VANINO. FERRANTE PALLAVICINO. Tre papi si succedettero in pochi mesi del 1590 e 91: Urbano VII, Gregorio XIV, Innocenzo IX: poi Clemente VIII, insediato il 1592, finiva il 1605. Questi, prodigiosamente operoso, perseverante, circospetto senza doppiezza nè nulla d'abjetto; esperto amministratore e geloso di governar da sè, colla prudenza, la destrezza e l'aspettare compieva ciò che non potesse di primo impeto; si oppose all'ambizione dei Medici come alle pretendenze di Spagna, e riuscì a rimetter questa in armonia colla Francia, staccare Enrico IV dall'Inghilterra e dall'Olanda, ricuperare alla santa sede il ducato di Ferrara, preparare una grande spedizione contro la Turchia. Ebbe la consolazione di ricevere deputati dal patriarca d'Alessandria, che abjurava l'eutichianismo, e dai Greci di Polonia, che passavano dalla chiesa rutena alla romana (1595): studiò indefesso nella inesauribile disputa della Grazia, e vi pose un freno: personalmente e con benevolenza trattava cogli eretici e co' filosofi: tenne presso di sè il naturalista Cesalpino, benchè in fama di ateo, e gli diè licenza di legger i libri botanici de' Protestanti: chiamò a Roma il Patrizio, filosofo indipendente. Vero è che, avanzando in età, mostrossi più severo; obbligò quest'ultimo a ritrattarsi, pose all'Indice le opere di Telesio. Nella bolla 25 luglio 1596 metteva: «Abbiam saputo con immenso rammarico che molti fedeli, uscendo da varie parti d'Italia lor patrie, dove la vera e santa cattolica apostolica religione è in vigore e pubblicamente predicata, vanno in lontani luoghi, dove non solo serpeggia impunemente l'eresia, ma è interdetto il pubblico esercizio della religione cattolica, talchè colà anche le persone fedeli restano prive della messa e dei sacramenti. Desiderando quanto possiamo ovviare a questi ed altri mali, ordiniamo che nessun italiano, mercante o di qualsiasi condizione, sotto nessun titolo o pretesto abiti o si stanzii in luogo dove non v'abbia chiesa con parroco o sacerdote cattolico, e dove liberamente e senza pericolo possano pubblicamente celebrarsi la messa e i divini uffizj: essi italiani si astengano da nozze con donne eretiche, da sepolture d'eretici, dal far levare al battesimo i loro figli da eretici, nè valersi di medici loro, per quanto possono. Quando poi rientrino in patria, si notifichino al vescovo e agli inquisitori, dai quali saranno ammoniti seriamente ad osservare anche le pratiche della Chiesa, e a sfuggire gli erranti; e attestino d'essersi almen una volta l'anno confessati e comunicati, se no vengano puniti dagli inquisitori». La bolla fu confermata da Gregorio XV, che ne promulgò un'altra contro gli eretici che dimoravano in Italia, e chi li favorisse. Nel pontificato di Clemente VIII restò famoso il processo di Giordano Bruno. Nelle teorie del pensiero si era rotta la venerazione scolastica, sia seguendo i Platonici teisti e i Neoplatonici panteisti, alcuni de' quali vantavano l'unità di Plotino, alcuni la trinità razionale, alcuni il risolversi delle cose in Dio: sia emancipandosi dall'autorità, e tentando coll'esperienza e coll'induzione piantare teoriche nuove, con quelle eccentricità, che taluni considerano come genio. Bernardino Telesio di Cosenza (1509-88) ammetteva tre principj: due incorporei, calore e freddo; uno corporeo, la materia, e li faceva non soltanto attivi ma intelligenti, percependo i proprj atti e le mutue impressioni: e dalle loro combinazioni esser nate le cose. Le sue opere dicemmo proibite da Clemente VIII, nè a torto, se insegnava _quod animal universum ab unica animæ substantia gubernetur_. In fatti al panteismo vergeano tutte le teoriche d'allora, o non traendone le conseguenze, come Marsilio Ficino che diceva _Deus fieri nititur_, eppure si mostra tutt'altro che panteista; oppure intendendolo in un senso che non vorremo giustificare, ma esplicare. Qualche fisiologo o tassonomico riconosce che tutti gli enti, a qualunque appartengano dei tre regni fittizj, sono _animati_: i minerali hanno una vita latente di continuità; i vegetali una vita di eccitazione; gli animali una vita istintiva; onde soli questi ultimi sono non solo animati, ma _animali_. La cristallizzazione, cogli stupendi suoi accidenti, attesta nelle molecole minerali una forza propria d'informarsi e individuarsi, analoga alla forza plastica de' germi vegetali; cioè il principio vitale, avente come forza sussidiaria indispensabile l'etere, che però non tende a plasmare, sibbene a dissolvere. In tal senso, secondo una dottrina ora abbandonata, il Fusinieri asseriva che «tutto l'universo sensibile è in combustione». In fatti ogni atto vitale cade su oggetto materiale: quest'azione importa lavoro; il lavoro importa combinazione o decomposizione chimica, e perciò combustione; sicchè può dirsi che tutto l'universo è in combustione, o, secondo le teoriche moderne, è in moto; e da per tutto e in tutto v'è l'alito della vita. Ciò forse intendeva il Bruno. _Intorno a Giordano Bruno ci valemmo di alcuni fra i documenti che esistono nell'Archivio di Venezia. Altri ci erano stati formalmente promessi, poi ci si mancò. Ora il signor Domenico Berti pubblica s'un giornale di Firenze una notizia, appoggiata a que' documenti, secondo la quale potremmo modificare qualche cosa nel nostro racconto._ Il Bruno nacque in Nola il 1548 da Giovanni e da Fraulissa Savolina, e fu battezzato col nome di Giovanni, che cambiò in Giordano quando si monacò. Della patria e dell'infanzia sua ragiona egli spesso con passione. Entrò ne' Domenicani di Napoli a quindici anni, ma una volta diede via tutte le immagini de' santi, sol ritenendo quelle di Cristo; e ad un frate, che leggeva le sette allegrezze della Madonna, disse: «Non trarresti maggior frutto dalle vite de' santi padri?» Già di qui trapelano le sue idee, che poi spiegò dopo fatto sacerdote il 1572, e che tenevano delle ariane; onde venne processato. Fuggì dunque di là a Roma: ma vagheggiando una religione filosofica da opporre a tutte le positive, e sperando «verrà un nuovo e desiderato secolo, in cui i numi saranno confinati nell'Orco, e cesserà la paura delle pene eterne», presto fu accusato di nuovo, sinchè, per cansare il pericolo e «non esser costretto di assoggettarsi ad un culto superstizioso», gettò l'abito, ricoverò in Genova, poi in Piemonte e altrove; indi pel Cenisio nel 1576 uscì d'Italia, ecc. In Inghilterra sta tre anni in casa di Michele Castelnau ambasciadore di Enrico VIII. Consta che a Ginevra non dimorò che due mesi. A Praga dedica cinquanta tesi di geometria a Rodolfo II, che lo rimunera con cinquecento talleri. Dopo che avea professato a Brunswick, a Helmstadt, a Francoforte, Giovanni Mocenigo per imparar da esso i segreti della memoria, lo invitava a tornar in Italia, per mezzo di Battista Crotti librajo che si recava alla fiera di Francoforte sul Meno, ove il Bruno dimorava allora nel convento dei Carmelitani, i quali comprendeano lui essere un bell'ingegno e uomo universale, ma non aver religione alcuna. Liberamente venuto a Venezia, si pose ad educare il Mocenigo, che allora avea trentaquattro anni e abitava in calle San Samuele, e che vano e fantastico, presto si disgustò del Bruno, cui diceva indemoniato: e infine lo consegnò al Sant'Uffizio il 22 maggio 1592. Apertosi il processo coll'assistenza dei savj dell'eresia, furono citati quei che l'aveano conosciuto e praticato a Francoforte o a Venezia. Il Bruno, oltre narrare tutta la sua vita, confessò che la sua filosofia repugnava indirettamente alla fede, come quelle d'Aristotele e di Platone, ma ciò esser comune a moltissime altre scuole; non aver egli però insegnato o scritto cosa che direttamente vi contradicesse: ammetter egli un universo, infinito per grandezza e per moltitudine di mondi, ove tutto vive e si muove: dubitare dell'incarnazione del Verbo, cioè dell'Intelletto; tenere lo spirito divino come anima dell'universo; ciò peraltro come filosofo; del resto credere quel che la Chiesa, e dolersi di non averne osservato i precetti, o parlatone con leggerezza; detesta e abborre i suoi errori, e vuole nel seno della Chiesa cercare i rimedj opportuni alla sua salute. Chi vorrà tener conto di ritrattazioni e pentimenti espressi in tal posizione? Nessuna sentenza pronunziò il tribunale veneto contro di lui, ma col consenso del senato, che riconobbe «esser le costui colpe gravissime in proposito d'eresia, sebbene uno de' più eccellenti e rari ingegni, e di esquisita dottrina e sapere», fu consegnato nelle carceri di Roma il gennajo 1593. Il Bruno supponeva dovervi essere una filosofia e una teologia nuova, dacchè v'era una fisica e un'astronomia nuova, diversa da quella che suole andar congiunta con la cattolica teologia, e che si crede meglio accomodata alla pietà e semplicità cristiana. Grand'ammiratore de' Tedeschi, che preconizza saranno Dei, non uomini, e cultori della filosofia, esalta Lutero, nuovo Ercole che atterrò le porte adamantine dell'inferno, e penetrò nella città superando la triplice mura e i nove giri dello Stige; altrettanto vitupera il papa, e forse da ciò fu detto che fece il panegirico di Satana, che in qualche luogo chiama di fatti quel dabben uomo di diavolo. Il signor Berti sostiene vero il supplizio del Bruno. Pure nè dal Ciacconio, nè dal Sandini, nè da altri scrittori di storia ecclesiastica se ne parla, nè dall'Alfani o da Marco Manno nella _Storia degli Anni Santi_, nè dal cardinal d'Ossat, di cui si hanno le lettere di quell'anno; neppure dal martirologio de' Protestanti. L'Archivio del Vaticano contiene il processo, non la condanna e l'esecuzione. Al 6 dicembre 1611, frà Paolo, che pur conobbe il Bruno a Venezia, scrive al Leschasserio di due supplizj avvenuti a Roma. Uno di Guglielmo Rebaul, che abjurata la religione riformata, visse a Roma scrivendo contro ai Protestanti e al re d'Inghilterra: arrestato per avere scritto contro un ministro di Francia, gli si trovò un libro violento contro il papa, onde fu decapitato. L'abate Du Bois che avea scritto contro i Gesuiti, poi n'era stato guadagnato, domandò di poter andare a Roma e n'ebbe licenza, ma preso, fu strozzato in Campo di Fiora, adducendosi che dall'Inquisizione nessuna autorità può esimere. _Et tamen sicut is non est primus, deceptus fide romana, ita nec ultimus decipiendus._ Il Sarpi sparla assai dello Scioppio, e dice che vorrebbe punirsi _majoribus remediis quam cartaceo igne_. Sarebbe stato il luogo di mentovare il supplizio del Bruno. J. E. Erdmann nel 1864 stampò a Berlino una lezione popolare sopra il Bruno e il Campanella, col titolo _Zwei Martyrer der Wissenschaft_. Alle _Opere di Giordano Bruno, ora per la prima volta raccolte e pubblicate da_ ADOLFO WAGNER (vol. 2, Lipsia 1830) precede una costui vita, dove son mentovati tutti quelli che prima n'aveano scritto, e mostrasi quanto mal lo facessero. Non si sa quando nacque: posto che cominciasse a scrivere a vent'anni, e avendo scritto, al più, per tredici anni, poi passatene sette in prigione, dovea esser giovane allorchè morì nel 1600. Col repudiare le dottrine peripatetiche si fe molti nemici, per sottrarsi ai quali gittò l'abito di domenicano, ed uscì d'Italia come il figliuol prodigo, dic'egli, per poi tornarvi. Arrivava a Ginevra quando vi moriva Francesco da Porto; ma coi discepoli del defunto Calvino e con Beza non aveva comune se non l'avversione a Roma: e risoluto a sciogliere colle proprie forze i problemi che tormentano l'umanità, non potè reggere all'intolleranza religiosa, che diveniva anche intolleranza filosofica a favore di Aristotele. A Tolosa, che titolavasi la Roma della Garonna, egli eccita rumore colle sue dottrine: ond'entra in Parigi nel 1579, e partecipa a quei _Galliæ tumultus_ suscitato per motivi religiosi. Ad Enrico III profonde lodi servili; e così alla Sorbona, ove dà lezioni pubbliche e private, e in disputa solenne proclama un suo sistema di logica universale, somigliante all'_Arte_ di Raimondo Lullo[64]. Migliori accoglienze ottiene in Inghilterra, dove stampa gran parte dell'opere sue. Vi regnava allora Elisabetta, e le prosperità politiche del costei regno distesero un velo sovra le persecuzioni di cui essa lo macchiò, ben più cupe e calcolate che quelle d'Enrico VIII, il quale, _per abolire la diversità d'opinioni_, avea moltiplicato i casi di Stato, accumulando le pene di tradimento a quelle d'eresia. L'aver il papa ricusato di riconoscer il divorzio di questo facea che Elisabetta venisse considerata come bastarda, donde un'ira personale contro del pontefice e de' Cattolici. È però falso che il papa ne irritasse gli sdegni, anzi Pio IV cercò ogni via di calmarla, e mandò Vincenzo Parpaglia, uom d'ingegno, favorevolmente conosciuto alla regina per esser dimorato in Inghilterra sotto il regno precedente; il quale dovea portar una lettera tutta affetto, promettendole non solo tutto quanto potesse contribuire alla salute dell'anima sua, ma pur quanto ella desiderasse per assodare la sua dignità regia, conforme al ministero affidatogli da Dio. «Se ritornate in sen della Chiesa, come desideriamo e speriamo, saremo pronti a ricevervi coll'amore e la gioja onde il padre del Vangelo accolse il reduce figliuolo: tanto più che voi ricondurreste tutto il popolo inglese». Il legato non potè tampoco arrivare in Inghilterra; Cecil e gli altri consiglieri di Elisabetta ne aizzarono i rancori, ne sbigottirono l'ambizione, e proruppe una persecuzione, ove eroicamente sepper resistere alcuni Cattolici, che formano una nuova serie di martiri[65]. Re e parlamento sancirono leggi d'un'intolleranza, qual mai non si era veduta ne' paesi cattolici, e che è bene ricordare quando colà sono abolite, mentre s'impiantano o s'invocano in paesi cattolici, a nome della negazione e d'una bugiarda libertà. A qualunque ecclesiastico usi altro rituale che l'anglicano, carcere a vita, come a chi assista a preghiere o riceva sacramenti con rito diverso: la morte de' traditori e la confisca a chi sostenga la giurisdizione spirituale d'alcun prelato straniero: incapacità d'ogni officio a chi non giuri la supremazia spirituale del re: chi dalla anglicana trae taluno alla Chiesa romana è reo di tradimento; di complicità chi non le rivela. L'assistere alla messa porta la multa di ducento marchi e dodici mesi di prigione. Chiunque, compiti i sedici anni, non interviene all'uffiziatura anglicana, paghi venti sterline per mese: ducento se persiste, e la prigione: anzi dappoi vi si aggiunsero l'esiglio e la confisca. Qualunque prete entri nel regno, s'abbia per traditore e mandisi a morte. La dichiarazione contro il papismo sia mandata a tutti i papisti, e devano sottoscriverla, pena il bando o la prigione a vita. Cento lire sterline di premio a chi arresta un prete o vescovo papista, o lo convince d'aver detto messa, o fatto altro atto di quel culto[66]. Alla memoria di Elisabetta o della sua gran nemica e vittima Maria Stuarda annettesi quella di David Rizio. Questo torinese, ito a Edimburgo col conte della Moretta rappresentante della Casa di Savoja presso la regina Maria Stuarda, acquistò le grazie di questa, e la serviva da segretario, confortandola a perseverar nella religione cattolica. In conseguenza dava uggia al partito protestante, che desiderava la dominazione dell'Inghilterra su tutta l'Isola; e volendo perderlo cominciò, dal calunniarlo, dicendo fosse amante della regina. Lo credesse o no, Enrico Darnley, marito di essa e d'accordo cogli acattolici, lasciò che il duca di Rothsay e Ruthwen lo pugnalassero, invan rifuggito dietro alla regina, gravida. Si moltiplicarono romanzi e tragedie sugli adulterj della infelice Stuarda: essa la più bella regina d'Europa, il Rizio piccinacolo e contraffatto: lo stesso Ruthwen le dichiarò averlo ucciso perchè fautore dei Cattolici[67]. Così col corrompere l'opinione preparavasi l'assassinio legale che della Stuarda fece la superba Elisabetta. A questa Elisabetta retoriche adulazioni prodiga Giordano Bruno, chiamandola «unica Diana, qual è tra noi quel che tra gli astri il sole». Ad Oxford egli sostenne l'immutabilità dell'anima e il moto della terra, che allora era rifiutato dalla patria di Newton; ma quella Università avversava pur essa i liberi lanci dell'immaginazione, talchè il Bruno non potè durarvi. Recatosi in Germania, s'indugiò a Wittemberg, già palestra di Lutero e di Melancton, il quale vi avea tornato in onore Aristotele. Il Bruno loda la tolleranza di que' professori anche ver lui, benchè diverso di fede[68]; e sfrenatamente esalta Lutero. «Il vicario del tiranno dell'inferno, volpe e leone, armato delle chiavi e della spada, di astuzia e di forza, di finezza e violenza, di ipocrisia e ferocia, aveva infetto l'universo d'un culto superstizioso e d'ignoranza brutale, sotto il titolo di sapienza divina, di semplicità cara a Dio. Nessuno osava opporsi a questa belva vorace, quando un novello Alcide si levò per riformar il secolo indegno, l'Europa depravata a stato più puro e più felice; Alcide superiore all'antico perchè più grandi cose compì con minori sforzi, uccise un mostro più potente e pericoloso degli antichi: e sua clava fu la penna. E donde venne questo eroe se non dalle fiorenti rive dell'Elba? Qui il cerbero da tre teste, cioè dal triregno, fu tratto dal tenebroso orco, costretto a guardar il sole, e vomitar il suo veleno.... Tu vedesti la luce, o Lutero, tu intendesti lo spirito divino che ti chiamava, e gli obbedisti, e corresti, debole e senz'armi, contro allo spaventevole nemico de' grandi e dei re; e coperto delle sue spoglie, salisti al cielo»[69]. Questi vanti a Lutero non significano gran cosa per chi abbia letto le putide lodi che il Bruno sparpagliò lungo tutto il suo viaggio. Pur la leggenda popolare ritenne che a Wittemberg egli avesse fatto l'elogio del diavolo, e patteggiato con esso. Aveva in fatti parlato spesso del diavolo con una famigliarità, che dovea scandolezzare quando tutti il temevano; chiamatolo _uom da bene_; trovatolo accorto perchè mostrò i regni della terra non dall'antro di Trofonio, ma dal vertice d'una montagna; e sperare che anche i demonj sarebbero salvati, non potendo nè Dio restar eternamente implacabile, nè essi aver luogo in un mondo perfetto[70]: e chi sa che non abbia voluto di sottilità dialettica e oratoria far prova coll'elogio del diavolo? Mal conchiusero si fosse fatto luterano, perchè nella _Oratio consolatoria habita in ill. Academia Julia_ di Helmstedt accenna essere stato _ad reformationis ritus exhortatus_. In realtà, con ardore d'apostolo predicò nelle varie Università e Corti d'Europa la teoria di Lullo, il sistema mondiale di Pitagora, il panteismo eleatico, vestito di forme neoplatoniche; or applaudito ora scomunicato; non rassegnandosi alle dottrine legali, sempre irrequieto e in battaglia cogli emuli, coi Calvinisti a Ginevra, coi Cattolici a Tolosa e Parigi; sempre geloso della libertà del filosofare, nella quale non conosce punti di fermata; sempre guidato da una superbia fin ridicola[71]. Vantavasi d'esser esule dalla patria per gli onesti argomenti e studj suoi sulla verità, pei quali di rimpatto trovavasi cittadino tra gli stranieri; ivi esposto alla vorace gola del lupo romano, qua libero; ivi morto dalla violenza de' tiranni, qua vivo per la giustizia e cortesia d'ottimi principi. E spesso si lagna, come han dovuto far tutti gli Italiani, di persecuzioni e invidie patrie. «Bisognava che fosse un animo veramente eroico per non dimettere le braccia, disperarsi e darsi vinto a sì rapido torrente di criminali imposture, con quali a tutta possa m'ha fatto impeto l'invidia d'ignoranti, la persecuzione di sofisti, la detrazione di malevoli, la mormorazione di servitori, li sussurri di mercenarj, le contraddizioni di domestici, le suspizioni di stupidi, gli scrupoli di riportatori, gli zeli d'ipocriti, gli odj di barbari, le furie di plebei, furori di popolari, lamenti di ripercossi, e voci di castigati». In fondo di quella dottrina, rispondente all'indole ontologica del pensiero italiano, egli era assolutamente panteista, facendo il mondo animato da un'intelligenza onnipotente, causa prima non già della materia, ma delle forme tutte che la materia può assumere, e che vivono in tutte le cose, anche quando non sembrino vivere. La sua dottrina appare specialmente dalla _Cena delle Ceneri_, e nei libri della _Causa, principio ed uno_, dell'_Infinito, universo e mondi_. Il suo primo reale è un'unità infinita eterna, sottoposta al multuplo e al visibile, identità degli opposti come coincidenza del tutto, e fuor della quale non può darsi nulla. Nell'uno van confusi finito e infinito, spirito e materia: l'unità è Dio, essenza di tutte le cose: tra l'uno minimo e il massimo è tutto indifferentemente: Dio si fa tutto; è tutto quello che può essere, universo, mondi, monade, numero, figura[72]; è potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l'essere. S'egli manifestasi nella pluralità è il mondo, sicchè il mondo è Dio, animale santo, sacro, venerabile[73]. La natura è Dio che si estrinseca, ed eternamente ritorna in sè; talchè natura naturata e natura naturante son tutt'uno, e ogni cosa ha in sè latente la divinità, la quale può in una sfera infinita amplificarsi. Nell'essere non manca mai nulla: tutto è buono in sè: la morte è tramutazione: il male è apparenza soltanto. Come si concilii il finito coll'infinito, l'ideale col reale, la libertà colla necessità, è l'indagine sua, e proponeasi quello cui non riuscì, cioè di non volatilizzar la materia ed intirizzire lo spirito, ma verificar la natura, e non dividere colla ragione ciò ch'è indiviso secondo natura e verità. L'atto assolutissimo e l'assolutissima potenza non possono intendersi se non per modo di negazione; e a conoscer i misteri della natura occorre indagare il massimo e il minimo, le opposizioni e le repugnanze, attesochè la differenza nasce dall'unità e a quella ritorna. Per mantener dunque quest'intima unità della natura e della mente, eliminò quanto vi era di finito nel concetto dell'infinito; quello a cui non s'attaglino nè tempo, nè spazio, nè moto, nè quiete, se non in quanto tali categorie s'identifichino nell'universo ed uno. E l'universo è uno, infinito, immobile, essendovi una sola potenza assoluta, un solo atto assoluto, una sola anima del mondo, una materia sola, una sola sostanza; che è l'altissimo ed ottimo, incomprensibile, indeterminabile, senza limiti nè fine, non generabile, non distruttibile. Esso non è materia, perchè non ha forma determinata; non è forma, perchè non costituisce una sostanza particolare; non è composto di parti, perchè è il tutto e l'uno. Nell'universo, tutto è centro, e il centro è dapertutto, e in niun luogo la circonferenza, e così viceversa. La sostanza prima e suprema non è cognoscibile, bensì l'anima del mondo, che il Bruno chiama artefice interno, ed è il formale costitutivo dell'universo e di quanto vi si contiene. Sua prima e reale facoltà è l'intelletto universale. Tre sorta d'intelletto si danno; il divino che è tutto; il mondano che è fatto; i particolari che si fanno tutto, e questa è la vera causa efficiente, non solo estrinseca ma anche intrinseca. Nella natura vi ha due generi di sostanza: una ch'è forma, l'altra ch'è materia, potenza e soggetto: nell'una è la facoltà del fare, nell'altra la facoltà d'esser fatto. Nella natura, per quanto si varii in infinito, la forma è una materia medesima; come si succedono seme, erba, spica, pane, chilo, sangue, seme, terra, pietra ecc. Sole le forme esteriori si cambiano ed anche s'annullano, perchè non sono sostanze, ma accidenti di queste. Ogni cosa è in ogni cosa, poichè in tutte essendo l'anima o la forma universale, da tutto si può produr tutto. Secondo la sostanza, il tutto è uno. Nessuna cosa è costante, eterna, eccetto la materia, unico principio sostanziale, che sempre rimane. Questo principio, detto materia, può esser considerato come potenza e come soggetto. In quanto potenza, non v'è cosa in cui non possa trovarsi, come attiva o come passiva. La passiva può considerarsi o assolutamente, cioè quel che è, può essere; e allora risponde alla potenza attiva in modo che l'una non è senza l'altra. Ognuno la attribuisce al primo principio naturale, che è tutto ciò che può essere; e che non sarebbe tutto se non potesse esser tutto; onde in lui la potenza e l'atto son tutt'uno. L'universo è tutto quel che può essere per le specie medesime, e contiene tutta la materia; ma non è tutto quel che può essere per le differenze, i modi e le proprietà individuali. Non è dunque che un'ombra del primo atto e della prima potenza, e in lui l'atto e la potenza non sono la cosa stessa. Nell'anima del mondo, che è forza e potenza del tutto, le cose son tutt'uno; e scopo d'ogni filosofia è appunto il conoscer l'uno nel tutto, il tutto nell'uno. Il senso non cape l'infinito. La verità trovasi nell'oggetto sensibile come in uno specchio; nella ragione a modo di argomentazione; nell'intelletto a modo di principio e di conclusione; nella mente colla propria forma. Ma se il mondo fosse finito, e fuor del mondo non v'è nulla, esso saria qualche cosa di irreperibile. Se fuor della superficie non v'è nulla, questo nulla è un vuoto, più difficile a immaginare che non l'universo infinito. Se è bene che il mondo esista, è bene che quel vuoto sia riempiuto, e perciò i mondi saranno innumerevoli, innumerevoli questi individui, grandi animali, di cui uno è la nostra terra. La divina potenza non può rimanere oziosa. Mentre ciascuno dei mondi infiniti è finito, perchè ciascuna sua parte è finita, Dio è tutto infinito perchè esclude ogni termine, ed è anche totalmente infinito perchè è tutto in tutto il mondo e in ciascuna parte. Chi nega l'effetto infinito nega l'infinita potenza. Essendo l'universo infinito e immobile, non bisogna cercare estrinseco il motore di esso: perocchè gl'infiniti mondi contenuti in quello si muovono per principio interno, per anima propria. I principj attivi di moto sono due: l'uno finito, com'è finito il soggetto; l'altro infinito come l'anima del mondo. L'infinito è immobile; onde l'infinito moto e l'infinita quiete equivalgono. Corpi determinati han determinato moto. Uno è il cielo, continente universale, in cui tutto si muove e scorre; gl'infiniti astri non vi sono affissi, ma si muovono e si reggono; e per esempio la nostra terra ha quattro moti; l'animale del centro, il diurno, l'emisferico, il polare. Così cercando le relazioni tra il finito e l'infinito, e come riducansi all'unità, anzichè riconoscer una causa creatrice il Bruno vuol mostrare che nell'infinito le contraddizioni cessano, i contradditorj s'identificano. Come tutti gli altri panteisti, pretende combatter il panteismo, e il suo sistema esser l'unico mezzo di evitarlo, perchè «conforme alla vera teologia»[74]. E soggiunge: «Così siam promossi a scoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio dell'infinito vigore, ed abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimota da noi, se l'abbiam a presso, anzi dentro, più che noi medesimi non siam dentro a noi». Il suo «Spaccio della bestia trionfante, proposto da Giove, effettuato dal consiglio, rivelato da Mercurio, recitato da Sofia, udito da Saulino, registrato da Nolano» (Parigi 1594) vien creduto da taluni un'opera spaventevole contro Roma, mentre è solo una stravagante allegoria per introduzione alla morale. Nel _Candelajo_ porgesi grossolanamente osceno. Nella _Cena delle Ceneri_ accenna a due altre opere sue, l'_Arca di Noè_, dedicata a Pio V, e il _Purgatorio dell'Inferno_. Intollerante, sarcastico, esalta se stesso quanto dispregia gli altri; espone dogmaticamente ciò ch'è più che contestato; manca di gravità ne' problemi più serj, ripetendo le celie che correano sulle cose sacre, e nominando il Dio degli Ebrei e i Galilei: attacca l'immacolata concezione e la transustanziazione, la quale riusciva logicamente incompatibile colla sua idea della sostanza una: ogni volta che trova contrasto fra la religione e la ragione, s'appiglia a questa: molte volte le più strane opinioni mette in bocca d'interlocutori, poi si dimentica di confutarle; e si propone di «spegner il terror vano e puerile della morte»; atteso che «la nostra filosofia toglie il fosco velo del pazzo sentimento circa l'Orco e l'avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avelena»[75]. Fra le stravaganze ha veri meriti filosofici, che lo fecero paragonare allo Schelling nel padroneggiare coll'astrazione le meraviglie visibili e invisibili nel punto ove si confondono il creato e l'increato. Realmente fu razionalista due secoli prima di Hegel, al quale diede la formola, cioè la concordia dei contraddicentisi[76]; e lo lodano d'aver voluto rivendicare i diritti della ragione, smaniosa di emanciparsi. Ma quelli non erano tempi ove si sapesse distinguere il fallo morale dal civile. Chi conosce il cuor umano e la storia non prenderà meraviglia che il Bruno, dopo sì patente apostasia, osasse ritornar in Italia. Stette tranquillo due anni a Padova in mezzo ad illustri aristotelici, egli loro avversario; ito poi a Venezia, vi si tenne ignoto, finchè un suo confidente lo palesò a quel Governo, che lo colse il 23 maggio 1592, e pose nelle carceri. A nome del cardinale di Santa Severina, l'inquisitore venne a domandarlo «perchè imputato non solo di eretico, ma anco di eresiarca: compose varj libri dove loda la regina d'Inghilterra e altri principi eretici: scrisse varie cose concernenti la religione che non convenivano, benchè parlasse filosoficamente; è apostato, essendo uscito dai Domenicani; visse a lungo a Ginevra, e in Inghilterra; fu per la stessa imputazione inquisito a Napoli e altrove»[77]. Non si volle consegnarglielo, e fu tenuto in carcere sei anni, durante i quali non possiamo che immaginare quanto soffrisse. Due sono i processi ivi fattigli, e sebbene possa attribuirsi importanza colà dov'egli spiega le sue idee, troppo ci è noto come, in tali frangenti, uno le modifichi e temperi per difesa; nè gl'inquisitori veneti poteano esser arguti accademici, da seguire il filo dei suoi ragionamenti. Basti dunque soggiungere che il senato non potè, secondo il diritto internazionale d'allora, negarlo a nuove richieste, e lo consegnò all'Inquisizione romana. Viveva allora a Roma Gaspare Scioppio, famoso erudito tedesco, nato il 1576 a Neumark nel Palatinato; da Clemente VIII tratto a Roma, e attaccato al cardinal Madruzzi, dove abjurò il protestantismo, dicendosi convinto dalla lettura degli Annali del Baronio. Scrisse opuscoli sulle indulgenze, sul giubileo, sulla supremazia papale ecc., e controversie cogli abbandonati suoi correligionarj, sempre litigioso, talvolta paradossale; difese il Machiavello: accusò Leone Alazio di aver distratto i migliori libri della biblioteca di Heidelberg, acquistata dal papa: e fu creduto autore dei _Monita secreta Jesuitarum_. Era egli sui ventiquattr'anni quando il Bruno fu condannato, e raccontandolo a Corrado Rittershausen rettore dell'Università di Altorf, gli dà la sua parola d'onore che nella gran città nessun luterano o calvinista è punito di morte, nè tampoco corre pericolo, purchè non sia recidivo o scandaloso: essendo proposito di sua santità che ognuno viaggi liberamente, e ottenga benevolenza e cortesia. Aggiunge d'un Sassone, che un anno era vissuto familiarmente col Beza, eppure fu umanissimamente accolto dal cardinal Baronio, confessore del papa, e affidato, purchè non desse scandalo. Qui prosegue a narrare come il Bruno venisse sottoposto a processo. Molti teologi recaronsi per convincerlo, e il Bellarmino, il cardinale inquisitore, forse il papa stesso: egli or nicchiava, or asseriva, cercava tirar in lungo, sperando negli eventi. Finalmente il 9 febbrajo 1600 condotto avanti al palazzo dell'Inquisizione, in presenza di teologi, consultori, persone onorevoli per senno, età e cognizioni di diritto e teologia, e del magistrato pubblico, a ginocchio udì la propria sentenza, motivata specificatamente sulle azioni di tutta la sua vita: e non volendo ritrattarsi, ebbe condanna, meritata a parer dello Scioppio, perchè ateo e apostolo di dottrine assurde (_nugae_). «Se voi cristiani foste in Italia (dice lo Scioppio) udreste generalmente che fu bruciato un Luterano. Ma sappiate che gl'Italiani non vanno molto per la sottile nel discernere gli eretici, e chiaman tutti luterani. Del resto Lutero, questo quinto evangelista, questo terzo Elia, sarebbe stato trattato dai Romani come adesso il Bruno. Questi due mostri non insegnarono lo stesso genere di errori o d'orrori, ma ciò che insegnarono è del pari falso e abominevole. Lutero sarebbe stato arso pei pretesi dogmi e oracoli suoi: Bruno il fu per aver sostenuto tutte le abominazioni che mai ponessero innanzi i falsi pagani, e gli eretici antichi o moderni. L'uno il fu, l'altro il sarebbe stato, perchè non è permesso a ciascuno di credere e professare ciò che vuole. «L'Inquisizione non gli imputa le credenze luterane; ma d'aver assomigliato lo Spirito Santo all'anima del mondo; l'ispirazione sacra alla vita dell'universo: paragonati Mosè, i profeti, gli apostoli, Cristo ai magi, agli jerofanti, ai legislatori politeisti, levando ogni barriera fra il popolo santo e gli etnici; ammetteva molti Adami come molti Ercoli; credeva, o almeno (poichè amator del paradosso) sosteneva la magia, e per mezzo di essa aver operato Mosè e Cristo. Che se egli per magia intendea forse la cognizione delle leggi naturali, l'Inquisizione non avea torto di dire che, elevandola così, turbavasi l'intera società, riconosceasi a Belial il potere di sovvertir tutta la Chiesa, attaccavasi la religione nelle coscienze». Molte asserzioni fisiche del Bruno parvero tanto assurde, che l'Inquisizione neppur si badò di confutarle: come quelle sugli atomi, sulle monadi, sulle macchie del sole; la pluralità dei mondi infiniti parve bestemmia, e l'udirgli parlare di «miriadi di mondi, un concilio di astri, un concistoro di stelle, un conclave di Soli, un tempio dell'universo, un libro aperto dall'oriente all'occidente, e in tutte le lingue del creato». Udendo che la terra non dipende dalla Provvidenza, ma da leggi impreteribili; che la nostra specie, redenta da Cristo, non è lo scopo della creazione, ma abita un de' mille pianeti, il quale non è centro del sistema, ma lanciato nello spazio come gli altri, sgomentavasi l'angusta religione; scandolezzavasi quando il Bruno sosteneva che il sistema di Tolomeo, «piccolo come il cervello d'un peripatetico», restringe l'immensità di Dio, pel quale vuolsi un universo «senza margine»; il cielo non esser diverso dalla terra; noi abitanti, d'un pianeta, siam nel cielo. Ciò significava che la Chiesa non era più unica interprete della natura, e che le leggi di questa son impreteribili più de' suoi pensamenti; e poichè la ragione ha la potenza e il diritto d'interpretar i fenomeni della natura, potrà criticar pure le opinioni che la Chiesa se ne formò, e che trae dalla sacra scrittura. Questa è un codice di leggi morali e religiose, non un'esposizione di filosofia naturale; parlando a uomini semplici, essa adoprò il linguaggio vulgare, e parlò delle apparenze, non della realtà. E qui ad Aristotele e a Tolomeo, ai dettati della Scuola e all'illusioni degli occhi opponeva Pitagora, Platone, il cardinale Cusa che annunziò il moto della terra; Paolo III che accettò la dedica di Copernico; e più di tutti l'intelletto, dal quale soltanto, e non dai sensi, può esser afferrato l'infinito. Quanto la cosmologia, altrettanto restava ampliata l'azione di Dio, non più ristretto nella «tragedia cabalistica» ch'è la teologia del medioevo, ma con azione viva e libera, prodotta dallo studio vero della creazione. Eppure per tale asserzione unica il Bruno veniva dichiarato ateo, quasi, facendo governar il mondo da leggi stabili, escludesse il bisogno di Dio. Del che l'Inquisizione non verrà troppo incolpata da chi veda, nel secolo successivo, fuor delle passioni del momento e fin delle convinzioni religiose, l'erudito più spregiudicato, il filosofo più scettico, sentenziare che «l'ipotesi di Bruno è nel fondo quella di Spinosa: entrambi unitarj esagerati: fra questi due atei la sola differenza consiste nel metodo: Bruno adoprando quel de' retori, Spinosa quel de' geometri. Bruno non ridusse l'ateismo in sistema, non ne fece un corpo di dottrina legato e intessuto al modo de' geometri: non si brigò della precisione; si servì d'un linguaggio figurato che sottrae spesso le idee giuste. L'ipotesi d'entrambi sorpassa il cumulo di tutte le stravaganze possibili a dirsi; è la più mostruosa ipotesi che uom possa immaginare; la più assurda, la più diametralmente opposta alle nozioni più evidenti del nostro spirito»[78]. Dall'Inquisizione dato al braccio secolare _ut quam clementissime et citra sanguinis effusionem puniretur_, fu condannato ad esser arso in Campo di Fiore. Udendo la sentenza esclamò: «Avete più paura voi nel proferirla che io nel riceverla». Narrano che, offertogli il Crocifisso, ricusasse baciarlo: che ripetesse le parole di Plotino: «Fo un estremo sforzo per ricondurre ciò che v'ha in me di divino a ciò che v'ha di divino nell'universo»[79]. Forse sosteneva la sua costanza il pensare quel che altrove scrisse, «Il morir in un secolo fa vivo in tutti gli altri». E bruciò il 17 febbrajo; le ceneri ne furono disperse al vento. Dopo così circostanziato racconto parrà strano che v'abbia chi asserisce che sol la sua immagine fosse bruciata[80]; esser finzione la lettera dello Scioppio, arguto grammatico ma furioso intollerante. Noi lo brameremmo, e buon argomento ce ne darebbe il non trovare il suo supplizio mentovato da altri. Vedemmo e vedremo come i residenti in Roma riferissero alle loro Corti gli accidenti della gran città, nè mai tacevano queste esecuzioni d'eretici. Ebbene, noi, per cercare, non udimmo accennarsi del supplizio del Bruno, neppure dal ministro veneto, che pur v'avea maggior interesse. Ma come è stranissimo che si dubitasse del supplizio inflitto a un tal uomo, in mezzo a Roma, con formale e lungo processo, così ci parve un fatto notevole che lo Scioppio, virulento difensore di Roma, credesse onorarla col narrare quel supplizio, e insultare coi sarcasmi alla vittima. Tre anni dopo, le sue opere tutte furono poste all'Indice. Nessuno al suo tempo vi pose attenzione, ma ai dì nostri parvero precorritrici degli ardimenti della scuola tedesca, come ad esso aveano precorso Parmenide e Anassagora. E per verità carattere del Bruno è l'esame individuale, che per unico criterio accetta l'evidenza: fu il primo che contemplasse il mondo da puro metafisico, ricercando, come oggi dicesi, l'assoluto; senza curarsi dell'esperienza, indagò le cause de' fenomeni non nella materia stessa, bensì nel _lume interno_, nella _ragion naturale_, nell'_altezza dell'intelletto_, avventurandosi a divinazioni talora anche fortunate sopra i moti delle stelle fisse, la natura planetaria delle comete, l'imperfetta sfericità della terra, mentre altrove divaga negli spazj infiniti, pieni di mondi splendenti di luce propria, sognando anime del mondo, e relazioni dell'intelligenze superne coll'universo, per istabilire l'armonia di tutte le cose fra loro. Come Schelling coll'astrazione padroneggia le meraviglie visibili e invisibili, dove si confondono il creato e l'increato: ma negando però l'intuizione dell'assoluto, differisce da Schelling, il quale afferma che l'assoluto viene nel nostro intelletto alla coscienza di sè: laonde vuol trovare la certezza nell'unità dell'essere colla scienza, cioè nell'identità di tutte le cose e di tutte le idee in sè e fra loro. Mentre il Bruno non volle far che un sistema ontologico, Schelling lo accetta, ma pretende identificarlo col pensiero, in modo che la coscienza attesti l'identità di tutti i contrarj nell'assoluto. Mente solitaria e passionata, il Bruno ha pensieri suoi come suo stile, mescolato di sublime e triviale, d'inni e d'improperj. Ingegno vago, paradossale, grande e strano, coltivando la filosofia come una religione, combattendo la Scuola che confondea colla Chiesa, bello, melanconico, bollente come il patrio Vesuvio, non sapea bene quel che volesse, mancava del sentimento della realità, che fa sagrificar le forme al fondo e non volea nascondere o temperar la propria opinione, comunque repugnante dalla universale. Ma quando il vediamo voler fondare una _filosofia nolana_, e prometter di svolgere tutto purchè ci abbia tempo, siamo condotti a relegarlo fra coloro che abbandonano le leggi universali del pensiero e le armonie di esso colla realità, per gittarsi a quelle del senso e dell'amor proprio. Va unito al Bruno Elia Astorini di Cosenza carmelitano, il quale dagli aristotelici passò ai filosofi nuovi, fu inquisito come eretico e mago, onde fuggì a Zurigo, poi a Basilea e in varj paesi di Germania, cercato a maestro e riverito. Aderì alla protesta, ma come vide que' gran maestri di teologia osteggiarsi e scomunicarsi fra loro, si persuase non poter trovare riposo che nell'unità cattolica. Pertanto si diede a combatter Luterani e Calvinisti con erudizione e solidi ragionamenti; e assolto, fu mandato predicar a Firenze e a Pisa, poi a Roma; infine stanco delle contraddizioni, si raccolse tutto a vita studiosa. Tommaso Campanella, nato a Stilo nell'estrema Calabria il 1568, e vestitosi domenicano, udendo una disputa in Santa Maria la Nuova a Napoli, vi piglia parte, e vince tutti: donde cominciarono le malevolenze, cresciute allorchè comparve poeta, mago, astrologo. Perseguitato nel regno perchè difende Telesio, va a Padova dove ottien poca fortuna; e avendovi sostenuto disputa con un ebraizzante, a Roma è inquisito per non averlo denunziato. Arditissimo pensatore ma disordinato, mal distingue le proprie illusioni dalle intuizioni, e cambia facilmente secondo la passione[81]. Fissosi a sottrarsi alle possibilità di Lullo e alle formole della scolastica, divaga nella speculazione di principj supremi organici per riordinare tutto il sapere e l'operare umano, e stabilir sopra l'esperienza una filosofia nuova della natura. Volendo però combinarla colla rivelazione, non potendo esser vero in filosofia ciò che sia falso in teologia, evita d'affrontare con indipendenza il problema fondamentale della metafisica, e intanto trascende i limiti teologici, per raffigurar la rinnovazione dell'uomo mediante la scienza. Agli scettici vorrebbe opporre un dogmatismo filosofico, atteso che la ragione sente necessità di raggiungere il vero, a segno, che, per impugnarlo, anche lo scettico ha mestieri di certi postulati. Al qual vero egli suppone che l'umanità arrivi per una scala, la quale ricorda l'educazione progressiva del Lessing. Perocchè mette che Iddio, dalla prima antichità, parlò agli uomini mediante le varie religioni, rivelandosi agli Assiri cogli astri, ai Greci cogli oracoli, ai Romani cogli auspicj, agli Ebrei co' profeti, ai Cristiani coi Concilj, ai Cattolici coi papi, dilatando la cerchia delle sue rivelazioni man mano che lo scetticismo e l'incredulità corrompevano i popoli. Le scoperte moderne sono l'ultimo termine di questa tradizione divina, che sempre superiore alle operazioni deplorabili e alla gretta politica degli uomini, finirà col congiungere tutti in una sola credenza, in quell'unità del genere umano che Augusto intravide, e che la ragione esige affinchè cessino i flagelli naturali, e le regioni più diverse ricambiino fra sè tutti i beni. Non vi pare questa una pagina de' Sansimoniani? I suoi concetti filosofici e politici atteggiò nella _Città del Sole_, specie di utopia, dove il frate non sa dimenticar la gerarchia e le regole claustrali, ma che previene di due secoli i falansteri e le fraternite de' nostri contemporanei. Vinta l'imprevidenza dell'uomo, l'antagonismo degli Stati, sin la fatalità della natura, si formerà una società felice, dove (tacendo il resto) un nuovo culto senza misteri raccoglierà nel tempio medesimo le immagini di Pitagora, di Cristo, di Zamolxi, dei dodici apostoli. Eppure il Campanella era un intollerante. Coi novatori non vuole si stia a disputar su minutezze di parole sacre; ma si domandi, «Chi v'ha mandato a predicare? Dio o il demonio?» Se Dio, lo mostrino coi miracoli: se no, bruciali se puoi, o gl'infama. In nessun modo si facciano discussioni di grammatica o di logica umana, ma sol di divina, e non moltiplicare parole o allungar il diverbio, lo che è una specie di trionfo a chi sostiene il torto. Bisogna dannarli al fuoco secondo le leggi imperiali, perchè tolgono fama e roba a persone autorizzate da Dio con lunga successione, quali sono il papa e i religiosi. Il primo errore che s'è commesso fu il lasciar vivo Lutero nelle diete di Worms e d'Augusta; e se Carlo V il fece (come dicono) per tener il papa in apprensione, e così obbligarlo a soccorrere esso Carlo di danari e indulgenze nelle aspirazioni verso la monarchia universale, operò contro ogni ragion di Stato, perchè snervando il papa s'indebolisce tutto il cristianesimo, e i popoli si ribellano col pretesto della libertà di coscienza[82]. Sulla Spagna riconosceva il marchio della predilezione divina perchè cattolica, e destinata ad abbattere l'islam e l'eresia, e assicurare il trionfo della Chiesa vera, quando, restaurata l'unità del mondo, rifabbricherà il tempio di Gerusalemme. Consiglia a quel re di remunerare i più dotti teologi; «ne' consigli supremi aver sempre due o tre religiosi, Gesuiti, Domenicani, Francescani, per cattivarsi gli ecclesiastici e fare che i suoi ufficiali sieno più accorti in non errare e più autorevoli nelle loro determinazioni: e in tutte le guerre ogni capitano deve avere un consigliere religioso, perchè i soldati riveriranno più i precetti loro, e non si tratterà cosa senza saputa loro, e massime le paghe che si danno a' poveri soldati debbano per mano di religiosi passare»[83]. «Quella medesima costellazione che trasse fetidi effluvj dalle cadaveriche menti degli eretici, valse a produrre balsamiche esalazioni dalle rette intelligenze di quelli che fondarono le religioni de' Gesuiti, de' Minimi, de' Cappuccini»[84]. I dominj (a dir suo) sono costituiti da Dio, dalla prudenza, dall'occasione. La parte che vi ha Dio, mantiene il sacerdozio: i sacerdoti riconoscono le cose che si devono fare; i governanti le comandano; soldati e artefici le eseguiscono. «Il sacerdozio non devesi far vulgare, perchè perde dignità e credenza; ed è ignoranza dei Calvinisti il creder che tutti siano sacerdoti»[85]. Altrove attacca quel «tedesco luterano, che nega l'opre ed afferma la fede»[86]: e ripetutamente combatte Lutero e Calvino, insegnatori di dottrine avverse alla politica naturale. «La setta luterana e calviniana che nega la libertà dell'arbitrio e di far bene o male, non si deve mantener in repubblica, perchè i popoli ponno rispondere al predicante della legge che essi peccano per fato, e possono osservare che non sono liberi in questo. Oggi gli oltremontani, negata l'autorità del papa, negarono l'opera della fede che se gli predicò; poi negarono la libertà di far bene e male; poi negarono i santi e il peccato, e si fecero libertini, poi negarono la providenza, poi l'immortalità, come in Transilvania. Molti finalmente negarono Iddio e fecero un libro abbominevole _de tribus impostoribus_»[87]. E nelle _Lettere_ professando esatta ortodossia, dice che il dogma della predestinazione «fa li principi cattivi, li popoli sediziosi, e li teologi traditori». S'inganna chiunque dice che il papa non ha se non il gladio spirituale e non il temporale, perchè la monarchia sua sarebbe diminuita mancando di questo; e Cristo Dio legislatore sarebbe diminuito; cosa imprudente ed eretica ad affermarsi. La religione, nella quale il sommo sacerdote non regna con le armi, non può capire più principati, se non saranno sêtte di eresie; e però i Persiani, i Turchi, i Tartari e quelli di Fez, mori sotto il sacerdozio di Macone disarmato, vivono ognuno con l'eresia propria senza da un capo pendere; imperò ivi fa eresia. Ma sotto il papato, sacerdozio cristiano armato, vi è il re Gallo, lo Spagnuolo, il Germano, il Veneziano, potentissimi signori sotto la medesima religione senza far eresie. La maggioranza del papa giova ai principi cristiani temperati di signoria, perchè agguaglia le loro differenze; è arbitro della pace e guerra giusta, e inclina colle arme alla parte che ha ragione, ed astringe a cedere chi ha il torto, o li unisce contro li nemici del cristianesimo, o li disunisce dai nimici; e contro ai buoni o tristi regnatori accomoda le cose loro e del cristianesimo.... Nè può sfrenar le sue voglie un principe che vive sotto una religione, la quale ha il sommo sacerdote armato che tenga maggioranza sopra lui.... Dunque la monarchia cristiana va declinando sempre, finchè arriva in man del papa.» Per mantenere la monarchia in questa religione, altri si sono dichiarati del tutto ministri del papa e liberatori, come Carlo Magno e Costantino; «ma i figli inimicandosi col papa mancaro. Altri vollero fare il papa senz'armi temporali, e fecero rovina più che acquisto, e nacquero Ghibellini e Guelfi, Papali e Imperiali; altri fecero eresia di Ario e di Lutero, come Arrigo VIII, ma tutti rovinaro come Jeroboamo e Acab. Giuliano tornò alla gentile e rovinò col vecchiume»[88]. Le stesse idee ribadisce nei _Discorsi politici_ ai principi d'Italia: «Aggrandire ed esaltare il papato è il vero rimedio di rassicurarci di non esser preda del re di Spagna e di sostenere insieme la gloria d'Italia e del cristianesimo.... Talchè, per assicurarsi dal re di Spagna, devono gl'Italiani solo attendere ad autorizzare il papato con fatti e scritti e parole, perchè in questo sta la sicurtà loro... Per la sicurezza dei Stati e contra interni principi, è necessario il papato ricco e potente. Dippiù il papato non è principato peculiare d'alcuno, ma di tutto il cristianesimo; e quanto possiede la Chiesa è a tutti comune, e quel che donano i principi e le persone pie ai religiosi non è dare, poichè essi e i figli loro ponno diventar padroni di quel dato; ma è un mettere in comune e far tesoro per il bene pubblico. Il papato dunque è il tesoro del cristianesimo; talchè gl'Italiani devono sempre fomentar le ricchezze dei religiosi, perchè quelle sono del comune, e fanno mancar la forza agli emuli loro..... Ma questo principato è più proprio d'Italiani, perchè li papi e cardinali sono per lo più italiani, e fomentano sempre la sicurtà. Pertanto io dico che i principi italiani, non aspirando a monarchia, tutti devono far la Chiesa romana erede de' Stati loro quando mancasse la linea legittima di loro progenie, e con questa maniera, con successo di tempo s'anderia acquistando la monarchia italiana e la gloria ancora, e le repubbliche devrieno far una legge che, venendo esse in mano di tiranno, s'intenda la signoria loro esser devoluta alla Chiesa romana; e certo se amano il ben d'Italia questo devono fare... Intanto dovrebbe farsi a Roma un senato cristiano, dove tutti i principi avesser voce per mezzo di loro agenti: il papa vi presedesse per mezzo d'un collaterale: vi si risolvesse a pluralità di voti sulla guerra agl'infedeli ed eretici, sulle differenze tra principi, obbligando colla guerra qual vi si rifiutasse». Esorta l'Italia a tenersi stretta agli Spagnuoli perchè cattolici, mentre gli altri forestieri, essendo eretici «le torrebbero l'unica gloria rimastale, il papato». E gran rispetto si deve al papa che «solo con la venerazione difende più gli Stati suoi, che gli altri principi coll'armi: e quando è travagliato, li principi tutti si muovono ad ajutarlo, altri per religione, altri per ragioni di Stato[89].» Oh come un tal uomo vuol citarsi tuttodì come una vittima della intolleranza cattolica e un martire della Inquisizione romana? Niente a meravigliarsene quando si sappia che gli storici sempre scrivono a passione, e la più parte ripetono il detto, senza vagliarlo. Il Campanella, studiando i filosofi a paragone del senno eterno, cioè della natura, trovò che la legge di Cristo, a fronte di tutte le altre e delle filosofie, è identica a quella della natura, ma avvalorata dalla Grazia e dai sacramenti. Ben nella Chiesa cristiana trovava mal osservati i precetti divini: Lutero e Calvino però erangli l'anticristo, Aristotele la causa del disordine scientifico, Machiavello del morale e politico[90]. Pertanto mirava a una riforma, a un rinnovamento del secolo, intorno al quale disponeasi a dissertare nell'anno del giubileo: la conversione delle nazioni, profetata da santa Brigida, da Dionisio Cartusiano, dall'abate Gioachino, da san Vincenzo Ferreri, da don Serafino da Fermo, da santa Caterina, la quale predisse che i fratelli di san Domenico porteranno l'ulivo della pace ai Turchi[91]. Con tali idee tornato nella Calabria il 1598, vi trovava soffogate ma non estinte le idee dei Valdesi; bollenti le contese di giurisdizione ecclesiastica cogli Spagnuoli, e il vescovo Montario n'era fuggito, lanciando l'interdetto sulla città di Nicastro. «Tutte le città principali (scrive egli stesso) oltre le discordie tra gli ecclesiastici e i regj, erano divise in fazioni; e tutti i conventi erano pieni di banditi, e il vescovo li dava da mangiare per zelo della giurisdizione, mentre erano assediati dagli sbirri in sostegno delle attribuzioni regie». Il Campanella s'intromise di pace fra il vescovo e la città; ascoltato, dice il Naudè, come un oracolo; ma con ciò spiacque a coloro cui le risse giovavano e la scomunica non facea paura; e viepiù quando sostenne le pretensioni ecclesiastiche contro il Governo. Straordinarie inondazioni, tremuoti, eruzioni di vulcani lo persuasero che il rinnovamento fosse vicino: e doverne essere stromento lui, che sentivasi capace «d'insegnar in un solo anno la filosofia naturale, la morale, la politica, la medicina, la retorica, la poesia, l'astrologia, la cosmografia e ogni altra scienza», e di render abile ogni «mediocre ingegno a convincere in una sola disputa tutti gli eretici»: e che cantava: Io nacqui a debellar tre mali estremi, Tirannide, sofisma, ipocrisia: Stavano tutti al bujo, io accesi il lume[92]. La fede può tutto: nulla è impossibile al credente, pensava egli: e più l'animavano i delirj astrologici, perocchè dic'egli stesso; «degli astrologi un tempo fui nimicissimo, e in gioventù scrissi contro di loro, ma dalle mie sventure imparai che molte verità scoprono essi»[93]. Computando sulle nuove scoperte celesti, avea veduto come certe grandi innovazioni succedono nel mondo ogni ottocento anni. Una fu al tempo di Cristo; e ora stavano per compiersi la seconda volta gli ottocent'anni[94], sicchè si attuerebbe una civiltà religiosa, che fosse il regno della ragione eterna nella vita dell'umanità. Con tali persuasioni è facil credere che tentasse qualche novità: più facile che ne venisse sospettato; novità diretta a sovvertire la dominazione spagnuola in Calabria, benchè dappoi fosse lodatore esagerato degli Spagnuoli: e traendo divinazioni dagli astri, dall'Apocalissi, da varj santi, insinuava che nel 1600 accadrebbero grandi rivolture nel regno di Napoli. Fosse egli motore o stromento, si formò infatti una cospirazione di trecento frati e quattro vescovi. Faceano la propaganda delle sue speranze frà Giambattista di Pizzoli, frà Pietro di Stilo, frà Domenico Petroli di Strignano e altri venticinque Domenicani del convento di Pizzoli, fra cui principalmente frà Dionigi Ponzio, che smaniava di levar tumulto per ammazzare certi frati che aveano fatto ammazzar suo zio: e che valeasi delle parole del Campanella; poi preso, riuscì a fuggire, e si fe turco. Costoro trovarono ascolto ne' casali e tra le famiglie di Catanzaro, di Squillace, di Nicastro, di Cerifalco, di Taverna, di Tropea, di Reggio, di Cassano, di Castrovillaro, di Sant'Agata, di Cosenza, di Terranova, di Satriano, insomma in quasi tutta Calabria. Già milleottocento banditi eransi raccolti, e ogni giorno se ne ragomitolavano di nuovi; tenevansi intelligenze colla flottiglia turca del bascià Cicala. Trucidati i Gesuiti e i frati che non aderissero, liberate le monache, bruciati i libri, fatto statuti nuovi, doveano fondar una repubblica, cui centro sarebbe Stilo, patria del Campanella; appoggiati, come sempre i sommovitori dell'Italia, dai Francesi. Il Governo n'ebbe notizia, e li fece arrestare, impiccare, affogare, squartare dalle galee. Il Campanella, ch'erasi ascoso in un pagliajo, fu denunziato, e consegnato al nobile Carlo Spinelli, eletto commissario speciale. I frati reclamarono il privilegio del fòro, onde salvi dalla forca, vennero dati al Sant'Uffizio. A questo spettava pure processare il Campanella, ma si volle far prevalere il delitto di Stato, e il fiscale Sanchez personalmente recossi a Roma onde ottenere che potesse venir tormentato per quarantott'ore con funicelli sino alle ossa, stirato sulla corda colle braccia arrovesciate, e spenzolando sopra un legno acuto, e tagliatagli carne, del che stette poi lunghissimo tempo malato. «Come s'arresterebbe il libero procedere dell'uman genere (esclama il Campanella) quando quarantott'ore di tortura non poterono piegare la volontà d'un povero filosofo, e strappargli neppur una parola che non volesse?». Tale è la leggenda. Persone, che consideravano come delitto l'apostasia e la cospirazione, cercarono scusare il Campanella[95]: altri che giudicavale eroismo, sostenne l'opposto[96]. Il servile Parrino, e dietro a lui il Giannone, poi il Botta copiandoli, il fan reo di aver cospirato contro la monarchia spagnuola con frati e vescovi. Fatto è che si è tuttora incertissimi sul costui processo, e tre differenti ne esistono; uno che mostra volesse ribellar il Regno per sottoporlo al papa; uno per darlo al Turco; uno per ridurlo a repubblica eretica; poi nel Sant'Uffizio se ne costruì un nuovo, dove i testimonj delle predette accuse si ritrattarono. Forse alcuni, raccogliendo parole sparse e avventate, lo denunziarono come cospiratore: lanciata una accusa, ogni scaltrito sa come sostenerla e darle apparenza di vero, al che singolarmente s'adoprò il fiscale Luigi Xarava, che essendo stato scomunicato, avea preso vendetta col far un processo di Clemente VIII e dei vescovi. L'assecondarono quei molti che sempre avversano chi ha ingegno distinto e opinioni non comuni; e difensore del Campanella fu sempre il papa. Il Giannone (L. XXXV, 1) sempre ricalcando il Parrino, dice che il Campanella aveva in Roma sostenuto lunga prigionia «per la sua vita poco esemplare, e anche per sospetto di miscredenza», dopo di che fu rimandato al suo convento di Stilo. Nulla di ciò risulta; e il nunzio pontifizio, dandone ragguaglio l'11 febbrajo 1600, non ne fa cenno: bensì che a quella sua azione non avea mai voluto dar nome di ribellione, «ma detto che volea fare repubblica la Calabria per mezzo delle armi e delle prediche, quando però seguissero i garbugli d'Italia, che lui si era presupposto». E in fatti, se macchinò, non dovea mirare a sovvertimento, bensì a organar il paese al modo della sua Città del Sole, ricongiungendo la legge di natura colla cristiana. Chiuso in prigione, senza libri, senza comunicazione, scrisse varie opere, lodate perchè d'un martire come l'intitolarono, ma dove la vanità è pari all'immensa inopportunità. Per riguardo al re lodava la Spagna: per riguardo al papa protestava della sua ortodossia; prometteva, se lo lasciasser libero, comporre libri che convertirebbero i Gentili delle Indie, i Luterani, gli Ebrei, i Maomettani: e in prova dice aver fatto un'esposizione del Capo VIII dell'epistola ai Romani, della quale moltissimo si giovano Calvinisti e Luterani. Lettere sue ultimamente pubblicate, se nulla aggiungono alla cognizione del suo intelletto, attestano un esaltamento che tocca alla pazzia, se non vogliasi perdonarlo alla sua smania di liberazione, stando «dentro una fossa puzzolente dove non vedo giorno, sempre inferrato e morto di fame e di mille afflizioni fra cinquanta leopardi che mi guardano.... Son accusato per ribello ed eretico, per lo che otto anni cominciano che sto sepolto.... Sono stato preso io e molti frati per ribello, quasi volessimo ribellar il regno a favor del papa, in tempo che molti officiali e baroni del regno erano scomunicati, e perseverano, e la città di Nicastro interdetta, e in tutte queste cose io mi trovai, e fu gridato in Seminaro _Viva il papa_ dal clero, che armata manu liberò un chierico dalle carceri secolari. Furo necessitati gli amici di dire che ribellavano per far eresie, e non per il papa: altrimenti morivano tutti de _facto inconsulto pontifice_». Così scrive al cardinal Farnese[97] e proseguendo, dà in delirj astrologici, promette mari e monti a migliorar il regno di Napoli, fabbricar al re una città mirabile, salubre, inespugnabile, che sol mirandola s'imparino tutte le scienze storicamente; far vascelli che senza remi navighino anche senza vento, quando gli altri stanno in calma, con magistero facile; far camminare le carra per terra col vento; far che i soldati a cavallo adoprino ambe le mani senza tener briglia, e guida in bene il cavallo; e far libri contro i machiavellisti e la dottrina greca, zizania del Vangelo, e persuadere all'unità, convertire principi di Germania e screditare Calvino. Conchiude firmandosi _frà Tommaso Campanella spia delle opere di Dio_. Sul tenore stesso va una lettera latina al papa e cardinali. _Post Lutherum triginta annos expectatur antichristus magnus, ut prophetavit Joachinus abbas, qui etiam Lutheri adventum prædixit, et astipulantur Ubertinus et Joannes Parisiensis, et d. Seraphinus Firmanus et alii multi; jam præsens est, vel anno 1630 revelabitur: et hoc tempore luna convertetur in sanguinem etc.... Dixit Dominus ad divam Catherinam nostram, renovationem Ecclesiæ mox futuram, de qua D. Vincentius, et B. Joannes episcopus, et B. Egidius et Savonarola, et B. Brigida et B. Raymondus et magister Caterinus expectant, et alii innumeri, et ille Firmanos vir prudens et spiritualis: et addidit se facturum flagellum de funiculis creaturarum malarum ad purgandam Ecclesiam ab ementibus et vendentibus. Quis autem non vidit illud? In Græcia invaluit, in Germania convaluit, in Italia præsto est. Ego natus sum contra scholas anticristi, contra Aristotelem qui dixit mundum æternum, et æquinotia et stellas et motus semper eodem ordine et situ et modo fieri. Et ego ostendam quod non perseverant sicut ab initio, et quod verum est quod dicit D. Seraphinus, quod Aristoteles et Averroes sunt unum de septem capitibus Antichristi, et phiala iræ Dei.... Machiavellus dogmatisavit cum eo quod religio sit inventio sacerdotum et illusio populorum: et ubi Macometus et Lutherus non habent potestatem (hoc est in Italia et Hispania) regnant Machiavellus et Politici_. E la tira innanzi lunghissima ed irta di citazioni; e raccomanda allo Scioppio di presentarla: _Si porrigas pontifici literas, non malum puto. Si de miraculis quæ policeor riserit, dicito me habere fidem, quantum sinapis granum_. Di simil tenore scrive al re di Spagna, all'Imperatore, agli arciduchi d'Austria, _quoniam reipublicæ christianæ salus omnis in invictissima, piissimaque familia vestra versatur_. Ad esso Scioppio dicea: _Videant me non modo hæreticum non esse, sed etiam a Deo excitum ad omnes hæreses eliminandas præcipue vero philosophorum et astronomorum et latentium machiavellistarum, quorum opera evangelium latet_. E lo esorta a persuader il pontefice ch'egli non opera per magia o strologamenti, ma per vera fede, e crede che miracoli evidenti accadranno per convertire i Tedeschi e far unire contro i Turchi: confida che, coll'ajuto di Dio, svellerà dalla mano dei Luterani san Paolo: con un solo argomento insegnerà anche agli illetterati a sterminar tutte le eresie... «S'io dirò ai Luterani, _passiamo pel fuoco, e chi sarà abbrucciato non è da Dio_, credi che l'oseranno? ma io sì. Così il padre mio Domenico e san Francesco sedarono le eresie: perchè non gl'imiterei?». E miracoli proponeva, appellandosi a Pio V contro le testimonianze false di suoi compatrioti, che erano premiati e decorati se lo avversavano, sospettati se lo difendevano; laonde invoca d'esser tratto a Roma. Accenna bensì che fu accusato d'eresia, ma dice la inventarono i frati per sottrarlo al giudizio secolare di ribellione; mentre invece i ministri del re l'accusavano di voler rivoltare il paese a vantaggio del papa. Egli stesso avere chiesto di far rivelazioni al vescovo di Caserta e al nunzio: ai quali mostrò come avesse tolto a paragonar la legge di Cristo colla pitagorica, stoica, epicurea, peripatetica, telesiana, e tutte le sêtte antiche e moderne e le leggi, e assicuratosi che la pura legge di natura è la legge di Cristo: saper ribattere le difficoltà che nascono sul nuovo mondo, e sull'incarnazione, sulle profezie e i miracoli. Il vescovo trovò che aveva poca umiltà, e che avendo vagato per tante sêtte, non era troppo ossequioso a Cristo. Se anche ciò fosse, egli dichiara non essersi mai ostinato; altrimenti sarebbe uscito d'Italia: e giura esser saldissimo nella fede[98]. Dotti e principi presero interesse pel Campanella; Paolo V spedì lo Scioppio a Napoli per trattar della sua scarcerazione: e questi, se non altro, gli ottenne di poter leggere e scrivere e carteggiare. Urbano VIII riuscì alfine a trarlo a Roma, col pretesto che al Sant'Uffizio competesse il giudicarlo perchè avea professato profezia: e avutolo, il pose in libertà. Allora il Campanella passò in Francia, ove trovò applausi come vittima della Spagna, e pensione e onoreficenze, finchè morì il 21 maggio 1639. Napoletano e prete fu pure Lucilio Vanini, nato a Taurisano in Terra d'Otranto il 1586 da Giambattista intendente di Francesco di Castro, vicerè di Napoli, e da Beatrice Lopez di Moguera. Studiò a Padova, divenne canonico lateranense; viaggiò Europa sotto diversi nomi, e principalmente quel di Giulio Cesare, con alquanti compagni predicando tutt'altro che il vangelo, dicendo il diavolo esser più forte di Dio, giacchè tuttodì intervengono cose che non potè volerle Iddio; professandosi scolaro del Pomponazio, del Cardano, di Averroè, di Aristotele «dio dei filosofi, dittatore dell'umana sapienza, sommo pontefice de' sapienti». E di ridestare Averroè egli si propone, ma non ne conosce se non le divulgate empietà, e bugiardamente ne riferisce gli aneddoti. «Confesso che l'immortalità dell'anima non può dimostrarsi con principj naturali. Per articolo di fede crediamo la resurrezione della carne: ma il corpo non risorgerà senza l'anima, e come vi sarebbe l'anima se non ci fosse? Io di nome cristiano, di cognome cattolico, se non fossi istruito dalla Chiesa che è certissimamente e infallibilmente maestra di verità, a stento crederei esser immortale l'anima nostra. E non mi vergogno dirlo, anzi me ne glorio, giacchè adempio il precetto di Paolo, rendendo schiavo l'intelletto in ossequio della fede» (_Amphit._, pag. 164). Se dice, «L'atto dipende affatto dalla nostra volontà; Dio opera fuor di noi per produr fatti simultaneamente contrarj», soggiunge: «Sempre salve le credenze cattoliche». I martiri sono persone d'immaginazione esaltata, ipocondriaci, Cristo un ipocrita, Mosè impostore, e parlato delle profezie prorompe: «Ma lasciam da banda queste baje». Nega la creazione; tratta i culti di menzogne e spauracchi inventati dai principi per tener i sudditi, o dai sacerdoti per aver onori e ricchezze; confermati poi dalla Bibbia, della quale nessuno vide l'originale; e che cita miracoli, promette ricompense e castighi nella vita futura, donde nessuno mai tornò a smentirla. Non essendovi distanza fra il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto, sono eguali fra loro, e tutti due han la medesima volontà, uno spirito solo, e fanno un solo, Dio è la natura, la quale è il principio del movimento (_Dialoghi_, lib. VI). Tutto è perfettibile, anche Dio, ma più di Dio è potente il diavolo, perchè fece prevaricare Adamo, tormentò Giobbe, perdette due terzi del genere umano, e domina quattro quinti della terra, contro la volontà di Dio. Non crede finirà il mondo. Il cielo, finito di grandezza e podestà, s'ha a dire per durata infinito, perchè Dio non potè far Dio, e l'avrebbe fatto se l'avesse fatto infinito per podestà: onde lo fece infinito per durata, perchè questa sola perfezione poteva appropriarsi al creato. Ma (dice) ragioniam più sottilmente. Il primo principio non potè fare cosa che fosse simile o dissimile a sè. Non simile, perchè ciò che è fatto soffre: non dissimile, perchè l'azione e l'agente non differiscono. Quindi Dio essendo uno, il mondo fu uno e non uno: essendo tutto, fu tutto e non tutto: essendo eterno, il mondo fu eterno e non eterno. Perchè uno, è eterno, non avendo pari o contrario: perchè non uno, non è eterno: giacchè è composto di parti contrarie, avversantesi per mutua corruzione: onde la sua eternità è nella sua composizione, l'unità nella continuazione (_De arcan. naturæ Dial._). _Nell'Amphitheatrum æternæ providentiæ divino-magicum, christiano-physicum, nec non astrologo-catholicum adversus veteres philosophos, atheos, epicureos, peripateticos et stoicos_, pone in sodo l'esistenza di Dio, che «è tutto, sopra di tutto, fuor di tutto, in tutto, a fianco a tutto, avanti tutto, dopo tutto, tutto intero», e la Providenza, il libero arbitrio, l'immortalità dell'anima, perchè la risurrezione de' corpi è asserita dalla Scrittura: ma tutto in modo equivoco, non provando, pure non negando la religione, confutando i cattivi sistemi allora correnti, ma nel mostrar ribattere Cardano e gli atei, ne mette in risalto gli argomenti; le prove della Providenza riduce agli oracoli, alle Sibille, ai miracoli, cui descrive dal lato debole con un'aria d'ingenuità che non può far illusione. Poi più francamente nei sessanta dialoghi _De admirandis naturæ reginæ deæque mortalium arcanis_, fondasi su due punti. Primo: l'intelligenza non può muover la materia, nè l'anima il corpo: anzi è la materia che dà impulso all'intelligenza, il corpo all'anima: in conseguenza, autor del mondo non è Dio. L'uomo deriva dalla putrefazione e dal successivo perfezionarsi della specie: anche in forza talora è esso sopravanzato dagli animali, onde (quest'è il secondo punto) non può dirsi a questi superiore in destinazione, e il meglio che può fare si è vivere e godere: «Perduto è il tempo che in amar non si spende»; nè la morale ha fondamento che nelle leggi. Così predica uno scetticismo immorale, un materialismo sfacciato: ipocrito senza dignità, le maggiori bestemmie finiva col dire, _Ceterum sacrosanctæ romanæ Ecclesiæ me subjicio_. Un interlocutore gli domanda che pensi dell'immortalità, ed egli risponde: «Ho fatto voto a Dio di non trattar questo punto finch'io non sia vecchio, ricco e tedesco». Un'altra volta l'interlocutore ammirandolo, esclama: «Se tu non fossi Vanini, saresti Dio», ed egli con aria altezzosa risponde: «Io sono Vanini». Violente critiche del cristianesimo pone in bocca al terzo o al quarto, fingendosi inorridito all'udirle; come si finge encomiatore de' Gesuiti, apologista del Concilio di Trento, e accannito contro Lutero, egli che pur al cristianesimo muove guerra or da filosofo, ora da fisico. Questo libro chiamò subito l'attenzione, e Gramondo presidente al parlamento di Tolosa diceva: «Agli altri pare eretico, a me pare ateo». In fatti è a vicenda panteista e materialista. Il Rossetto nell'_Histoire tragique_ dice che fa rivivere l'abominevole libro dei _Tre impostori_. Traversata col duca d'Amalfi la Germania, praticando Protestanti, procedette nella Boemia, semenzajo delle dottrine che cagionarono la guerra dei Trent'anni; ivi discusse con un Anabattista, il quale tacciava i Cristiani di disputare di lana caprina; con un ateo ad Amsterdam; a Ginevra coi Riformati, dai quali sentendosi mal sicuro, passò a Lione; per paura del rogo si volse a Londra, e quivi «si attirò la persecuzione de' Protestanti, tenuto prigione quarantanove giorni, preparato a ricevere la corona del martirio, alla quale aspirava con indicibile ardore»[99]. Scarcerato, viene in Italia, e a Genova apre scuola molto frequentata; ma le sue dottrine ben presto scandolezzano sì, che deve rifuggir a Lione; in Guascogna si veste monaco, edifica colle prediche, col confessare, colla devozione, finchè scoperto di brutti vizj, viene espulso. A Parigi lo ricoverò il nunzio Roberto Ubaldini, e gli aprì la sua ricca biblioteca, donde egli stillava il peggio, e lo diffondeva tra i giovani medici e poeti, sicchè il padre Mersenne, a lui avversissimo, assicura che cinquantamila atei contavansi in quella città. Nel 1616 v'avea stampati con privilegio del re, e dedicati al maresciallo di Bassompière, di cui era cappellano, i dialoghi _De admirandis naturæ arcanis_, e la Sorbona li riprovò pei dubbj sulla rivelazione, e perchè altra legge non riconosce fuor quella che natura pose nel cuor dell'uomo. Piantatosi a Tolosa, vi teneva arcane conventicole, apostolava i giovani, ed educava i figli del primo presidente di quel parlamento. Ma poichè a quelle dottrine cresceva pericolo il fermentare delle guerre di religione, un Francon gentiluomo lo denunziò nel 1618 al parlamento d'aver negato l'esistenza di Dio: altri l'attestarono, e crebbe i sospetti l'esserglisi rinvenuto un grosso rospo chiuso in un'ampolla. Venne dunque condannato al taglio della lingua e al fuoco per mago e per ateo; accuse per verità repugnanti. Durante il processo, aveva professato le migliori credenze; condannato, si chiarì empio, ricusò i conforti della religione, si vantò più intrepido del Cristo, il quale aveva sudato d'ambascia, e fu giustiziato il 19 febbrajo 1618. Leibniz dice che il Vanini meritava d'esser tenuto rinchiuso fin a tanto che divenisse assennato, invece di trattarlo con ributtante crudeltà. Vittore Cousin, che fece una memoria sul Vanini, prova che restò condannato dal parlamento di Tolosa perchè nè egli nè gli amici suoi poterono ottenere fosse demandato al tribunale ecclesiastico dell'Inquisizione, dal quale non avrebbe avuto che una pena disciplinare[100]. Anche Ferrante Pallavicino, primogenito d'insigne casa piacentina, canonico regolare a Milano e lodato per dottrina, avvoltolatosi in amori, onde averne comodità finse viaggiare, e ritiratosi a Venezia, dirigeva agli amici lettere colla falsa data di Lione, di Parigi, d'altrove, narrando apocrifi viaggi, che lo posero di moda quando ricomparve. Come cappellano del duca d'Amalfi ito in Germania, vide messo alla ruota un Calvinista, col quale entrato in disputa sulle cose dell'anima, se ne lasciò convincere, e d'indi in poi menò a strappazzo le cose e le persone sacre. Acciabattava libri, storie sacre e profane, novelle, panegirici, epitalamj, talvolta ascetico, sempre ampolloso, rinvolto, bujo e mescolandovi descrizioni lascive. Per esempio, nel trattato spirituale delle _Bellezze dell'anima_, al cap. XIII discorre della bellezza del seno: pari contaminazioni mette nella _Susanna_, nel _Giuseppe_, nel _Sansone_, nella _Bersabea_. Il suo _Divorzio celeste cagionato dalle dissolutezze della sposa romana, e consacrato alla semplicità de' scrupolosi_ (1643) fu tradotto in varie lingue dai Protestanti, e continuato probabilmente da Gregorio Leti, dividendolo in tre libri, _I costumi dissoluti dell'adultera_, _Il processo de' bastardi di quella_, _Il concorso di varie chiese allo sposalizio di Cristo_ (1679). Nel _Corriere svaligiato_ spettorò d'ogni genere calunnie contro il papa, i cardinali, i gesuiti, tutti i governi e i letterati, soluccherandole di lubricità. Lo stampò alla macchia, onde la signoria di Venezia il fece carcerare; uscitone, infierì peggio di prima contro de' principi, di papa Urbano VIII e del buon costume, e oltre _La Buccinata per le api Barberine_[101] e il _Dialogo tra due soldati del duca di Parma_, scrisse la _Giustizia schernita, e la Retorica delle p.... dedicata all'università delle cortigiane più celebri_. Un Carlo De Brèche che a Venezia faceasi chiamare Morone, figlio d'un librajo parigino, dicono assoldato dai Barberini con 3000 pistole, fintosegli amico, lo persuase a ridursi in Francia, dove protetto dal Richelieu, potrebbe stampare altre opere irreligiose; e così lo menò ad Avignone terra di papa, ove arrestato e messo sotto processo, dopo quattordici mesi fu decapitato, avendo ventisei anni (1618-44). La sua fine gli attirò una compassione che poco meritava. Dicono che il suo traditore fosse poco dopo assassinato da un italiano, al quale il Mazzarino fece grazia. Subito comparvero due dialoghi intitolati _L'anima di Ferrante Pallavicino_, opera forse di Gianfrancesco Loredano suo amico, ove sono malmenati alla peggio il papa, i prelati, i letterati, i costumi[102]. NOTE [64] _De compendiosa architectura et complemento artis Lulli_, 1580. È noto che Raimondo Lullo di Majorca, nell'Ars magna, volle ridurre l'intelligenza ad una specie di meccanica, che applicasse a qualsiasi soggetto alcuni predicati. Questi raccolse in classi, distinte con lettere dell'alfabeto, e le dispose in circoli concentrici, per modo che ciascuna lettera indicasse un attributo. La I componevasi di nove predicati assoluti: _bontà, grandezza, durata, potenza, saggezza, volontà, virtù, verità, gloria_; la II de' predicati relativi: differenza_, concordia, opposizione, principio, mezzo, fine, maggiorità, coequazione, minoramenti_; la III di domande: _se? che? di che? perchè? di qual grandezza? di che qualità? quando? ove? come e con chi?_ la IV de' nove soggetti più universali: _Dio, angelo, cielo, uomo, immaginativo, sensitivo, vegetativo, elementativo, stromentativo_; la V de' nove predicati dell'accidentale: _quantità, qualità, relazione, azione, passione, abito, sito, tempo, luogo_; la VI delle nove moralità: _giustizia, prudenza, coraggio, sobrietà, fede, speranza, carità, pazienza, pietà_; e in contrario _invidia, collera, incostanza, menzogna, avarizia, gola, lussuria, orgoglio, accidia_. Tutti questi concetti, per mezzo di quattro circoli e de' triangoli iscritti, producevano certe combinazioni di predicati; per es. _la bontà è grande, durevole, potente, concorde, mediante, finiente, aumentante, decrescente_. Così da ciascuna delle trentasei caselle deduconsi dodici proposizioni, dodici mezzi, ventiquattro quistioni, e le specie della corrispondente. Credea con ciò trovato uno stromento universale della scienza che risolve tutte le quistioni mai immaginabili; ma in fatto non porgeva che parole per discorrere su tutte. [65] Nella chiesa di San Pancrazio a Firenze sta il ricordo d'un'altra vittima delle persecuzioni di Enrico VIII, Anna Sotwel, duchessa di Nortumbre, che quivi rifuggita morì. Il suo epitafio porta: _D. O. M._ _Petis scire quid moliar? resolvor donec redeam._ _Appetis quid fui? Anna Dudlea anglo danoque_ _Regali stigmate sata. Expetis quæ labilis vitæ_ _Comites? pulcritudo, virginitas, virtus, religio._ _O mortalis caducitas! Letho relictis laribus_ _Rubertus Dudleus et Elisabeth Southuel_ _Nortumbrotum Warvicensiumque duces_ _Hoc mæstissimi parentes anno MDCXXIX_ _Mihi et filiæ dulcissimæ posuere_ _Disce timeque ergo viator_ _Forma charis virtus abi nunc Nortumbria princeps_ _Virgo sub hac secum condidit Anna petra._ [66] Sono gli statuti 1548, 1551, 1558, 1563, 1581, 1585, 1595, 1688, 1700 dello Statute-Book; sul quale vedansi i commenti del Blackstone, Lib. IV, c. 8, e le applicazioni in tutte le storie inglesi. [67] Uno de' più fanatici scrittori del nostro tempo, J. M. Dargaud (_Hist. de M. Stuart_, Paris 1850) confessa che l'assassinio del Rizio fu meditato perchè si sentiva _qu'il annullait la reine et ses alliés, les catholiques et le catholicisme, en même temps qu'il allait redonner vigueur à la reforme en cimentant l'alliance anglaise_: e la dice _une entreprise qui devait être le triomphe cruel de la réforme sur l'Eglise, du parti protestant sur le parti catholique, de Knox et du Nord, sur le pape et sur le Midi_. Knox era l'apostolo della Chiesa scozzese, e Dargaud assicura che, consultato dai congiurati sull'assassino, il _rassura leur consciences déjà si hardies. L'esprit du rigide docteur souffla sur eux, non pour le détourner du crime, mais pour les y précipiter. Il les y prépara comme à une sainte entreprise par la prière et par le jeûne... il mît de sa main d'apótre à l'assassinat le sceau religieux de son caractère et de son nom._ [68] _Non vestræ religionis dogmate probatum_. De lampade combinatoria. [69] _Oratio valedictoria_. [70] BARTHOLMESS, _J. Bruno_ I, 161. [71] Vedasi il suo indirizzo all'accademia d'Oxford. [72] _Monas tota intima et extima tota_ _Omnia substentans graditur super omnia, nempe_ _Sola ipsa in toto, et totum consistit in ipsa._ [73] _De immenso et innumerabili_, lib. I, c. 13. _Del Principio, causa et uno_. Dial. III. _Est animal sacrum, sanctum et venerabile mundus_. De immenso, lib. V. [74] Proem. epist. alla _Cena delle Ceneri_. [75] _La Cena delle Ceneri_, dedicatoria. [76] «Quel che altrove è contrario ed opposito, in Dio è uno e medesimo, e ogni cosa in lui è medesima». _Della causa, principio ed uno_. _Dial._ III. [77] Nota del 28 settembre 1592 negli Archivj di Venezia. Alcuni _Documenti tratti dall'Archivio veneto_ intorno al Bruno furono pubblicati dal Fulin a Venezia il 1864 in occasione di nozze. [78] BAYLE, Dictionnaire in _Bruno_ e _Spinosa_. È difficile accumular tante inesattezze quante in queste linee di Voltaire, su J. Rabelais: _Les Italiens alors ressemblaient aux anciens Romains, qui se mouquaient impunément de leurs dieux, mais qui ne troublèrent jamais le culte reçu. Il n'y eut que G. Bruno, qui ayant bravé l'inquisiteur à Vénise, et s'étant fait un ennemi irréconciliable d'un homme si puissant et si dangéreux, fut recherché pour son livre_ Della bestia trionfante; _on le fit périr par le supplice du feu, supplice inventé parmi les Chrétiens contre les héretiques. Ce livre est pis qu'hérétique: l'auteur n'admet que la loi des patriarches, la loi naturelle; il fut composé et imprimé à Londre chez le lord Philippe Sidney, l'un des plus grands hommes d'Angleterre, favori de la reine Elisabeth_. Il Giannone, copiando al solito il Capasso e il Parrino, e al solito triviale, scrive nel libro XXXIV, c. 8: «Discreditarono l'onorata impresa (d'innovar la filosofia) due frati domenicani, li quali, non tenendo nè legge nè misura, oltrepassando le giuste mete (!), siccome maggiormente accreditarono gli errori delle scuole, così posero in discredito coloro che volevano allontanarsene, ecc.». E il Botta, lib. XV: «Non fermerommi a parlare del Bruno, perchè, avendo insegnato che i soli Ebrei erano discendenti di Adamo, che Mosè era un impostore ed un mago, che le sacre scritture sentivano del favoloso, ed altre _bestemmie ancora peggiori di queste_, fu arso a Roma al modo di Roma; rimedio abominevole contro opinioni pazze». [79] Πειρᾶσθαι τὸ ἐν ἡμῖν θεῖον ἀνάγνειν πρὸς τὸ ἐν τῳ παντὶ αθειον. PORFIRIO, _Vita Plotini_. [80] Quali il Quadrio e Hayn, oltre il Bayle che dubita di tutto, e che conchiude: _il n'y a pas loin de l'incertitude à la fausseté dans des faits de cette nature_. La lettera dello Scioppio fu stampata nel 1621, venti anni dopo il fatto che narra, ma ventinove prima della morte di esso Scioppio, che non la smentì. Alcuni moderni vollero negare fosse dello Scioppio, ma Cristiano Bartholmess non esita a considerarla autentica, come non esitò Vittore Cousin, recandone i passi principali nei _Fragmens de philosophie cartesienne_. Fu ristampata nel 1705 a Jena da Struve, _Act. liter._ T. I, fasc. V p. 64-74, assai lunga, e noi ne caviamo solo quanto concerne il Bruno. _Corrado Rittershusio suo Gaspar Schoppius Fr. S._ «Quas ad nuperam tuam expostulatoriam epistolam rescripsi, non jam dubito quin tibi sint redditæ, quibus me tibi de vulgato responso meo satis purgatum confido. Ut vero nunc etiam scriberem, hodierna ipsa dies me instigat, qua Jordanus Brunus propter hæresim vivas publice in Campo Floræ ante theatrum Pompeji est combustus. Existimo enim et hoc ad extremam impressæ epistolæ meæ partem, qua de hæreticorum pœna egi, pertinere. Si enim nunc Romæ esses, ex perisque Italis audires lutheranum esse combustum, et ita non mediocriter in opinione tua de sevitia nostra confirmaveris. «At semel scire debes, mi Rittershusi, Italos nostros inter hæreticos alba linea non signare, neque discernere novisse: sed quicquid est hæreticum, illud lutheranum esse putant. In qua simplicitate ut Deus illos conservet precor, ne sciant unquam quid hæresis alia ab aliis discrepet: vereor enim ne alioquin ista discernendi scientia nimis cara ipsis constet. Ut autem veritatem ipsam ex me accipias, narro tibi, idque ita esse fidem do testem, nullum prorsus lutheranum aut calvinianum, nisi relapsum vel publice scandalosum, ullo modo periclitari, nedum ut morte puniatur. Hæc sanctissimi domini nostri mens est, ut omnibus Lutheranis Romam pateat liber commeatus, utque a cardinalibus et prælatis curiæ nostræ omnis generis benevolentiam et humanitatem experiantur. Atque utinam hic esses! Scio fore ut rumores vulgatos mendacii damnes. Fuit superiore mense Saxo quidam nobilis hic apud nos, qui annum ipsum domi Bezæ vixerat. Is multis Catholicis innotuit; ipsi etiam confessario pontificis cardinali Baronio, qui eum humanissime excepit, et de religione nihil prorsus cura eo egit, nisi quod obiter eum adhortatus est ad veritatem investigandam. De periculo jussit eum fide sua esse securissimum, dum ne quod publice scandalum præberet. Ac mansisset ille nobiscum diutius, nisi sparso rumore de Anglis quibusdam in palatium Inquisitionis deductis, perterritus sibi metuisset. At Angli illi non erant, quod vulgo ab Italis dicuntur, lutherani, sed puritani, et de sacrilega verberibus sacramenti percussione Anglis usitata suspecti. «Similiter forsan et ipse rumori vulgari crederem Brunum istum fuisse ob lutheranismum combustum, nisi Sanctæ Inquisitionis Officio interfuissem, dum sententia contra eum lata est, et sic scirem quamnam ille hæresim professus fuerit. Fuit enim Brunus ille patria nolanus, ex regno Neapolitano, professione dominicanus: qui eum jam annis abhinc octodecim de transubstantiatione (rationi nimium, ut Chrysostomus docet, repugnante) dubitare, imo eam prorsos negare, et statim virginitatem B. Mariæ (quam idem Chrysostomus omnibus cherubin et seraphin puriorem ait) in dubium vocare coepisset, Genevam abiit, et biennium istic commoratus, tandemque, quod calvinismum per omnia non probaret, inde ejectus, Lugdunum, inde Tholosam, hinc Parisios devenit, ibique extraordinarium professorem egit, cum videret ordinarios cogi missæ sacro interesse. Postea Londinum profectus, libellum illic edidit _de Bestia triumphante_, hoc est, papa, quem vestri, honoris causa, bestiam appellare solent. Inde Wittenbergam abiit ibique publicæ professus est biennium, nisi fallor. Hinc Pragam delatus, librum edidit _de Immenso et Infinito_, itemque _de Innumerabilibus_ (si titulum sat recte memini, nam, libros ipsos Pragæ habui) et rursus alium _de Umbris et Ideis_; in quibus horrenda prorsus absurdissima docet, v. g. mundos esse innumerabiles; animam de corpore in corpus, imo et alium in mundum migrare: unam animam bina corpora informare posse, magiam esse rem bonam et licitam; Spiritum Sanctum esse nihil aliud nisi animam mundi, et hoc voluisse Moysem dum scribit eum fovisse aquas: mundum esse ab æterno, Moysem miracula sua per magiam operatum esse, in qua plus profecerat quam reliqui Ægyptii, eum leges suas confinxisse, sacras litteras esse somnium, diabolum salvatum iri; solos Hebræos ab Adamo et Eva originem ducere, reliquos ab iis duobus Deus pridie fecerat; Christum non esse Deum, sed fuisse magum insignem et hominibus illusisse, ac propterea merito suspensum (Italice _impiccato_), non crucifixum esse; prophetas et apostolos fuisse homines nequam, magos, et plerosque suspensos. Denique infinitum foret omnia ejus portenta recensere, quæ ipse et libris et viva voce asseruit. Uno verbo ut dicam, quicquid unquam ab ethnicorum philosophis, vel a nostris antiquis et recentioribus hæreticis est assertum, id omne ipse propugnavit. Pragam Brunsvigam et Helmstadium pervenit et ibi aliquandiu professus dicitur. Inde Francofortum, librum editurus adiit, tandemque Venetiis in Inquisitionis manus pervenit, ubi diu satis cum fuisset, Romam missus, et sæpius a Sancto Officio, quod vocant Inquisitionis, examinatus, et a summis theologis convictus, modo quadraginta dies obtinuit quibus deliberaret, modo promisit palinodiam, modo denuo suas nugas defendit, modo alios quadraginta dies impetravit. Sed tandem nihil egit aliud, nisi ut Pontificem et Inquisitionem deluderet. Fere igitur biennio postquam hinc in Inquisitionem devenit, nupera die nona februarj in supremi Inquisitoris palatio, præsentibus illustrissimis cardinalibus Sancti Officii Inquisitionis (qui et senio et rerum usu et theologiæ jurisque scientia reliquis præstant) et consultoribus theologis, et seculari magistratu urbis gubernatore, fuit Brunus ille in locum Inquisitionis introductus, ibique genubus flexis sententiam contra se pronuntiari audiit. Ea autem fuit hujusmodi. Narrata fuit ejus vita, studia et dogmata, et qualem Inquisitio diligentiam in convertendo illo fraterne adhibuerit, qualemque ille pertinaciam et impietatem ostenderit; inde eum degradarunt, ut dicimus, prorsusque excomunicarunt et sæculari magistratui tradiderunt puniendum, rogantes ut quam clementissime et sine sanguinis profusione puniretur. Hæc cum ita essent peracta, nihil ille respondit aliud, nisi minabundus: «Majori forsan cum timore sententiam in me dicitis, quam ego accipiam». Sic a lictoribus gubernatoris in carcerem deductus, ibique octiduo asservatus fuit, si vel nunc errores suos revocare vellet. Sed frustra. Hodie igitur ad rogum sive pyram deductus est. Cum Salvatoris crucifixi imago ei jamjam morituro ostenderetur, torvo eam vultu aspernatus, rejecit. Sicque ustulatus misere periit, renunciaturus credo in reliquis illis quos finxit mundis quonam pacto homines blasphemi et impii a Romanis tractari solent». «Hic itaque, mi Rittershusi, modus est quo contra homines, imo contra monstra hujusmodi procedi a nobis solet. Scire nunc ex te studeam an iste modus tibi probetur: an vero velis licere unicuique quidvis et credere et profiteri. Equidem existimo te non posse eum probare. Sed illud addendum forte putabis: Lutheranos talia non docere neque credere, ac proinde aliter tractandos esse. Assentimur ergo tibi, et nullum prorsus Lutheranum comburimus. Sed de ipso vestro Luthero aliam forte rationem inierimus. Quid enim dices si asseram, et probare tibi possim Lutherum non eadem quidem quæ Brunus, sed vel absurdiora magisque horrenda, non dico in Convivialibus, sed in iis quos vivus edidit libris, tanquam sententias, dogmata et oracula docuisse? Mone, quæso, si nondum satis novisti, eum qui veritatem tot seculis sepultam nobis eruit, et faciam ipsa tibi loca in quibus succum quincti istius evangelii deprehendas, quamvis istic Anatomiam Lutheri a Pistorio habere possitis. Nunc si et Lutherus Brunus est, quid de eo lieri debero censes? Nimirum _tardipedi Deo dandum infelicibus ustulandum lignis_; quid illis postea qui eum pro evangelista, propheta, tertio Elia habent? Hoc tibi cogitandum potius relinquo. Tantum ut hoc mihi credas, Romanos non ea severitate erga hæreticos experiri qua creduntur, et qua debebant forte erga illos, qui scientes, volentes pereunt. Romæ, a. d. 17 februar. 1600». [81] Allo Scioppio scrive: _Mens mea subito in id quod cupit immutatur._ [82] _Città del Sole_, cap. XXVII. _Della Monarchia Spagnuola_, c. 27. [83] _Aforismi politici_ 75, 78, 81, 83. [84] _Afor._ 70. [85] _Della Monarchia Spagnuola_, c. 6. [86] _Poesie_, pag. 100. [87] _Aforismi_ 84, 87. Quando dicemmo non esister il libro _De tribus impostoribus_, intendevamo l'antico. Il nostro Campanella, nell'_Atheismus triumphatus_, dice fu stampato trent'anni prima della sua nascita, il che lo porterebbe al 1538: e un'indicazione così precisa, e in lavoro polemico, farebbe credere l'avesse realmente veduto. Quel che ora conosciamo col titolo di _De tribus impostoribus magnis liber_, sebbene supposto del 1598, è di Cristiano Kortholt, stampato ad Amburgo il 1701 in-4º. A Yverdun, nel 1768, fu stampato un _Traité des trois imposteurs_, che si finge tradotto, ma in realtà è tutt'altr'opera. [88] _Aforismi_ 70, 88, 89, 90, 91. [89] _Discorso II del papato_. [90] _Utinam non serperet interius hujusmodi pestis, quam Machiavellus seminavit, docens religionem esse artem politicam ad populos in officio, spe paradisi et timore infernorum, retinendis._ Ateismo trionfante. [91] Sue parole in una relazione sincrona della congiura, pubblicata nel 1845 dal Capialbi. [92] _Poesie filosofiche_, pag. 26, 141, 116. [93] _De sensu rerum et magia_, IV, 20. [94] _Conjunctiones magnœ in quolibet trigono perseverant annis fere ducentis, et possunt in subditis: mox transeunt ad subsequens, et subvertitur omnium circulus in 800; et tum in rebus dura mutatio. Ib._ [95] Vedansi VITO CAPIALBI, _Documenti inediti circa la voluta ribellione di Tommaso Campanella_, Napoli 1840, e MICHELE BALDACCHINI, _Vita di T. Campanella_, Napoli 1840, e con molte variazioni nel 1847. [96] Vedi SALVATOR DE RENZI, _La cospirazione di Calabria_ del 1599. [97] _Archivio storico_ del 1866. [98] Lettera 13 agosto 1606 nell'_Archivio storico_ del 1866. Di maggiore pazzia fa segno un'altra lettera di 20 giorni più tardi, ove dice aver interrogato il demonio, e saputo che nel 1607 la podestà pontifizia soffrirebbe gran danno, e nel 25 v'avrebbe due papi, e altri avvisi e profezie «che non basteria sei fogli di carta»: e dopo rovinato il papato, sorgerà un papa divino (l'antico sogno del papa Angelico), ed altri che avran lo Spirito Santo manifesto, e trarranno alla fede Turchi e Settentrionali. Si badi ai flagelli onde son percosse la Germania e Venezia. Non tengasi fede ai principi, che non aspirano se non alle entrate della Chiesa. Per riparare vuolsi la penitenza; impedir che i principi gittino a terra i canoni, e alzino le loro costituzioni, e neghino al papa il gladio materiale. [99] _Amphiteatrum_, pag. 118. [100] Vedasi _La vie et les sentiments de Lucilio Vanini_. Rotterdam 1717. Gli è avversissimo ma ancor peggio P. Garasse, il quale, nella _Doctrine curieuse des beaux esprits de notre temps_, comincia a parlarne con queste frasi: _Les deux plus nobles exécutions qui se soient faites de nos jours, montrent évidement que la fin des athéistes dogmatizans est toujours accompagnée d'une particulière malédiction de Dieu et des hommes. La premiére fut à Tholose en la personne de L. Vaninus, homme d'un courage dé sespérè... homme de néant... mechant bellistre_, e dopo infinite altre ingiurie dice che, chiesto di far emenda onorevole a Dio, al re, alla giustizia, rispose: «A Dio non credo: il re non offesi: per la giustizia, i diavoli la portino, se pur diavoli c'è». Nella _Apologia pro J. C. Vanino_, stampata a Rotterdam 1712, si risponde ai diciotto capi d'accusa che si davano contro di lui da un anonimo che lo diceva ateo. Il presidente Gramond, nella _Historia Galliæ ab excessu Henrici IV_, l. 3, narra a disteso il supplizio del Vanino come testimonio oculare. Espostene le colpe, e l'ipocrisia in carcere e il sopraggiunto furore, dice: «Non avea però ragione di dire che moriva intrepido. Io l'ho visto abbattuto, con aspetto orribile, spirito inquieto... Prima di mettere fuoco al rogo gli si ordinò di presentare la lingua per tagliargliela. Ricusò: e il boja non potè averla che con tenaglie. Mai non fu udito un grido più spaventevole: l'avreste creduto il muggito d'un bue. Il resto del suo corpo fu consumato dal fuoco, e le ceneri gettate al vento». Il Vanini, dove annovera le varie ipotesi sull'origine della razza umana, pone anche quella che la fa derivare dalle scimmie; ma _quidam mitiores athei solos ætiopes ex simiarum genere et semine prodiisse attestantur, quia et color idem in utrisque conspicitur_: e che i primi uomini andavano a quattro zampe, e solo per un'educazione particolare cambiarono un uso, che ritorna nella vecchiaja. Vedasi pure SCHRAMM ecc. Vedansi P. GARASSE, _Doctrine serieuse_. G. M. SCHRAMM, _De vita et scriptis famosi athei J. C. Vanini_. Custrin 1799. P. F. ARPE, _Apologia pro J. C. Vanino_. Rotterdam 1712. J. G. OLEARIUS, _De vita et factis J. C. Vanini_. Jena 1708. FUHRMANN, _Leben des Vanini_. Lipsia 1800. EMILE VAISSE, _Lucilio Vanini, sa vie, sa doctrine, sa mort_: nelle Memorie dell'Accademia di Tolosa. _Œuvres philosophiques de Vanini, traduites pour la première fois par_ ROUSSELOT. Parigi 1842. [101] In testa alla _Buccinata_ v'era un Crocifisso coronato d'uno sciame d'api (stemma dei Barberini), colla scritta _Circumdederunt me sicut apes et exarserunt sicut ignis in spinis_. [102] Di Ferrante Pallavicino l'Indice de' libri proibiti registra: Lettere amorose. — La pudicizia schernita. — La rete di Vulcano. — Il Corriero svaligiato. — Il Divorzio celeste. — Le Bellezze dell'anima. — La Bersabea. — Il Giuseppe. — Panegirici, epitalamj, discorsi accademici, novelle. — Il Principe Ermafrodito. — Il Sansone. — La Scena retorica. — La Susanna. — La Taliclea. Nel 1655 si fece un'edizione a Venezia delle sue opere permesse, in quattro volumi: ma la cercata è quella delle _Opere scelte_, fatta a Ginevra colla data di Villafranca 1660, e le peggiori furono anche tradotte. Il Brusoni, ch'era amico del Pallavicino, ne pubblicò la vita e il catalogo delle opere, copiato dal Marchand in nota all'articolo _Pallavicino_. Il titolo di _Corriere svaligiato_ fu poi dato da Mirabeau a un suo libello politico. A disteso parla del Pallavicino il Poggiali nelle _Memorie per la storia letteraria di Piacenza_, n, 170. DISCORSO XLIII. ITALIANI NELLA SVIZZERA E NELLE CITTÀ LIBERE. LA MESOLCINA. GINEVRA. La Svizzera doveva la sua civiltà ai monaci, che la popolarono di conventi e santuarj, attorno ai quali crebbero molti villaggi col nome di santi, e le città di Sangallo, Appenzell (_Abatis cella_), Glaris (_Ecclesia Ilarii_), Feldkirch, Einsidlen, ecc. E alla Chiesa andavano a servire i suoi soldati, onde Giulio II intitolò gli Svizzeri «Difensori dell'ecclesiastica libertà», e regalò loro lo stocco e il berrettone, che furono collocati a Zurigo; due bandiere, che si posero nella Madonna di Einsidlen, e a ciascun Cantone un'insegna particolare con misteri della passione; a portar la quale fu destinato un banderajo che teneva il primo luogo nelle battaglie. Come cappellano di questi soldati era venuto in Italia il curato Zuinglio, che predicò la Riforma al tempo stesso di Lutero, con maggior metodo e più risoluta negazione, e maggiormente letto perchè scriveva in latino. Lutero lo osteggiò; tutti i Cantoni presero parte o con lui o contro di lui: Friburgo, ch'era stato ammesso nella Lega Elvetica il 1481 con Soletta, fece alleanza con Lucerna, Uri, Svitto, Unterwald, Zug, e radunati cinquemila combattenti, assalirono Zurigo, e il 10 ottobre 1531 vennero ad aperta battaglia a Cappel, nella quale Zuinglio combattendo restò ucciso[103]. I Cantoni restarono divisi in cattolici, riformati e misti. Cattolici si conservarono Uri, Svitto, Unterwald, Lucerna, Zug, Soletta, Friburgo; misti Appenzell, Glaris, Sangallo, Vaud, Argovia, Turgovia, oltre i Grigioni confederati; protestanti Berna, Zurigo, Basilea, Sciaffusa, Neufchatel. I sette cantoni cattolici mandarono al Concilio di Trento i loro deputati (20 marzo 1562) protestando la devozione filiale alla Santa Sede e il desiderio d'ajutarla come aveano fatto sotto Giulio II e Leone X: nella guerra contro i Protestanti e nell'uccisione di Zuinglio, del quale incenerirono e dispersero il cadavere, avere dato prova d'essere irreconciliabili coi Cantoni eretici; e posti ai confini d'Italia come antemurale, baderebbero che in questa l'errore non penetrasse. In Isvizzera risedeva un nunzio apostolico, tenuto di grand'importanza per l'opporsi che faceva all'eresie: ma costava assai, sì pei molti viaggi cui era obbligato, sì pei donativi con cui tutto s'otteneva colà, e per pranzi che duravano anche cinque ore, anzi fin dieci, in occasione della Dieta. Ne' Cantoni riformati ebbero ricovero molti Italiani. Basilea, entrata nella confederazione il 1501, era l'Atene svizzera, e testè uno spiritoso scrittore rifletteva come il Cinquecento ne fosse l'età più splendida per arti, lettere, scienze, ma che gli insigni furono cattolici, o almeno nati tali, e sotto al dogma refrigerante del protestantesimo conservavano il pensiero ideale e il fecondo succhio del cattolicismo. Il miglior quadro di Holbein è la Madonna di Dresda, col borgomastro di Basilea inginocchiatole avanti: di quel tempo è la elegante fontana di Alberto Durer; dell'età cattolica l'altra fontana colla guglia gotica, e il palazzo di città, e la stupenda porta del sobborgo di Spalen, le cui statue di santi vennero rispettate, mentre furono distrutti gli altari e i tabernacoli del Duomo, davanti a cui eransi prostrati gli avi, conservando però l'elegante pulpito del 1486. Ivi Opporino stampò settecencinquanta opere dal 1539 al 1568: lo seguì Pietro Perna, e quando lo storico De Thou lo visitò nel 1579 lo trovò vecchio che lavorava ancora con ardore di giovane. A Basilea Calvino incontrò il vecchio Erasmo che esclamò: «Vedo una gran peste nascer nella Chiesa contro la Chiesa». Ivi stampò l'_Istituzione cristiana_ nel 1536, dove, a imitazione dei Valdesi, sosteneva che nella Cena non v'è la presenza reale e locale del corpo e sangue di Cristo; che non dev'essere nella Chiesa nè capo visibile, nè gerarchia, nè vescovi o preti, nè messe o feste o immagini o croci o benedizioni o invocazione di santi, nè nulla di ciò che, pei sensi passando all'anima, la eleva per mezzo delle cose visibili al Dio invisibile. Ivi si stabilì una Chiesa italiana, della quale fu conservata notizia da Giovanni Toniola[104]. A Zurigo, che nella Ufnau in mezzo al lago ha la sepoltura di Ulrico di Hutten, Carlo Magno avea fondato una scuola, che Zuinglio resuscitò, e da cui uscirono gli illustri Corrado Gessner, Gasparo Wolfio, Giosia Simler, Enrico Bullinger. Molti riformati italiani vedremo cercarvi rifugio. Colà erasi ricoverato Jacobo Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento, il quale nell'opera _De Methodo, sive recta investigandarum tradendarumque scientiarum ratione_ (Basilea 1558) aveva ripudiata la dialettica ordinaria, proponendo un nuovo metodo di giungere al vero collo scomporre e ricomporre più volte la cosa, ed esaminarla sotto aspetti diversi, passando dal noto all'ignoto. Alla _divina_ Elisabetta regina d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute attestazioni di stima, dedicò gli _Stratagemmi di Satana in fatto di religione_ (Basilea 1565), libro allora molto acclamato, e tradotto in varie lingue, ov'egli studia di ridurre a pochissimi i dogmi essenziali del cristianesimo, nello scopo d'indurre le sêtte a vicendevole tolleranza. Aveva avuto per compagno Francesco Betti romano, che al marchese di Pescara, al cui servizio stava, scrisse una «Lettera nella quale dà conto a sua eccellenza de la cagione perchè licenziato si sia dal suo servizio» (Zurigo 1557). Figlio dell'amministratore dei beni del marchese, era molto in favore e in isperanza d'avanzamenti, quando lo smosse l'amor della divina fede. Descrive a lungo la lotta coi riguardi e coll'amor verso i superiori e i parenti. L'uccisione d'un fratello nella persecuzione del 1555 gli diè spinta a fuggire. Professa non voler entrare in materie teologiche che non conosce. Sa che i Luterani son guardati in Italia come i Turchi, ma assicura che quelli che così vengono chiamati dagli inimici aspirano solo ad esser cristiani, e qui espone i principali articoli della loro fede, massime sulla soddisfazione di Cristo per noi: ammette soli due sacramenti, e nella Cena vede una solenne commemorazione della passion e morte del nostro Salvatore, istituita da esso. Il matrimonio non è sacramento, ma i magistrati sono stabiliti da Dio e bisogna rispettarli e obbedirli. A lui colla solita iracondia il Muzio buttò in viso le _Mentite Bettiniane_; molti assunsero di richiamarlo all'ovile; ma egli continuò a Zurigo, a Strasburgo, altrove: e nel 1587 già vecchissimo stampò a Basilea la traduzione di Galeno. Nella biblioteca di Zurigo trovaronsi recentemente trattati dell'Ochino, di Scipione Calandrino e di altri, e ce ne valiamo nel nostro lavoro. Strasburgo, capitale dell'Alsazia, città libera cioè imperiale, era una delle principali del medioevo, con quella cattedrale che nello stile gotico primeggia come San Pietro nel romano; con immenso commercio di libri, poi con un operoso ricambio di dispute teologiche, avendovi portato i loro dogmi Calvinisti e Luterani, Zuingliani e Anabattisti, applauditi a vicenda ed espulsi[105]. Aveva essa cacciato il vescovo e il capitolo nel 1529, abjurando il cattolicismo, che poi vi fu ripristinato nel 1681 quando si sottopose a Luigi XIV. Fra altri italiani ivi si ricoverò il bergamasco canonico Zanchi, il quale non era così accannito contro il cattolicismo quanto i predicanti di quella città. Dal rettore Giovanni Sturm invitato a pranzo, si trovò con Marbach, Herlin, Dasypodio, Sapido; e caduti a discorrere del papa, Marbach sostenne non v'era speranza che mai conoscesse la verità, sicchè non doveasi più pregare per esso. Lo Zanchi rispose doveasi cessar di pregare solo per quelli che constasse avere peccato contro lo Spirito Santo; ciò non poteva dirsi del papa, sol perchè papa, e finchè non si fosse certi avesse commesso tal peccato, esser dovere di cristiano pregare per esso. Se ne scandalezzarono Marbach e gli altri, che teneano come articolo di fede il papa esser figlio di perdizione e anticristo. Tra i seguaci dello Zanchi a Strasburgo troviamo Giovanni Angelo Odone, dotto veneziano, amico di Ortensio Lando, e che sin dal 1534 era in corrispondenza col Bullinger. Una parte della Svizzera è affatto o a metà italiana; vogliam dire i paesi che or formano il Cantone Ticino e parte di quel de' Grigioni. In quest'ultimo si comprendono cinque valli di favella italiana; ciò sono la Calanca e la Mesolcina o val della Moesa, protendentisi entro il Canton Ticino; il Munsterthal presso all'eccelsa montagna dello Stelvio, formato dal bacino del fiume Ram che sfocia nell'Adige, ed ora ha tre parrocchie protestanti, di cui principale quella di Monastero che dà nome alla valle, con badia un tempo signora del paese e che vuolsi fondata da Carlo Magno: inoltre la val Bregaglia o della Mera che riesce a Chiavenna, e la val di Poschiavo che finisce in Valtellina alla Madonna di Tirano. Quel paese divenne poi padrone della Valtellina, e di questa e di esso ragioneremo a lungo più innanzi. Quel che adesso è Canton Ticino, esteso dalle falde del Sangotardo e del Sanbernardino fino ai laghi di Lugano e Maggiore, era stato tolto al ducato di Milano, e fatto suddito degli Svizzeri. I tre Cantoni primitivi di Uri, Svitto, Unterwald aveano occupato i baliaggi di Bellinzona, Blenio e Riviera, stendentisi dal Lago Maggiore alle vette del Sangotardo: tutti i dodici Cantoni insieme tennero i baliaggi di Lugano, Locarno, Mendrisio, Valmaggia, attorno ai laghi Ceresio e Verbano. Dai Cantoni dominanti venivano balii biennali a governare queste podestarie cisalpine, comprando quella carica a denaro, e rifacendosene col rivender la giustizia; e secondo che essi Cantoni ed i balii erano cattolici o protestanti, davano persecuzione o favore agli apostati. Singolarmente a questi avea giovato Jacobo Werdmuller, caldo evangelico. I soldati che uscivano dall'interno della Svizzera in occasione della guerra di Musso, propagarono non tanto le dottrine nuove quanto il disprezzo delle antiche, e un Baldassare Fontana carmelitano vi spiegava le epistole di san Paolo, e di là scriveva alle Chiese svizzere _fedeli a Gesù Cristo_ perchè pensassero al Lazzaro del Vangelo, che desiderava nutrirsi delle bricciole cadute dalla mensa del Signore; mossi dalle lacrime e supplicazioni di lui, mandassero «le opere del divino Zuinglio, dell'illustre Lutero, dell'ingegnoso Melantone, dell'accurato Ecolampadio»: e dessero opera perchè «la nostra Lombardia, schiava di Babilonia, acquistasse quella libertà che il vangelo impartisce». Giovanni Orelli di Locarno, _famigliare e perpetuo commensale_ di Gian Galeazzo Sforza, ebbe relazioni col Savonarola e con altri trascendenti, e introdusse nella sua famiglia l'uso di argomentare sulle cose religiose. Suo figlio Luigi militò sotto il connestabile di Borbone nell'impresa contro Roma, vi praticò molti Luterani e nominatamente il Freundsperg, e dal famoso saccheggio riportò diciottomila settecennovantuno zecchini, ventisette libbre d'oro colato, cenquindici d'argento, dodici vasi d'oro, quarantotto dorati, trentuno d'argento, nove di cristallo, una borsa di anelli. Anche l'altro figlio Francesco servì sotto Carlo V, ed entrambi col padre favorivano a Locarno chi professasse le massime nuove. Giovanni Muralto medico, loro compatrioto, inviato dal duca Sforza a Ginevra, vi conobbe il Serveto e alcuni profughi d'Italia, ne sorbì le idee, e le recò in patria, dove le partecipò agli Orelli e ad alcuni italiani rifuggiti, tra' quali il conte Martinengo di Brescia, Guarniero Castiglioni da Castiglione Varesotto, un Camozzi, un Visconti. Tutti trovavano ospitalità presso gli Orelli, ed alcuni ottennero il diritto di possedere e la cittadinanza. Uno speziale, che legava anche libri, ne ebbe alcuni di senso protestante, e cominciò a parlarne con persone per bene: poi un Piotta insegnò apertamente l'eterodossia, e divulgò gli scritti di Serveto. Fra i profughi nostri, che, allettati dalla vicinanza, dal clima, dalla lingua, dai costumi ancora italiani, si fermavano nei baliaggi, primeggiava il prete Giovanni Beccaria, nobile milanese, che ebbe possessi e cittadinanza a Locarno. A Roma avea conosciuti l'Ochino, il Carnesecchi, il Vermigli, e tornato a Locarno il 1534, vi diffuse gl'insegnamenti di questi sotto il manto di una scuola di letteratura: anzi l'arciprete, che nol sospettava, l'invitò a fare alcuni sermoni, che piacquero assai. Legò amicizia cogli Orelli, con Giovanni e Martino Muralti, con Lodovico Ronco, e crebbe di proseliti, massime dopo tornato nel 1540 d'un viaggio in Francia, e fu secondato da Benedetto da Locarno, minor conventuale, rinomato predicatore, da Cornelio di Nicosia dell'Ordine stesso, succeduto di Sicilia il 1546, e dal commissario protestante Gioachino Baldi di Glarona. Ma succeduto balio il cattolico Nicola Wirz nel 1548, impedì il propagarsi delle dottrine eterodosse, ordinò si osservassero le feste, i digiuni e le altre pratiche ecclesiastiche: poi volle si tenesse una pubblica disputa. Il 9 agosto 1549 presentaronsi a discuter per la _Chiesa cristiana locarnese_, il Beccaria, Martin Muralto giureconsulto, Taddeo Duni medico, Lodovico Ronco, Andrea Girolamo Camuzzi; contro all'arciprete Galeazzo Muralto, al cappellano della Madonna del Sasso, a frà Lorenzo domenicano, all'arciprete Morosini di Lugano. Fra gran concorso di popolo, per quattro ore si disputò sul testo evangelico _Tu es Petrus et super hanc petram ædificabo ecclesiam_, poi sulla confessione auricolare, sul merito delle opere buone, e il commissario che vi presedeva, indignato delle risposte ambigue, finì coll'ordinare che il Beccaria fosse tratto prigione. Ma trenta giovani suoi devoti nel cavarono a forza; ed egli reputò prudenza ricoverare nella Mesolcina, valle italiana sottoposta ai Grigioni; dove ammogliatosi, tenne a educazione figliuoli d'Italiani, che li volessero allevati nella Riforma. A Locarno dalla disputa pubblica presero animo i novatori, e vi predicarono Leonardo Bodetto, già francescano a Cremona, che vi sposò Caterina Appiani, egli ed ella applicandosi a fare scuola; ed altri chiamativi da Chiavenna. Tale prossimità turbava i sonni del papa e del re di Spagna come duca di Milano. Pertanto Carlo Borromeo, che già aveva istituito il collegio Elvetico a Milano onde preparare pastori a questi paesi, penetrato nella Svizzera in qualità di legato pontifizio, vi esercitò anche giurisdizione di sangue contro maliardi ed eretici. A sua istanza i Cantoni cattolici posero argine a quel dilatarsi dell'eresia in Italia, e malgrado l'ostare dei Cantoni riformati, stanziarono severi divieti (1552) e pena dieci scudi a chi tenesse libri o scritti contro la fede cattolica; si minacciò fin di morte chi bestemmiasse le cose sacre, la Pasqua del 1554 si ordinò che ogni persona dovesse _effettivamente e vocalmente_ confessarsi e comunicarsi; chi moriva senza confessione restasse escluso dalla sepoltura sacra. Pure i novatori non desistevano; adunavansi principalmente nelle case dei Muralti, dei Duno, degli Orelli e del costoro cognato Francesco Bellò di Gavirate, e domandarono d'avere un pastore riconosciuto e chiesa propria; e Anton Mario Besozzi scriveva al Bullinger come, nel 1554, in presenza dei sindacatori usciti a Bellinzona, si fossero battezzati fanciulli coi riti acattolici, e predicato in pubblica chiesa. Venuto poi commissario il zurichese Räuchlin, crebbero d'audacia, e un catalogo del luglio 1554 novera ottantasei famiglie riformate, composte di centrentacinque membri, oltre i fanciulli e oltre i timidi e vulgari, che non son catalogati. L'Orelli, il Muralto, il Duno recaronsi a Zurigo a chieder protezione dai Cantoni riformati, formolando la lor professione di fede, per cui accettavano il _Credo_, faceano Cristo unico mediator nostro, due sacramenti; il battesimo da conferire senza le cerimonie papistiche; la Cena in cui è cibo e bevanda il corpo di Cristo. Ma insistendo i Cantoni cattolici, il sindacato raccoltosi in Locarno decretò che i novatori dovessero abjurare, o venir multati ne' beni e nella vita. Se n'appellarono alla Dieta generale, dove la cosa fu compromessa ne' Cantoni misti d'Appenzell e Glarona, e questi decisero che tornassero alla fede materna, o spatriassero coi loro averi. Il 1 gennajo 1555 la popolazione di Locarno fu convocata nel castello del Commissario per annunziarle questa sentenza, ed esortare i novatori a ricredersi. Poi sul fine di febbrajo ecco i rappresentanti dei sette Cantoni cattolici, dinanzi ai quali processionalmente, in abito festivo e coi figliuoli alla mano, comparvero i dissidenti in numero di cenventicinque, non contando varj assenti e i ragazzi[106], e avendo dichiarato di restare fedeli alla loro credenza, ebbero intimazione che pel 3 marzo si disponessero a spatriare. Ottaviano Riperta vescovo di Terracina, nunzio apostolico, venuto colà a salutare in nome del santo padre gli ambasciadori svizzeri, non lasciò alcuna via intentata a convertir gli eretici, ma con poco frutto, e le stesse donne Barbara Muralto, Caterina Rosalina, Lucia Bellò, Chiara Toma sostenner dispute con esso. Vuolsi ch'egli insistesse per più severo castigo; ottenne l'estremo contro il calzolajo Nicolò Greco bestemmiatore, e che fosser arrestati i più riottosi. Barbara Muralto doveva essere fra questi; ma la sua casa attigua al lago, in tempo delle fazioni era stata fabbricata in modo da poterne fuggire per una porta cieca. Comparso dunque il satellizio, ella, alzatasi di letto, chiese d'andar a vestirsi, e fuggì. Gli altri dovettero disporsi ad abbandonare la patria coi beni e le famiglie. Congedatisi dai lor cari e fin dai più stretti parenti e dalle mogli, censettantatre persone d'ogni età ai 3 di marzo varcarono il Sanbernardino, indugiandosi alcun tempo a Rovereto nella Mesolcina finchè prendessero accordo cogli Svizzeri. I Grigioni offerser loro libero ricetto, e in fatti l'accettarono un Besozzi, Leonardo Bodetto, Giovan Antonio Viscardi colle loro famiglie. I più si stabilirono a Zurigo, _tam hilares, tam læti ac si ad nuptias aut festum aliquod properarent_, dice il Duno. Questo locarnese vi si segnalò come medico, godette l'amicizia del famoso naturalista Gessner, stampò varie opere, e tradusse in latino alcune dell'Ochino e dello Stancario. Altri ne giunsero colà quando il senato di Milano, informato che alcuni sudditi svizzeri, banditi da Locarno per causa di religione, si erano ridotti ad abitare nel dominio milanese, ordinò fra tre giorni dovessero abbandonarlo, sotto pena della vita. I Zuricani fecero partecipi i poveri delle limosine pubbliche; permisero erigesser una chiesa italiana nel tempio di San Pietro, con proprio pastore, che fu Giovanni Beccaria, il quale si conformasse ai riti e ai dogmi del Cantone, giurasse obbedienza al magistrato e al sinodo: provedendolo di cinquanta zecchini, cenquindici brente di vino, diciotto moggia di grano e due di avena; pel quale servizio mandavansi da Berna duemila cinquantanove fiorini, censessanta da Basilea, trentatre e mezzo da Bienne, altri da Losanna. Pure il loro modo di vestire e il linguaggio e il vivere strano li facea ridicoli al vulgo. Poi presto gittossi zizzania fra il Beccaria e il Bullinger, onde quello cessò da pastore, e sottentrogli l'Ochino, che, a poco andare, come eretico ne fu cacciato. Anche Anton Maria Besozzi nel 64 fu posto in carcere per aver enunciato dogmi contrarj ai dominanti. Nè i Locarnesi ebbero più ministro proprio, e dovettero pagar la decima di tutte le eredità, contro quanto erasi prima stipulato. Sobborgo degli Italiani fu detto quello dove prese stanza la _comunità di Locarno in Zurigo_, gli atti della quale erano tenuti da Lodovico Ronco. A Locarno per qualche tempo nessun voleva comprare la seta, raccolta sui poderi di questi eretici: onde Francesco Orelli ne mandò di molta, invece di denaro, al fratello Luigi. Il quale ne aprì magazzino a Zurigo, e introdusse telaj e stoffe non più vedute colà: donde cominciarono il prosperamento di tale arte e le piantagioni dei gelsi. Le case dei Duni, degli Orelli, dei Muralti, de' Pestalozzi produssero poi personaggi benemeriti della scienza e dell'umanità. Che la pieve di Locarno non restasse affatto mondata ce lo pruova il vedere che, attorno al 1580, il papa trovò bisogno di commetterla alla particolare ispezione del vescovo di Novara Speziano. San Carlo volea fabbricarvi un seminario, e desistette solo perchè Bartolomeo Papio d'Ascona lasciò venticinquemila scudi d'oro, in cartelle s'un Monte di Roma, che ne fruttavano milleducento l'anno, acciocchè in Ascona si erigesse un collegio, dove allevar _alcuni figliuoli poveri del paese_; collegio ch'egli nel 1582 ponea sotto la tutela di Gregorio XIII, il quale nominò suo rappresentante l'arcivescovo Borromeo[107]. Nella val Mesolcina, dov'era già stata sparsa da Giovanni Fabrizio Montano, capo di tutta la chiesa retica, il Beccaria avea fatto grand'opera onde stabilire la nuova fede. Fermatovisi poco, era passato, come dicemmo, a Zurigo coi Locarnesi, ma allorchè questi preser a capo l'Ochino, tornò a Mesocco, sotto il nome di Kanesgen. I Cattolici di questa valle cercarono ogni modo di sturbarlo, ed egli scriveva al Bullinger: «Le cose della religione qui son tollerabili, grazie a Dio, benchè i papisti non cessino di tumultuare. Dai quali però io non credo dovere temer nulla, perchè son certo d'essere curato da quello, senza la cui volontà non si torce un capello. Quanto ai buoni, ne fui accolto umanissimamente. Sovra tutti mi colma di cortesie il signor Antonio Sonvico eletto console, che non immemore delle vostre esortazioni, s'adopera a propagar l'evangelo di Gesù Cristo. Così Dio lo prosperi! Me e la chiesa mia vogli raccomandar a Dio. Finora sono molto più coloro che avversano il Vangelo, benchè abbiansi a dir piuttosto atei che di alcuna religione. Potente è Iddio ad aprir i loro cuori. Mesocco, 17 maggio 1559». A Rovereto si era messo Giovanni Antonio Viscato, detto il Trontano dalla patria, e vi piantò una chiesa. Se ne conturbarono i Cattolici: e i cinque Cantoni, temendo la propagazione dell'eresia, e che i Locarnesi rimasti in patria non prendessero coraggio a rianimar la loro fazione, instavano presso i Grigioni affinchè fossero sbanditi. Vinse la parte contraria, e l'aprile 1560 fu legalmente permesso al Beccaria di restar a Mesocco, e istruir fanciulli. Crebbero così quelli che, abbandonata la messa, adunavansi in case private per udir la predica; poi pretesero due delle cinque chiese che eran nella valle, e le ottennero dalla Dieta. Ma i cinque Cantoni insistettero a segno, che si diede libertà ai Comuni della Mesolcina di ritenere o rimandare il Beccaria: e in questi adunati prevalse il voto di congedarlo, con arbitrio però d'elegger altro ministro. Allora il Beccaria andossene a Chiavenna, e ne scriveva a Fabrizio Montano: «Dopo lunga e grave disputa con questi nemici di Cristo, vinse la parte di mandarmi via, patto però che i fratelli possano aver un altro predicante. A dirti il vero, vedendo in che stato erano le cose nostre e quanta l'ingratitudine dei più, mi rallegro che Dio m'abbia offerto occasione d'andarmene, prima che mi vi costringessero il bisogno e la miseria. Dopo la morte del magnifico Antonio e del commissario suo fratello, questa Chiesa restava talmente sprovvista d'uomini e mezzi, che a stento v'era da mantener il pastore... Ho dunque per benefizio del Signore che m'abbia liberato da tale trambusto e dalla misera colluvie del popolo... Mia moglie già da sei mesi sta a Locarno, dove fu costretta recarsi per la perduta salute: in breve tornerà, per dir addio a questo gratissimo popolo» (15 novembre 1561). Il Beccaria per altro di tempo in tempo rivedeva Mesocco, finchè per forza ne fu cacciato a istanza di san Carlo nel 1571. Questo santo addoloravasi del progresso dell'eresia in paesi contigui alla sua diocesi; onde fattosi a Roma nel 1582, n'ebbe titolo di visitatore pei paesi svizzeri e grigioni, anche sottoposti all'ordinario di Como. Non fu autorità a cui non avess'egli ricorso per ajuto in questa legazione: ai re di Spagna e d'Inghilterra, a Rodolfo imperatore, ai Cantoni cattolici, al vescovo di Coira, al duca di Savoja, ai Veneziani. Era il tempo che più ferveva la nimistà fra Cattolici e Riformati in Francia e in Inghilterra; a Parigi prevaleva la Lega che cacciò il re, e ch'era sostenuta dalla Spagna; per mezzo della quale il duca di Savoja sperava in quell'occasione recuperare Ginevra e i paesi toltigli dai Bernesi, come tentò; ma non si potè impedire che gli Svizzeri facessero alleanza colla Francia, e vi si unissero i Grigioni, a gran dispiacere de' Cattolici. Pertanto il Borromeo, scrivendo al Castelli vescovo di Rimini nunzio pontifizio in Francia, perchè intercedesse da re Enrico sicurezza e libertà a lui ed ai preti, «Fate però (gli diceva), che i Grigioni non sentano che io ci vado qual legato del papa; questo sol nome ogni cosa perderebbe. Si dica un privato mio viaggio; col qual titolo, senza scemare il frutto, consolerò quei popoli. Ben i Cattolici mi desiderano, e gli eretici stessi mi mostrano qualche deferenza ed amore; onde nutro speranza non mi si attraversino impedimenti; solo ho paura che i profughi dall'Italia non mi guastino ogni cosa. Son costoro sentina di vizj, nè solo eretici, ma molti apostati, e del resto facinorosi e perduti, che appena udranno trattasi di sostenere la religione cattolica e vedranno maturare i primi felici semi, temendo essere sterminati, daranno in furore, metteranno fuoco ne' capi per ritardarmi o impedirmi ogni buon effetto.... Principalmente sarebbe a curare che dall'intollerabile giogo degli eretici venissero sollevati i Cattolici di qua dall'Alpi. Poichè, quando sortiscono magistrati eretici, se anche non facciano ad essi aperta violenza, pure mostransi vogliosi di svellere la religione; danno pessimi esempj come scellerati ministri del diavolo, non lasciano la libertà di cercare o ritenere probi e religiosi sacerdoti, che avviino sul calle della salute: vietano agli esteri, tuttochè ottimi, d'andar colà, mentre fanno arbitrio di rimanervi a uomini empj e perduti. Poichè il re può tanto presso i Reti, gioverebbe che, senza far mostra d'essere da me officiato, vi s'adoprasse; e la signoria vostra potrebbe suggerire ad Enrico uno scrupolo che pungesse e lui ed i Grigioni: mostrare cioè qual danno potrebbe uscirne se mai tanti, oppressi dalle calamità e stancati dal giogo, macchinassero alcuna cosa e si ribellassero»[108]. Con Francesco Panigarola francescano, famoso predicatore, e col gesuita Achille Gagliardo riassunta la visita, il Borromeo fu di nuovo a Lugano, poi a Tesserete, consolato dalla pietà di quei terrazzani, ove di cinquecento confessati, neppur uno trovossi in colpa mortale[109]; per Bellinzona si condusse a Rovereto nella Mesolcina. In questa valle trovò abbondare scolari del Vergerio e di Pietro Martire Vermiglio, ed esservi (scriveva al cardinale Sabello) il nome di cattolici, non i costumi, nè la credenza. V'aveano tenuto casa i novatori Trontano e Kanesgen, pseudonimo del Beccaria; poc'anzi v'era morto Lodovico Besozio, scolaro del Trontano migliore del maestro: era frequentissimo il contatto colla val del Reno, tutta già calvinista. Singolarmente vi si segnalavano per odio ai cattolici Francesco Luino, che da trent'anni era colà: un figlio del Trontano[110] e due o tre altri, «le cui mogli sono veri mostri d'inferno». Stava a capo delle cose sacre un frate, disertore dell'Ordine e della religione, che seco traeva una femminaccia e quattro suoi figliuoli: poco di meglio erano gli altri preti. Il Borromeo coll'amorevolezza, coll'Inquisizione, coll'insegnamento, col largheggiare, si conciliò gli animi: e Dio ne prosperava le fatiche. La riverenza verso quel gran santo non ci terrà dal narrare come ivi scoprisse moltissime streghe. Istituitone processo, ben centrenta abjurarono: quelle che non vollero ravvedersi furono condannate, e prima quattro, poi altrettante, poi tre, indi più altre vennero arse. Il prevosto di quella terra Domenico Quattrino da undici testimonj era stato visto, nella tregenda coi demonj, menar danze oscene in paramenti da messa, e recando il santo crisma[111]: onde fu dannato al fuoco. Sarebbero gettate le parole ch'io aggiungessi per compiangere che i delirj del secolo prendessero anche anime illuminate e pie. Solo non tacerò che i Grigioni si dolsero e protestarono contro abusi di giurisdizione del Borromeo, ma nei loro atti non trovammo fiato di lamento per queste procedure; tanto parevano regolari secondo i tempi[112]. Il Borromeo nella Mesolcina all'ucciso curato surrogò Giovanni Pietro Stoppano, autore del _tractatus de idolatria et magia_, che poi fu messo all'Indice. Da poi il santo si mise per la val Calanca, ove conobbe cinquanta famiglie cadute in eresia e ventidue maliarde. Pel Lukmanier andò alla badia di Dissentis a confermar nella fede quell'abate Castelberg, forse l'unico uom distinto che nella Rezia zelasse la restaurazione del cattolicismo nel senso del concilio di Trento. Personaggio così famoso, che veniva a croce alzata, seguito da molti ecclesiastici di virtù e di saper grande, che era incontrato solennemente dalle autorità, che all'Ospizio dormì sulla paglia, che fe il trasporto delle reliquie dei santi Sigisberto e Placido, dovette lasciar viva impressione sopra quei terrazzani. Era sua mente drizzarsi a Coira, indi nel ritorno visitare Chiavenna e la Valtellina. Per impetrarne licenza mandò Bernardino Mora al beytag dei Grigioni: ma i predicanti andavano spargendo sospetti sul suo conto: lui infine esser nipote di quel Gian Giacomo Medeghino, il cui nome, dopo le acerbe guerre lor recate sul lago e in Valtellina, era fra i Reti rimasto terribile: vedessero quanto aveva operato in val Mesolcina, dove non prima pose piede, che collocatosi in luogo forte, stabilì un inquisitore, e fece ogni suo talento: assai tornerebbe sospetta ai loro alleati Francesi la venuta del cardinale, tutto ligio alla Spagna[113]. E questi susurri trovarono ascolto; onde, non che escluderlo, i predicanti commossero quei della val Pregalia a dare addosso ai missionarj da lui mandati, e metterli a processo[114]. Adunque avvisato voltò per Giornico e il Sangotardo[115] a Bellinzona. Quivi trovò folta ignoranza delle cose di Dio, ed un vivere non punto meglio del credere; matrimonj incestuosi, usure sfacciate, conculcati i diritti del clero, sacerdoti simoniaci e viventi in pubblica disonestà. Ho letto omelie da lui recitate colà, donde può trarsi argomento e dello stato di quel paese e dello zelo che il santo vi adoprò, dimorandovi fino al 15 dicembre; ove eresse anche una prebenda per mantenere un maestro, lasciò un catechismo, compilato a posta dal gesuita Adorno, ridusse a compimento il collegio d'Ascona. Come avea fatto rinviare dal Governo di Bellinzona il Beccaria e il Trontano, sperava fare di Mesocco il punto d'appoggio del rinnovato cattolicismo nella Rezia, dicendo che, essendo questo paese uno Stato sovrano, già feudo dei Trivulzj milanesi, ed or liberamente collegato ai Grigioni, non andava sotto alle leggi di questi. Dovea porvisi una stamperia cattolica, da opporre alla protestante di Poschiavo; e il palazzo dei Trivulzj ridursi a collegio de' Gesuiti. Fin tra le cure che ponevangli assedio negli ultimi suoi giorni, il Borromeo s'occupava d'ottenere, se non pace, almeno tregua ai Cattolici di colà; e teneva corrispondenza con re Filippo II d'affari sì intimi, che non si affidavano alle carte, ma comunicavansi a voce col Terranova, allora governator del Milanese. Dal 1578 in poi, un nunzio pontificio risedette sempre nella Svizzera, per quanto se ne adombrassero le potenze alleate: si fondarono scuole di Cappuccini ad Altorf per le classi inferiori, e di Gesuiti per le superiori a Lucerna, ai quali Gregorio XIII assegnò seicento zecchini annui, oltre gli allievi che manteneansi ne' collegi di Milano e di Roma. Anzi, Lega borromea o Lega d'oro fu detta quella che i Cantoni cattolici strinsero col re di Spagna per conservar la Chiesa e la pace; e i membri di essa obbligavansi «di vivere e morire nella sola vera e antica fede cattolica, apostolica, romana, essi e l'_eterna_ loro posterità». Anche il cardinale Federico Borromeo s'adoprò a tener in fede la Mesolcina, e vi mandava sempre sacerdoti e maestri. Nel 1609 vi erano pretore Simeon De Negri, e cancelliere un Sanvico, i quali, ricordandosi che un tempo vi sedeva un ministro protestante, anche allora lo chiamarono. Il popolo se ne indispettisce, eccitato anche da Antonio Gioerio, e irrompendo ove quello celebrava, abbattono la campana, insozzano il tempio, bruciano i sedili. Come i Grigioni, così neppur Ginevra era allora membro della Confederazione Elvetica, ma solo confederata. Questo paese formava parte dell'impero germanico ed era spartito, siccome il resto della Svizzera, fra molti baroni, spesso in lotta fra loro e col vescovo; coi conti del Genevese, che allegavano il diritto imperiale; coi duchi della vicina Savoja, che guatavanli colla cupidigia del forte. I vescovi signoreggiavano come principi e vi batteano moneta: ma ne impugnava i diritti la città, che pretendeasi imperiale, cioè libera, e nominava un consiglio e quattro sindaci per amministrare insieme col vescovo. I conti di Savoja tentarono spodestare il vescovo; di che Gregorio XI nel 1370 movea lamento ad Amedeo VI. Amedeo VIII, che fu antipapa col nome di Felice V, tenne in Ginevra la sede del suo pontificato, dove rimasero gli atti di esso, finchè nel 1754 quella repubblica li regalò a Carlo Emanuele III. Nel 1401 Villars, conte del Genevese, cedette al duca di Savoja questa contea, e con essa i suoi diritti sulla bella città del Lemano, che così trovossi divisa fra tre poteri; il vescovo, il duca, il municipio. Il vescovo, proposto dal popolo, eletto dai canonici, godeva di molte regalie, e giudicava le cause in appello. Il popolo, cioè i capicasa, eleggevano il sindaco e il consiglio, annuali; ricevevano dal vescovo e dal conte il giuramento di conservare le franchigie. Il duca teneva assessori laici per eseguire ciò che i consiglieri avessero deliberato intorno ad affari temporali; col titolo di visdomino giurava fedeltà al vescovo e al Comune; nel suo forte, detto il Gagliardo, faceva giustizia de' condannati dai sindaci, impiccandoli a Champel, terreno del vescovo; teneva le prigioni nel castello dell'Isola, che aveva ricevuta dai vescovi per ipoteca di denaro dovutogli, e più non volle restituire. E i vescovi erano l'unico ostacolo perchè quella popolazione avveniticcia, mista di Svizzeri, Italiani, Francesi, non cadesse in servaggio dei duchi di Savoja. Questi dunque cercavano metter su quella sede parenti loro, che faceano nominare da Roma, in onta ai privilegi municipali. Tal fu Giovanni, bastardo di Savoja, eletto da Giulio II, e che già aveva cospirato per annettere Ginevra al ducato de' suoi. Tale Pietro de la Beaume, che gli succedette giurando non intaccare le libertà. Ma poichè Carlo III agognava trasformare l'autorità delegata in sovranità assoluta, la lotta fra lui e i borghesi fe nascere i partiti de' Confederati (_Eidgenossen_ donde Ugonotti) e dei Mamelucchi; quelli cercando, questi respingendo l'alleanza con Berna. Prevalsero i primi, e fecero trattato di conborghesia con Friburgo il 6 febbrajo 1518, onde schermirsi dall'usurpatore[116]. Il duca infellonito fa uccidere quanti Ginevrini si trovano a Torino, e sorprende Ginevra; ma non potè impedire che i confederati stringessero lega con Berna il 20 febbrajo 1526. I Bernesi, ch'eransi fatti protestanti, vennero con lance e cannoni, per via spezzando le immagini, e abbeverando i cavalli nelle pile dell'acquasanta; dispersero in Ginevra i tanti monumenti del primiero culto; vinsero i vescovi e i duchi, e per mezzo di Guglielmo Farel introdussero la Riforma. Il gran consiglio della città, sforzatosi invano a conservare il cattolicismo, dovette tollerare i Riformati, che subito prevalsero, e cacciarono i Cattolici e il vescovo, il quale si collocò ad Annecy. Poi al 27 agosto 1535 fu ordinato non ci fossero se non Protestanti, onde i Cattolici migrarono. Il duca di Savoja ricoverava i perseguitati, e minacciava voler ridurre Ginevra pari a un villaggio di Savoja. Il papa gli consentiva di levar le decime sugli ecclesiastici e gli argenti dalle chiese onde far armi, ed esortava i principi cattolici ad essergli in ajuto. Carlo in fatti si mosse, tenne assediata per un anno Ginevra, ma questa ebbe soccorsi più effettivi dai Bernesi, che, oltre liberarla, tolsero al duca il Sciablese, Gex, il paese di Vaud, e dopo sacrifizj e martirj, lo costrinsero a firmar la pace di San Giuliano, impegnandosi a rispettare i privilegi di Ginevra. Così Ginevra, spinta alla Riforma per amore della libertà politica, avea fatto due rivoluzioni; coll'una liberandosi dai duchi di Savoja, coll'altra introducendo la Riforma. Questa fu opera di Calvino, siccome dicemmo, il quale, mentre il protestantismo non avea che distrutto, cercò riedificare. Spoglio di poesia e d'entusiasmo, magro, malaticcio, a fronte di Lutero gaudente, beone, beffardo; inasprito anche dall'abitudine della controversia, governava con una logica implacabile e con una rigida pietà, che non perdonava nè a sè nè agli altri; fra quel fervore ragionacchiante, quella abnegazione senza slancio, non piegavasi mai per sensibilità; lontanissimo dalla tolleranza, cioè dal rispettare i diritti dell'anima[117]. Allora dapertutto era considerato come il maggior dei delitti l'eresia: solo variavasi nel giudicare eresia quello ch'era antico o quel ch'era nuovo. Calvino, carattere inflessibile, non potea che considerare come empio chi reclamasse la libertà della coscienza; genio organizzatore, pretendeva l'obbedienza, e trovava legittime le ordinanze pubblicate anteriormente contro l'eresia; nè una penalità che potea spingersi fino al supplizio, repugnava alla sua logica austera[118]. Non si fece egli dunque riguardo d'imprigionare, di espellere, e arrivò più in là con Michele Serveto, medico aragonese, allievo della scuola di Padova, ostinantesi a negare la trinità delle persone divine. L'Aleandro da Ratisbona scriveva al Sanga il 17 aprile 1532, essersi mandato alla Dieta un libro di Michele Serveto _De Erroribus Trinitatis_, dove «quel traditor con ogni suo ingegno si sforza mostrar che lo Spirito Santo non sit tertia persona in divinis, et che questo nome di Trinità sii cosa falsa e vana, ecc. Ha ventisei anni e grandissimo ingegno, ma la cognizione che mostra della sacra scrittura fa supporre non ci abbia messo di suo che il nome». Esso Aleandro pensa dunque farlo condannare da una congregazione di teologi, e «scriver in Spagna che si faccia proclamo et incendj di quel libro et de la statua dell'eretico al modo di Spagna....... Altro non si potrà far per hora: saria il dover che questi eretici di Germania, dovunque quel Spagnuolo si ritrova, mostrassero impugnarlo, se sono veri cristiani ed evangelici come si gloriano, perchè lui è pur non meno contrario alla profession loro che alli Cattolici, ecc. [119]». Così fecero: Calvino volle averne il parere de' credenti, e tutte le Chiese elvetiche risposero egualmente che bisognava impedire si propagasse lo scandalo delle empie sue dottrine, e vietare che gli errori e le sette fossero seminate nella Chiesa di Cristo: sicchè lo condannarono alla morte e al fuoco. Il Serveto domandò d'esser rilasciato perchè trattavasi d'eresia, delitto che non appartiene al poter civile, così avendo stabilito anche Costantino a proposito di Ario. Non ebbe ascolto. Calvino, da lui implorato di perdono, glielo negò, consigliandolo a volgersi al Dio, che avea bestemmiato. Dal famoso Farel esortato a disdirsi, e così impetrar misericordia, il morituro rispose: «Non ho meritato la morte, e prego Dio di perdonare a' miei persecutori; ma non ricomprerò la vita con una ritrattazione che ripugna alla mia coscienza». Farel l'accompagnò tutta la via, pregandolo, minacciandolo, blandendolo, insultandolo: sulla deliziosa collina di Champel, tra una folla immensa, che pregava per lui, fu legato a un palo, col libro suo, e in capo una corona di fronde, spolverata di solfo, e messovi il fuoco, l'anima di lui comparve davanti all'Altissimo. Molti fremettero alla fiera esecuzione, e Calvino li sfolgorava co' termini più bassi, e sosteneva il diritto, anzi il dovere di punire colla spada gli eretici. Par che anche la nostra Renata di Ferrara gliene facesse appunto, ed esso le rispondeva: «Avendovi io allegato che David col suo esempio ci istruisce di odiar i nemici di Dio, voi rispondete che era ancora sotto la legge di rigore. Ma questa glossa, o signora, sovvertirebbe la Scrittura, e perciò bisogna fuggirla come peste..... Per troncar il filo d'ogni disputa contentiamoci che san Paolo applicò a tutti i fedeli quel passo, che lo zelo della casa di Dio ci deve consumare. Laonde Nostro Signor Gesù Cristo riprendendo i suoi discepoli quando il richiesero di far cadere il fulmine su quei che lo ripudiavano, come avea fatto Elia, non allega loro che or non si è più sotto la legge di rigore, ma solo rimostra che non sono mossi da sì viva affezione quale il profeta. Anche san Giovanni, del quale voi riteneste solo la parola di carità, mostra che noi non dobbiamo, sotto ombra dell'amor degli uomini, raffreddarci sopra l'onor di Dio e la conservazione della sua Chiesa, giacchè ci vieta perfino di salutare quelli che ci sviano dalla pura dottrina». Come del Serveto dicea, _Si venerit, modo valeat mea auctoritas, vivum exire non patiar_, così d'un nostro rifuggito italiano: _J'eusse voulu qu'il fust pourry en quelque fosse, si ce eût été à mon souhait; et sa venue me réjouit autant comme qui m'eust navré le cœur d'un poignart... Et vous assure, s'il ne fust si tost eschappé, que, pour m'acquitter de mon debvoir, il n'eust pas tenu à moy qu'il ne fust passé par le feu._ Trovati alcuni scritti di quel Gruet che avea mandato a morte, li fa bruciare dal boja, e l'autore chiama _adhérent d'une secte infecte et plus que diabolique... degorgeant telles exécrations dont les cheveux doibvent dresser en la teste à tous, et qui sont infections si puantes pour rendre un pays mauldict, tellement que toutes gens ayant conscience doibvent réquerir pardon à Dieu de ce que son nom a été ainsi blasphémé entre eux._ Tal era dunque la tolleranza calvinica, alla quale potremmo opporre la benignità del Sadoleto, vescovo di Avignone, benevole anche coi caporioni della Riforma [120]. Allorquando il vicelegato Campeggi menava l'esercito contro dei Valdesi, il Sadoleto li ricoverò nel suo vescovado, scrisse loro una lettera, in cui, dopo riprovate le loro dottrine, aggiungeva in francese: «Desidero il vostro bene, e sarei amareggiato se si venisse a distruggervi, come si cominciò. Perchè meglio intendiate l'amicizia che vi porto, il tal giorno mi troverò presso Cabrières, e là potrete venire pochi o tanti, senza che vi si faccia alcun disturbo, e là vi avvertirò di quel che vi sia di salute e profitto». Paolo III indicò conferenze a Lione, alle quali convennero il vescovo di Ginevra, il cardinale di Tournon, gli arcivescovi di Lione, di Torino, di Vienne, di Besançon, i vescovi di Langres e di Losanna e il Sadoleto; molto disputarono sui modi di ristabilire il cattolicismo a Ginevra, infine dovettero limitarsi a una lettera che il Sadoleto scriverebbe. L'abbiamo, ed è mentosto una polemica che un'effusione di cuore paterno, dove s'associano l'elevazione del pensiero alla tenerezza morale del vangelo, così diversa dall'aridità a cui Calvino abituava i Ginevrini. Insiste principalmente sul punto che commoveva i distruttori d'allora, la perennità di questa Chiesa, con una sequela di dottori, di martiri, di pontefici, purificata al fuoco della persecuzione, vigile a condurre i fedeli, amorosa a correggerli, inesausta in tesori di perdono. E quando il rigido metodismo non aveva assiderato i cuori dovea far effetto quel suo mostrar quanto i dogmi abbiano di consolante pel cuore, i conforti della preghiera: e lo stesso Beza nella vita di questo confessa che, _nisi peregrino sermone scriptæ fuissent, magnum civitati in eorum statu damnum daturæ fuisse videantur_. I caporioni di Ginevra stettero in gran pensiero a chi affidar la risposta, e trovarono non poterla fare se non Calvino, benchè allora fosse allontanato dalla città. La stese egli infatto, tripla di lunghezza, superiore in energia, poco inferiore di eleganza, come retore consumato che era e versato ne' classici; loda la virtù e il sapere di lui, egli sempre così acre contro i suoi avversarj, ma lo imputa di malafede e di trascorrere fino alla villana licenza del calunniare[121]. Principalmente quanto alle tante sette, suscitatesi fra' Riformati, riflette che, se questa fosse colpa, ne andrebbe imputato l'intero cristianesimo fra cui tante ne nacquero; doversi anzi lodar di zelo i Calvinisti che le combatterono mentre i Cattolici dormivano oziosi. Quasi la Chiesa non respingesse le sette coll'autorità sua propria inerrabile; quasi fosse merito combatter l'errore coll'errore! Finisce professando che non vi è bene maggiore dell'unione ecclesiastica, e invocando Cristo a riunir tutti nella società del suo corpo, per modo che, colla sola sua parola e il suo spirito, siam congiunti in un cuore e in un pensiero. La risposta di Calvino è citata tuttodì come un modello di bellezza e forza di stile; noi cattolici e italiani abbiamo dimentica affatto la lettera del Sadoleto, che in nulla le cede. Accennammo come fondatore della Chiesa italiana di Ginevra l'Ochino (Vol. II, p. 62). Con esso era fuggito da Siena Latanzio Ragnoni, che venuto a Ginevra nel 1551, fu il primo che vi prese uffizio di catechista; poi morto il Martinengo, a' 24 ottobre 1557 fu fatto ministro di quella Chiesa italiana, e vi morì il 16 febbrajo 1559[122]. Dapprima si adunavano gli Italiani per la preghiera comune nella sala del vecchio collegio. Cresciuti di numero si diedero forma di Chiesa: nel 1552 la dirigeva un pastore; nel 1556 si compose il concistoro, formato del pastore, ch'era il Martinengo, quattro anziani e quattro diaconi; e capo degli anziani fu il marchese Galeazzo Caracciolo per trentun anno, in tal qualità vigilando a quanto accadesse alla Chiesa e prendendo cura de' poveri. Egli provide ad assodarla, e dal magistrato ottenne uno statuto che del ministro determinava venticinque incombenze. La prima era di cominciare l'adunanza coll'invocare l'assistenza di Dio, e finire col rendergli grazie. La seconda, di far tutto con ordine, modestia, semplicità, carità, senza discordia nè contese. Tutti i membri della Chiesa italiana una volta l'anno si univano in generale assemblea per conferire sul regolamento delle famiglie, e sull'accettare nuovi membri: locchè manteneva la moralità, tanto più che non accoglieva alla Cena chi ne fosse immeritevole. I fedeli erano visitati di tempo in tempo dagli anziani, e i figliuoli istruiti accuratamente. Fin dal 1551 a Nicolò Fogliato di Cremona e Amedeo Varro piemontese erasi affidata la cura de' poveri per soccorrerli con somme raccolte. Nel 1555 il magistrato, vedendo ben ordinata quella Chiesa, e attenta ai precetti del Vangelo, concesse a suo uso il tempio della Maddalena, dove amministrar la Cena alle otto di mattina della domenica dopo quella che se n'era valsa la Chiesa francese. Per residenza del pastore fu data un'abitazione nel chiostro di San Pietro. Alla professione di fede ginevrina troviamo si soscrissero, degli Italiani, Celso e Massimiliano Martinengo bresciani, Galeazzo Caracciolo, Bernardino Ochino, i conti Giulio Stefanelli e Antonio Tiene di Vicenza, Marco Pinelli genovese, Pompeo Avanzi veneziano, G. B. Natan, divenutovi poi predicante, Nicolò Gioffredo di Crema, Cesare Bollani e Pompeo Diodati di Lucca, Onofrio Marini napoletano, Carlo Federici e Paolo Alberti romani, Pietro Muti toscano, Paolo Lazise veronese, Matteo Gribaldi, Giorgio Blandrata e Carlo Alciati milanesi, Bartolomeo Polentani, Agostino Fogliani, Orazio Chiavelli, Santo Mellini, Giacomo Verna, Sigismondo Pigna, Giovanni Fecato, Andrea Cotogni, e molti vulgari; e «preti e frati rifuggiti non per altro in Ginevra se non perchè stracchi del rigore del chiostro e del breviario, e trovando buono di godere il resto de' loro giorni in libertà con una moglie in seno. Almeno così ne scrivono gli autori cattolici, e così ne parlano i Protestanti che vogliono spacciarsi per galantuomini». Sono parole d'un altro eretico d'età più tarda, Gregorio Leti, il quale, nella _Historia ginevrina_[123] soggiunge che sette Italiani ricusarono sottoscrivere, e si ritirarono dalla città; fra i quali Andrea Osselani, Marco Pizzi, Valentino Gentile, che poi vi s'indussero; nè però quest'ultimo desistette dal sostenere proposizioni ariane, sinchè fu cacciato. Accenna altri che ricoveravano a Ginevra, tra' quali Margherita Pepoli di Bologna, fuggita con un amante, bastardo de' Bentivoglio, e colà resasi calvinista. Altrove[124] colla abituale sua prolissità e gonfiezza declama contro l'intolleranza di Ginevra. «Dio ne guardi che pigliasse la fantasia al re di Francia di trattar gl'infelici Ugonotti con una particella di quel rigore, col quale li Ginevrini trattarono nel 1536 li Cattolici a Geneva. Dio ne guardi, dico un'altra volta: almeno il re di Francia sono già tanti anni che li va distruggendo, togliendoli oggidì una cosa, dimane un'altra senza sangue e senza violenza considerabile, e sono stati minacciati prima d'esser ruinati: e se gli è lasciato il tempo pian piano di pensare a' casi loro.... Ma i Ginevrini, subito che si videro in mano il governo, non diedero tempo un momento ai Cattolici: cito, cito, cito: la sentenza e l'esecuzione in un momento, e non voglion dar tempo neanco per l'instruzione». E qui si scaglia contro gli autori del suo tempo e cattolici e protestanti, perchè non sanno che mentire, inveire, calunniare: e i libri che si vendono non son che controversie e satire, critica della critica, papismo contro papismo, calvinismo di calvinismo, e sempre maledire, criticare, mentire. E pensa che la religione se ne vada, e dice che metà degli uomini sono atei; che come si scandalizzano i Cattolici andando a Roma, così a Ginevra i Protestanti. In fatto ben provvista di spioni era Ginevra, un de' quali un giorno rapporta ai magistrati: «Ho inteso Caterina moglie di Giacomo Copa, del ducato di Ferrara, dire che Serveto è morto martire, e Calvino fu causa della sua morte perchè era seco in lizza, onde i signori han fatto male a farlo morire; che Gribaldo ha dottrina sua propria, come Paolo Alciato e il Biandrata, e che son perseguitati a torto e per malevolenza: ch'ella vuol andarsene perchè il procedere di questi signori le spiace in quanto condannano chi pensa diverso da loro; e disse molte bestemmie di cui non mi ricordo». Un altro spione rincalzava: «Ella disse che M. Calvino non è d'accordo con Gribaldo perchè questi è più dotto: ch'ella non ha a far se non quello che Gesù Cristo dice: che, se ella persevera e muore qual è venuta a Ginevra, sarà martire del diavolo. Essa tien una lettera di Gribaldo, sottoscritta da Giovanni Paolo e da Valentino». Arrestata, si seppe ch'ella era venuta a Ginevra per compiacere al suo unico figlio, che non voleva andar alla messa, e restò condannata a domandare mercede a Dio e alla giustizia, e bandita, con ordine di lasciar la città fra ventiquattro ore, o perderebbe la testa[125]. Uno fu condannato perchè possedea le _Facezie_ del Poggio: un altro perchè leggeva l'_Amadigi_: un muratore perchè stanco esclamò, «Al diavolo l'opera e il padrone». Questo Gribaldo, che dal Leti vedemmo dato per milanese, ma par piuttosto padovano, era un antitrinitario: fu dal Vergerio chiamato alla Università di Tubinga, e mandò una confessione di fede allo Zanchi, pregando la comunicasse anche a Pietro Martire, ma fu conosciuta eterodossa, e il Beza la disapprovò affatto[126]. I duchi di Savoja non sapeano darsi pace di aver perduto Ginevra, e cercavano ripigliarla, adducendo a pretesto ch'era nido d'eretici. Pio IV incaricava il vescovo di Como della nunziatura agli Svizzeri cattolici, onde persuadere questi a confederarsi col duca di Savoja per recuperare Ginevra[127]. Stanno nell'archivio di Torino un breve di esso papa a Francesco II dell'11 giugno 1560, ove l'esorta ad ajutare di denaro e di truppe il duca per recuperare Ginevra, impresa accettevole a Dio, e utile alla pace del suo regno, disfacendo quel ricovero de' malcontenti di Francia: e un'altra del 13 al re di Spagna nel senso stesso, assicurando che il re cristianissimo dalla Borgogna, esso papa dall'Italia spedirebbero truppe all'uopo. Il giorno stesso, Carlo Borromeo avvertiva il signor Collegno che il santo padre avea deposto ventimila scudi in mano di Tommaso Marino banchiere a Milano per servire ai Cantoni cattolici contro gli eretici che volessero attaccare i fedeli; e per impedire che questi andassero a soccorso di Ginevra quando verrebbe assalita dal duca. Il quale, allorchè muova a quest'impresa, avrà pure ventimila scudi per le spese di un trimestre; il papa manderà la sua cavalleria a proprio costo, acciocchè la guerra compiasi presto, avantichè i Turchi ci molestino. Sua santità trova bene che la guerra non si qualifichi di luterana, ma solo guerra contro di ribelli e d'una città che appartiene al duca Emanuele Filiberto. Forse la morte di Francesco II interruppe l'impresa, ma il desiderio non ne cessò nei duchi; e Carlo Emanuele meditò sorprendere la città mentre l'assicurava di pace e di buona vicinanza. È famosa la scalata sua, sì ben ordita e sì mal tessuta. Non è mestieri dire che i Cattolici secondavano quest'impresa di lui. Il poeta Vinciolo Vincioli lo incoraggiava a domar l'antico orgoglio Del barbaro vicin, e di quegli empj, Che fuggendo al tuo scettro, ebber ardire Fabbricar nuova fede e nuova legge; gli assicurava il favor di Dio che certamente destina Che debban l'armi tue con breve guerra Vincer tutta la terra, La qual, vinta, che sia, dall'Indo a Tile Sarà solo un pastor, solo un ovile; lo esortava a far fiorire di qua dall'Alpe la pace, Mentre di là fiera discordia ognora Tiene in travaglio i popoli, che sono Verso Dio divenuti aspidi e talpe. Intanto lo sollecitava contro Ginevra, indarno difesa dal lago, dalla palude, dai fiumi, dalle mura: E già veder il Rodano mi pare Portar il sangue invece d'acque al mare. Poveri vaticinj de' poeti! Invece, la notte 12 dicembre 1602, già ducento suoi uomini erano penetrati nella città, quando furono scoperti e trucidati; ed egli cacciato non riportò che la vergogna d'aver perfidiato, senza la giustificazione che suol dare la buona riuscita. Carlo tornossene collo scorno, e le canzoni popolari a lungo fecero risonare la sua vergogna, come un annuo digiuno e il canto del salmo 124 perpetuò la memoria dell'essere sfuggita la città al pericolo di diventare serva e cattolica. Nel 1609 e nel 1611 Casa di Savoja rinnovò que' tentativi, sempre col pretesto di sostenere i pontefici, come altre volte pensò ingrandire col pretesto di abbatterli. San Francesco di Sales vescovo d'Annecy avea più volte insistito sull'importanza di acquistare quella città, non però coll'armi, e la sua speranza di guadagnarla colla persuasione andò dispersa dacchè il Savojardo divenne esecrabile ai Ginevrini, che, coll'amor della patria, istillarono ai figliuoli l'odio pel duca non solo, ma per tutto ciò che fosse di Savoja. Ginevra restò sempre la Roma degli Evangelici. La famiglia lucchese dei Turrettino ben ne meritò e diede molti uomini di Stato e scrittori. Tali Benedetto, autore di sermoni e dissertazioni teologiche (1631) e d'una storia della Riforma di Ginevra, rimasta manoscritta: suo figlio Francesco, scolaro di Gassendi e contato fra' più insigni di quella città, che scrisse, oltre il resto, _Institutiones theologiæ elenchticæ_ (1687): Giovanni Alfonso suo figlio, più celebre degli altri (1671-1737). Accolto con onore ne' suoi viaggi, posto a Ginevra fra i pastori, poi in una cattedra di storia ecclesiastica, eretta apposta per esso, tenne corrispondenza estesissima per essere informato di quanto operavasi dai Protestanti, e cercava di mettere pace fra i dissidenti coll'indurli ad attenersi solo a certe credenze fondamentali, e tollerare parziali dissensi, può dirsi riformò un'altra volta Ginevra, cancellando quanto di passionato v'aveva in Calvino; per opera sua il concistoro de' pastori di Ginevra cessò di esigere che tutti i ministri sottoscrivessero il _Consensus_, formulario intorno alla predestinazione e alla grazia. Le opere di esso furono raccolte in quattro volumi a Leuwarde 1775. Ebbe egli a scrivere che, se tante genti d'Europa, poste sotto cielo felice e dotate di begli ingegni, nulla producono d'insigne, n'è colpa il Sant'Uffizio, o leggi somiglianti a quelle dell'Inquisizione, che frangono ogni vigore d'intelletto, attesochè nessuno voglia promuovere le lettere e cercare la verità o pubblicare i suoi trovati allorquando, invece di lodi, ottenga ingiurie, disonore invece di applausi, pene e supplizj invece di ricompense. Il pio quanto erudito Lodovico Muratori, che meritò il titolo di padre della storia d'Italia, prese a confutare queste asserzioni nel libro _De ingeniorum moderatione in religionis negotio_; ove dimostra come fra' Cattolici sia libero il disputare di tutto quanto non intacchi la fede e la moralità, e delle opinioni in fatto di scienze, lettere, arti, qual sarebbe la teorica copernicana: rimanendo intero il diritto di pubblicare la verità. Ma nel sostenerla egli raccomanda si adoperi giustizia, prudenza, carità; non calunniare mai; temperare la mordacità; tenersi moderati sin dove non vada di mezzo la fede; non imputare errori che non siano ben accertati. Simili accorgimenti vorrebbe ne' censori che rivedono libri a stampare; non irritino l'amor proprio degli autori, col che non si ottiene che di esacerbarli; non vi mettano il puntiglio d'opinioni personali, e l'ostinatezza a trovar errori, e la maligna interpretazione delle intenzioni. Tremelli Emanuele ferrarese stampò a Ginevra per Eugenio Stefano, 1569, la traduzione latina del Nuovo Testamento siriaco. Lo tacciarono d'aver carpita quella di Guido Le Levre, compita già, sebbene stampata solo il 1571 nella _Biblia poliglotta_ di Anversa, ma basta confrontarle per accorgersi della falsità. Ivi pure Vincenzo Paravicino, nel 1638 stampò _Della Comunione con Gesù Cristo nell'eucaristia, contro i cardinali Bellarmino e Du Perron: trattato di Giovanni Mestrezat, tradotto dalla lingua francese_. Per uso della Chiesa italiana furono tradotti in versi i salmi, de' quali conosciamo l'edizione del 1566, con lettera proemiale, firmata Gio. Cal. e la professione di fede: si dice a fatta di comune consentimento da le chiese che sono disperse per la Francia, e s'astengono dalle idolatrie papistiche, con una prefatione la quale contiene la risposta e difensione contro le calunnie che gli sono imputate. Ed è _de la stampa di Gio. Batt. Pinerolo a Ginevra_. L'edizione pur di Ginevra del 1592 li dà tradotti da Giulio Cesare Paschali, e dedicati alla regina Elisabetta difenditrice della fede. Spesso invece di Dio dice Giova, deducendolo dall'ebraico Iehova, e assai si diffonde nel difendere tal novità. Premette un sonetto all'Italia, ove conchiude: O David degno! o te beata appieno Italia mia, se quel secondi, or volta Da le mondane a le celesti tempre. Ond'io ti sveglio, deh il parlar mio ascolta: Fuor che 'l viver a Dio tutto vien meno, E lui sol celebrar si dee mai sempre. Vi sono soggiunte rime spirituali, e il primo canto d'un poema «l'Universo, o Creazion di tutto il mondo, origine e progressi in quello della Chiesa del Signore». In edizione del 1621 essi salmi sono sessanta. Poi, nel 1631, si stamparono _I sacri salmi messi in rime italiane da Giovanni Diodati_, senza data, ma coll'áncora e il delfino, consueti agli Aldi; e sono cencinquanta. Un'edizione degli antichi sessanta salmi, del 1650, contiene gran numero di orazioni e riti. Poi nel 1683 a Ginevra apparvero _Cento salmi di David tradotti in rime volgari italiane secondo la verità del testo hebreo, col cantico di Simeone ed i dieci comandamenti della legge, ogni cosa insieme col canto_. Sono gli antichi sessanta, con aggiunta di quaranta, di _Giovanni Diodati di benedetta memoria_. L'epistola proemiale, colle solite invettive contro ai Cattolici e alla consacrazione, dice aver già pubblicato un libro sulle orazioni da farsi nelle adunanze domenicali, e sui modi di celebrare i sacramenti e santificare il matrimonio. Loda assai gli effetti della musica. Vi sono pure l'orazione dominicale, preghiere pel mangiare, e così per tutte le domeniche, pei giorni della Cena, e in fine una confessione di fede, fatta d'accordo coi fedeli di Francia. Il tutto è in italiano; locchè proverebbe come durasse a Ginevra una chiesa italiana. Nel 1840, dalla società biblica furono stampati i _Salmi_ secondo la versione in prosa del Diodati, con a fronte la versione _ên lingua piemonteisa_. Più tardi, nella _Bibliothèque Germanique_ (Amsterdam 1725, pag. 231) leggiamo in data di Ginevra: «Nous avons ici depuis quelque tems, un savant homme nommé M. Ferrari, italien, qui depuis longtems a embrassé la réligion reformée, et c'est établi en Angleterre. Il cherche des mémoires pour un ouvrage qu'il intitulera _L'Italie Reformée_, et dans lequel il traitera des Italiens savans ou gens de considération, qui ont embrassé la réligion protestante». Ecco dunque uno che ci avrebbe preceduto d'oltre un secolo. Questi è probabilmente Domenico Antonio Ferrari, giureconsulto napoletano, ajo nella casa del conte di Leicester; quel desso che nel 1744 depose al collegio di San Giovanni a Cambridge la copia della prima edizione del _Trattato del Benefizio di Cristo_, che fu creduta la sola sopravvivente. Egli stesso nel 1720 aveva mandato un esemplare delle _Cento Considerazioni_ del Valdes a un non sappiamo chi di Neufchâtel, che ne fece annotazione su di esso libro; unica copia arrivataci di quell'opera, e dove il Ferrari è indicato come _original de Naples, naturalisé anglais, et docteur en théologie de Cambridge, gouverneur de Mr. Cock gentilhomme anglais_. Se è lo stesso, d'entrambe le due opere del Valdes, che levarono tanto rumore allora, poi di nuovo in oggi, la conservazione sarebbe dovuta allo stesso italiano. Del 1705 possediamo originale questa lettera di un frate Aurelio Ghirardini servita bolognese, in cui al governo di Ginevra offre la propria apostasia. «Serenissime Princeps, excellentissimi patres, Fidem vestram tueri cupio, serenissime princeps, excellentissimi presidenteis; sanguinem ad vestram religionem defendendam sum effusurus, et mei ingenii tenebris splendorem ipsius adaugere peropto. Fidem, homini contra fidei dogmata insequuti, præstate. Debito abundant rubore characteres, licet atramenti colore funesto nigrescant; vestram enim pietatem implorant, quæ absque dubio, quamvis in celsitudinem conscendat humanitatis, quamvis maxima sit, tamen adeo grata est, ut absque precum effusione ab omnibus impetretur: in hoc non recedens a solis generositate, qui tam collium celsitudini, quam vallium humilitati lumen suum uberrime impertitur. Vere futuro proximo, vobis annuentibus, hic servitutem, quam verbis profero, operibus confirmabo; dummodo me vobis gratum fore, certiorem reddatis. Hoc temporis curriculum ab hujusce epistolæ exaratione ad discessionem intercedet, ob commoditatum inopiam, ab ærumnis et calamitatibus a me perpessis exortam et genitam. Nullam artem mæchanicam ob natalium modicam claritatem, calleo. Artes tantum liberales humilitate ingenii recolo, et vestram solum humanitatem et æquitatem summe veneror et agnosco. Vos humillime precor, ut non calamo, sed mihi parcatis. Viginti duo anni statis meæ jam evolarunt, et reliquum vitæ et laborum vobis, vestræ fidei consecrabo. Responsum et rescriptionem hujusce epistolæ animo hilari expecto. Ad majorem notitiam simul, et mei delitentiam hic titulum mihi in rescriptione adaptandum subposui. Vobis Cœlum illos tribuat honores, quos æque meritum vestrum appetit. Vobis, vestræ quæ religioni tribuat incrementum; reipublicæ augmentum, nominisque vestri famam æternam. Dum in obsequii mei evidentiam vobis me ipsum consacro. «Dominationis vestræ serenissimæ et perquam exc. «Ab urbe Reggio, mensis decembris, anni 1705. _Humill^mus et obsq^mus famulus_ F. AURELIUS GHIRARDINI, ordinis Servorum». «Titulus italo idiomate faciendus: _Al p, f. Aurelio Ghirardini servita bolognese della Madonna. A Reggio._ Dopo il 1725 la Chiesa di Ginevra dichiarò che non volea maestri umani, fossero Calvino o Beza; poi nelle conferenze che l'Alleanza Evangelica tenne l'autunno del 1861, molti pastori d'essa Chiesa affermarono non potere aderire ad essa Alleanza perchè aveva adottato una formola dogmatica, cioè _Credo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo_[128]. Mentre fin a ciò si spingeva la negazione, noi stessi vedemmo un singolare ritorcimento, attuato per opera dell'abate Francesco Vuarin savojardo, che fu curato di Ginevra dal 1808 al 1843. Trovati colà appena ottocento Cattolici, diede opera ad aumentarli, cozzando vigorosamente col Governo e coi ministri, scrivendo, divulgando libri, moltiplicando opere benefiche, introducendo le Suore della carità e i Fratelli della dottrina cristiana, che dirigessero un ospedale, una scuola, un orfanotrofio, mentre i Cattolici restavano esclusi dalle molte istituzioni pie di quella città. Fu ajutato da molti, e non solo dai pontefici, ma sin da Alessandro I imperatore di Russia: pubblicò il giubileo del 1825, e vide accorrervi cinquemila Cattolici; diecimila ne lasciò morendo nella sua parrocchia, con scuole libere e riti pubblici e prediche solenni, dalle quali noi fummo assai volte edificati, come dalla devozione degli intervenienti. L'opera sua è insignemente proseguita dal suo successore, monsignore di Mermillod, che testè elevalo a vescovo ausiliario di Ginevra, diceva: «In nome di Pio IX e di Gesù Cristo sono nella città, per la quale Francesco di Sales non potè passare che travestito nè senza pericolo della vita. Ora la percorro con tutta libertà, in abito vescovile: vi sono salutato e riverito, e sul mio cammino benedico fanciulletti, come faceva Gesù Cristo. Ho dodici preti: non ancora seminario nè capitolo, ma spero impiantarveli quando che sia. I Fratelli della dottrina cristiana istruiscono liberamente la gioventù. Le Suore della carità traversano le strade colla modestia della loro innocenza. In questa città, che vantavasi la Roma protestante, nel giorno di Natale contai più di tremila comunioni. Sopra cinquantamila abitanti ha ventimila cattolici: una magnifica cattedrale si sta elevando sopra una delle primarie sue piazze». APPENDICE IV Nell'archivio di Ginevra sta un _Libro di memorie diverse della Chiesa italiana, raccolte da me Vincenzo Burlamacchi in Geneva_, MDCL. Ne caviamo ciò che importa all'assunto nostro. = In appresso saranno notati li nomi delle persone italiane, le quali sono venute ad abitare in questa città di Geneva, e fatto professione della religione reformata, e di più l'anno del loro arrivo in esso luogo. 1550. — Giuseppe Fogliato di Cremona. Bartolomeo Roncado di Piacenza, con sua moglie. E qui do notizia che solo sono qui messi i nomi che sono scritti ne' libri; essendo certissimo che solo una parte d'essi è qui registrata. Ciò si prova perchè già l'anno 1551 furono deputati alcuni per la cura de' poveri. Il che mostra che, già allora ed avanti, v'era numero d'Italiani qui. La raunanza per le prediche cominciò nel 1552, che venne Celso Martinengo da Basilea, che fu primo ministro. 1551. — Galeazzo Caracciolo, marchese di Vico nel regno di Napoli (signor marchese), Antonio suo servitore. Giovanello Connello di Reggio di Calabria. Lattantio Ragnone di Siena nobile sanese. Francesco Tedesco di Messina. Paolo Buonaria. Vincenzo di Roccia. Jacomo Tomasini di Siena, con sua moglie. Lazaro Ragazzo di Cremona, con sua moglie. Francesco Santa di Cremona, con sua moglie. Giuseppe Fossa di Cremona. Paolo Gazo di Cremona. Niccolò Fogliato di Cremona. Ambrogio Varro piemontese. Michele Varro piemontese. Simone Pauli di Fiorenza. Tomaso Pueraro di Cremona, con sua moglie. 1552. — Celso Martinengo, conte bresciano, marzo, primo ministro. Bernardo Loda di Brescia e suo servitore. Giuseppe Fenasco di Cremona. Alfonso Mulazzano di Ravello. Ludovico Manno di Sicilia. Giovanni Paolo de la Motta. Giovanni Aluigi Paschale. Orsino Roccia di Capua. Francesco Gazino di Dragonesi. Giovan Tommaso Gazino di Dragonesi. Francesco e Sebastiano Sartoris di Chieri fratelli, con due sorelle. Bernardino Susanno di Piacenza, con sua moglie e due figliuoli. 1553. — Francesco Marchiolo di Cremona, con sua moglie e cinque figliuoli. Giovanni Antonio Pellissari di Mussa (moglie e quattro figliuoli). Girolamo da Milano. Silvestro Tellio di Fuligno, con sua moglie. Fabio Tedesco di Reggio in Calabria. Simone Fiorello di Caserta, catechista poi ministro in Tirano (circa 1559). Giovanni Bernardino Ventimiglia. Nicolao Giustiniano. Bottini di Genova, con sua moglie. 1554. — Andrea Rubatto di Cuneo, con sua moglie. Tommaso Portughese, con sua moglie e cinque figliuoli. Jacomo Milanese, ecc. Georgio Miol di Pancabero, con sua moglie e cinque figliuoli. Giovanni Paolo Alciati piemontese. Stefano Rivorio di Cavore. Domenico Fiorentino. Andrea di Verto di Salasco. Nicolao Carignano di Carignano. Bonifacio Morena di Cavorre, con tre figliuoli. Giofredi Morena di Cavorre, con sua moglie e quattro figliuoli. Giovanni Pietro milanese. Antonio Gazzino, piemontese. Costanzo Gazzino, con sua moglie. Giuseppe Bondiolo di Cremona, sua moglie e due figliuoli. Giulio Cesare Paschali di Sicilia, con sua moglie. Antonio del Buono di Novara, sua moglie e cinque figliuoli. Giovanni del Buono di Novara, calzolajo, con sua moglie e cinque figliuoli. Gioannina Cottina di Racconigi con quattro figliuoli. Anselmo Quaglia. Tonino Tommasini. Giofredo Mozino. Hipolito Carignano. Giovanni Battista Guazzone. Giovan Ugali, con sua moglie di Verona. Pietro Cierigino. Giovanni Antonio Merenda. Giorgio Scarparo. = Seguitando troviamo nel 1555 60 persone fuggite d'Italia a Ginevra, principalmente dalla Calabria. Nel 1556 36, fra cui sette da Lucca, colla famiglia Balbani. Nel 1557 son 39 gli emigrati, fra cui Gioffredo Varaglia di Bosco. Apollonia Merenda di Cosenza. Giorgio Biandrata ben noto. Nel 1558 son 35, di cui sette spagnuoli. Nel 1559 son 47; 19 nel 1560, fra cui Andrea del Ponte, fratello del doge di Venezia; 22 nel 1561; 36 nel 1562, tra' quali il Castelvetro e Fausto Sozzino; nel 1563 son 53: così in trent'anni, circa quattrocento persone ci vennero, la più parte italiani. Torniamo al registro del Burlamacchi[129]. = Si è trovato memoria, come le prime catechisme furono fatte nella sala del Collegio, nel qual si celebrava il battesimo e il mariaggio. E che il numero delli Italiani crescendo giornalmente, il luogo d'essa sala del Collegio non sendo bastante per celebrare la santa Cena, fu, per arresto del Consiglio, alli 13 giugno 1555 ordinato che si predicherebbe e celebrerebbe la santa Cena alla Maddalena, la domenica seguente quella de' Francesi, e nell'ora solita della prima predica. Nota di coloro che hanno esercitato il santo ministero nella Chiesa italiana, raccolta in questa città di Geneva. 1552. — Il conte Celso Massimiliano Martinengo di Brescia arrivò in questa città nel mese di marzo 1552, e dopo poco fu stabilito ministro nella Chiesa. Morì alli 12 agosto 1557. 1551. — Lattantio Ragnoni di Siena, arrivato qua nel mese di giugno 1551 (prima catechista), fu ricevuto ministro nella Chiesa alli 24 ottobre 1557. Morse alli 16 febbrajo. 1559. — Non potendo ottener Girolamo Zanco, nè appresso M. Emanuelle, dopo lunga ricerca. Niccolò Balbani di Lucca, arrivato qua in luglio 1557, fu ricevuto ministro nella Chiesa, alli 25 maggio 1561. Passò a miglior vita alli 2 agosto 1587. 1577. — Giovan Battista Rota di.... in Piemonte fu ricevuto nella nostra Chiesa, alli 20 agosto 1577, ne fu scaricato alli 20 luglio 1589 per avere lui desiderato ritirarsi in Francia. 1590. — Giovanni Bernardo Bosso, di nazione piemontese, venuto in questa città anno 1578, fu ricevuto ministro nella Chiesa italiana alli 20 del mese di maggio 1590. Esso passò a miglior vita alli 5 decembre 1612. 1612. — Giovanni, Diodati di nazione lucchese, nato qua alli 6 giugno 1576, fu ricevuto ministro nella Chiesa italiana alli 20 decembre 1612. = Il secolo seguente, nella successione de' pastori italiani troviamo Benedetto Turrettini di Lucca, Giacomo Sartoris, piemontese come Giacomo Leger. Francesco Turrettini. Fabrizio Burlamacchi, Benedetto Calandrini, Michele Turrettini, tutti d'origine lucchese; Antonio Leger, ultimo, durò fin al 1689: dopo di che il parlar francese divenne così comune ai migrati, che più non fu mestieri di Chiesa distinta. Il Burlamacchi dà pure la lista di quei che furono anziani od amministratori de' poveri. Negli archivj del Consiglio di Stato a Ginevra stessa trovansi quest'altre annotazioni dal registro del concistoro, che va sino al 1612. 1551. — Le marquis Galeace Caracciolo, arrivé ici 1551, travailla avec M. Calvin pour établir l'Eglise et l'ordre de la prédication ordinaire, y ayant dejà grand nombre de familles. Il alla querir a Bâle le comte Celso Massimiliano Martinengo, fameux auparavant pour ses prédications en Italie et compagnon de Martyr a Lucques, qui arriva ici en mars 1552, et y fut etabli ministre des Italiens, etant examiné par la compagnie des pasteurs. 1555. — On precha au commencement, et on fit les catechismes en la sale du Collège vieux: et l'assemblée etant fort accru en 1555, par arrêt du Conseil du 13 juin fut dit qu'on feroit le prêche italienne pour la sainte Cène à la Madaleine, le dimanche suivant la Cène des Français à 8 heures du matin. 1556. — En l'assemblée générale de mars 1556 on établit pour adjoints du pasteur 4 anciens, dont le dite marquis fut le premier, pour la conduite de l'Eglise comme corps de concistoire qu'on appela Collèges, avec 4 diacres pour administrer les aumônes. Les règlements du dite College se trouvent renouvellés le 8 mai 1564. Les dites anciens avoient charge de visiter frequemment les familles, se partageant les quartiers. Item les malades. Il y en avoient toujours deux, etablis sur les differences, pour les accomoder. Un ou deux sur les écoles qu'on dressa. On etablit pour catechiste dès devant Simon Fiorello, et on expliquait un petit formule, et un plus grand à certaines heures. En 1556 Lattantio Ragnone, noble siennois, faisait aussi des catechismes. Dès le commencement on eut 50 psaumes, qu'on imprima en 1556 augmentés. Tout ceux qui arrivoient d'Italie se présentoit au concistoire, et étant connu de leur instruction, ils étoient incorporés en la communion de l'Eglise, se soumettant à la confession de foi, et à l'ordre de la discipline. Ceux qui n'étoient pas suffisamment instruits, étoient renvoyés aux catechistes. La congrégation générale se tenoit, dès l'an 1557, après les catechismes italiens, au temple ou auditoire de S. Marie, dont il y eut quelques démélés avec les Anglais pour l'heure et tout fut remis à M. Calvin. Dès cette année on fit la depense du plancher pour la dite auditoire par resolution du 3 mars 1557, et de quelques bancs pour les femmes in novembre 1558, et de plancher les chapelles y mettant des bancs, janvier 1559. 1551. — Dès le commencement de 1551 jusque au fin de 1553, furent élus entre les Italiens pour le soin des pauvres qu'ils assistoient de leurs déniers, Niccolò Fogliato de Cremone et Amedeo Varro piémontois. 1554. — Pour les pauvres en l'assemblée générale du 4 janvier 1554, furent députés Simon Fiorillo et Niccolò Fogliato, et en janvier 1555 leur fut adjoint Jean Paolo Alciati. 1556. — Pour l'entretien des ministres et des pauvres, il y avoit une regle dressée de ceux qui volontairement s'y obligeoit selon leur pouvoir, et depuis ceux de la nation y ont toujours pourvu à ses frais, comme aussi pour les maîtres d'écoles et un chantre à gages. Le chantre pour 8 écus. = Nell'archivio stesso trovasi questa nota del maggio 1558. «Sur ce qu'on decouvrit que Valentino Gentili, Giovanni Paolo Alciato, Giorgio Biandrata et d'autres soutenaient des discours comme ne sentant pas bien des trois personnes en une seule divinité essentielle, et troubloient la paix de l'Eglise sémant des opinions erronées, par l'avis de M. Calvin et des pasteurs de la ville, et du pasteur et consistoire italien fut dressée une confession de foi special là dessus, étendant ce qui est plus reservé en la confession ordinaire de Genéve, laquelle fu souscrite en une congrégation générale le 18 de mai en presence du quatrième sindyque M. Chevalier (commis au nom de la seigneurie des pasteurs français) par la plus part des membres de l'Eglise, et par le reste en d'autres jours suivants; et le 23 mai par six de ceux qui y faisaient difficulté, Silvestro Teglio, Filippo Rustici, Francesco Porcellino, Nicolò Sardo, Valentino Gentili, Hyppolite Gallo». NOTE [103] Della battaglia di Cappel il cardinale Accolti mandava una lunga descrizione al Sadoleto in lettera del 4 dicembre 1531, fra il resto dicendo che _ceciderunt quamplurimi sacerdotes qui, abjurato veræ religionis cultu, sese in Satanæ famulatum conjecerant; repertusque est multis vulneribus confectus Zuinglius, qui primus ad Helvetios attulit pestifera Lutheranorum dogmata, eisque, ob singularem qua maxime inter Helveticos florebat opinionem virtutis, doctrinæ et sapientiæ, assidue imperitorum animos imbuebat_. J. SADOLETI Ep. lib. VII. [104] JO. TONIOLAE _Cœtus italici qui Basileæ colligitur_. Basilea 1661. Del Toniola abbiamo pure _Basilea sepulta, retecta, continuata, hoc est tam urbis quam agri basileensis monumenta sepulchralia_. [105] Nel 1860 fu pubblicato a Parigi _Mathieu Zell, le premier pasteur évangélique de Strasbourg_ (1477-1548) _et sa femme Catherine Schutz: étude biografique et historique par_ ERNEST LEHR. E ad Erbelfeld in tedesco: _Capiton e Butzer, riformatori di Strasburgo, secondo le loro lettere inedite, gli scritti stampati ed altre fonti contemporanee_, per J. G. BAUM. [106] Eccone la lista: Muralto nobile signor Martino e Lucia Orella sua moglie con quattro figliuole. Duni nobile Taddeo, Elisabetta sua moglie e due figliuole, e Giangiacomo fratello. Ronco nobile Lodovico, Maria sua moglie e tre figli. Appiano Francesco Michele con una figlia. Cozolo Battista e Bernardino suo figlio. Postcollonia Protaso, Franceschina sua moglie e una figlia, e Bartolomeo suo fratello. Zareto (o Cereto) Giovan Giacomo, Caterina sua moglie con tre figliuoli, e Caterina madre di lui. Orelli Luigi di Gioaneto; Apollonia sua moglie e tre figli. Rossalino Giovan Antonio, Elisabetta sua moglie, Girolamo, Lorenzo e tre altri figli. Toma Pietro di Giovan Maria: Franceschina sua moglie e cinque figli. Toma Sebastiano, Clara sua moglie con due figlie, Marta sorella: Giovanni. Raffagno Zannino e Caterina sua moglie. Raffagno Evangelista, Margherita sua moglie e una figlia. Raffagno maestro Francesco, e Caterina madre dei Raffagni. Riva Giovanni Antonio, Maddalena sua moglie, maestro Nicolò, Bernardino e Anna lor figli con tre altri. Lucia, moglie del signor Francesco di Gavirate. Cereto Maestro Battista. Verzasca Francesco, Caterina sua moglie e una figlia. Verzasca Giovan Antonio e Bartolomeo, due sorelle e tre figlie di queste. Appiano Filippo con tre figli: Parisio con moglie e quattro figli: Caterina con tre figli: Sebastiano con moglie o due figli. Appiano Francesco di Nicola con moglie e due figlie. Carlo Appiano suo fratello con moglie. Fasolo Andrea. Muralto Giovanni: Barbara sua moglie: Giangiacomo loro figlio e tre figliuole. Andreolo Andreoli con moglie e due figli. Giambattista de' Baddi con moglie, e Tommaso. Trovano Alberto con moglie, e Albertino; e Pietro Paolo con moglie e tre figli. Pairano maestro Giovanni Antonio, Bernardina sua moglie e due figli. Orello Bartolomeo e Filippo; Francesco di Guffrino Orelli: Margarita sua moglie e una figlia: Francesca sorella. Orelli Battista di Alessandro con moglie e quattro figli. Cattaneo Bartolomeo di Orello. Albrizzi Battista, Giovannina sua moglie e due figli. Muralto Giovan Antonio, Lucia moglie e Maddalena figlia: Catarina: Anna moglie di Paolo Orelli. Riva Giovanni di Franceschino. Francioso Giovanni Luigi e figlio. Lancelotto Giovanni Angelo: Susanna sua moglie con cinque figli. Romerio Francesco e sua madre. Rozzolli Francesco di Antonio. Gordulino Giovanni. Taddei Maestro Giovanni Pietro di Giovan Antonio. Porcio Damiano. Mercazio Filippo con moglie e figli. Giovannina moglie di Giovan Battista Rabazotini. Pebbia Stefano con moglie e tre figli. Giacobina moglie di Pietro Ragazzi con un figlio. Albertini maestro Francesco con moglie e quattro figli. Antonia di Bernardo Benada di Gavirate. Margherita moglie di Luigino Ronchi, e Lodovica sorella di questo. [107] Dagli annali di Gregorio XIII pubblicati dal p. Theiner, raccolgo che, al congresso dei signori Svizzeri tenuto a Lugano nel 1584, l'arciprete di San Lorenzo pregava esso papa di concedere a que' preti di dire due messe ne' luoghi di più difficile accesso, siccome già n'aveano avuta la concessione dai vescovi di Como, allora tolta dal visitatore Bonomo. [108] _Ep. apud_ OLTROCCHI, _notæ ad vitam sancti Caroli_, lib. VII, c. 4. [109] _Compertum est nullum ferme ex quingentis et amplius, qui labes apud nos suas deposuerunt, lethalis culpæ reum fuisse auditum._ Lettera del padre Gagliardo, da cui togliamo la descrizione di questo viaggio. [110] Samuele, figlio del Trontano, ed un Brocca con tutta la sua famiglia si resero cattolici nel 1584, come abbiamo dai manuscritti del Borromeo. [111] Vedi OLTROCCHI, ib. 684-694. RIPAMONTI, _Hist. Patr._, Dec. IV, lib. V, e qui sopra vol. II, pag. 386. [112] Tobia Eglino racconta con gran dolore questi atti del Borromeo nella Mesolcina, e che colà un frate che da tre anni vi dicea messa, annunziò di farsi evangelico. E narra d'aver lungamente in Roma servito il cardinale Araceli genovese, che venuto a morte, si pentì d'avere scritto molto contro il Vangelo, e confidar della misericordia di Dio; assai cose favellò con lui sulla giustificazione e sul purgatorio, contro le opinioni papistiche, ond'egli pensò uscir da quelle tenebre. Venuto a Milano, cacciò un ghiro nel tabernacolo, acciocchè rodesse il sacro pane, e così corbellare i frati che lo credeano Dio. Quinci pericolo, ma coll'ajuto d'amici cremonesi campato, fuggì in Mesolcina. Ora voler consacrarsi a Cristo, ed esservi molti desiderosi di lasciar la messa ecc. La lettera del 9 giugno 1571 è in HOTTINGER, _Helv. Kirch. Gesch._, tom. III, pag. 900. [113] GIUSSANO, _Vita ecc._ [114] Erano l'Adorno, il Grattarola, il Boverio. Il Grattarola in una lettera descrive il processo fattogli in un'osteria, presenti quindici giudici insigniti della collana d'oro, i quali alfine dovendogli impor una multa, s'accontentarono che pagasse da cena a tutti. [115] Il passaggio del Sangotardo era allora une de' più formidabili, pure fin dal 1374 l'abate di Dissentis vi avea posto un piccolo ospizio. Nel suo viaggio san Carlo determinò porvi una fabbrica solida; ma morì prima d'eseguirla, e Federico Borromeo vi collocò nel 1602 un prete con casa. L'ospizio fu poi eretto nel 1683 dall'arcivescovo Visconti, con due frati cappuccini per assistere i viandanti. Si sa come soccombette nella guerra contro il Sunderbund. [116] Appartiene a quel tempo l'avventura del prigioniero di Chillon, che nei fasti della Casa di Savoja figura come quella del Giannone. Francesco di Bonivard, priore di San Vincenzo a Ginevra, di gran nobiltà savojarda e coltissimo, inchinava a' Riformati, e molto cooperò a spinger Ginevra nell'alleanza con Berna. Perciò dal duca di Savoja era odiato. Volendo egli andar a trovare sua madre ammalata a Seyssel, domandò un salvocondotto, ma nel ritorno fu côlto e gettato nel castello di Chillon, ove stette quattro anni finchè i Bernesi lo liberarono. [117] Le ultime opere che conosciamo intorno a Calvino sono: BUNGENER, _Calvin, sa vie, ses œuvres et ses écrits_. Ginevra 1862. _Geschichte des französichen Calvinismus bis zur national Versammlung in Jahre_ 1789 _von_ GOTTLOB VON POLENZ. Gotha 1857 e seg. MAGNIN, _Hist. de l'établissement de la réforme à Genève_. CH. CHARRONNET, _Les guerres de réligion et la société protestante dans les Hautes Alpes_ (1560-1789). Gap 1861. P. CHARPENNE, _Hist. de la réforme et des réformateurs de Genève, suivie de la lettre du cardinal Sadolet et de la réponse de Calvin_. Avignone 1860: è in senso cattolico. J. GABEREL, _Hist. de l'Eglise de Genève depuis le comencement de la reformation jusqu'en 1815_. Ginevra 1855, 1858 e 1862. [118] Non facea che dar aspetto legale a queste dottrine Rousseau, allorchè sosteneva che tocca al Governo stabilir la religione civile: che il sovrano, senza poter obbligare nessuno a creder gli articoli della fede civile, può bandire chiunque non li crede. Se alcuno, dopo riconosciuti pubblicamente questi dogmi, si conduce come se non li credesse, sia punito di morte. _Contrat Social_, liv. IV, c. 8. Giudicando l'opera di Bonnet sopra Calvino, Ernesto Renan parlò lungamente di questo, trovando affatto naturale la sua intolleranza. Ne leviamo alcune linee: «Quella inflessibilità che forma il carattere dell'uomo d'azione, Calvino l'ebbe più d'ogni altro. Non so se si troverebbe un tipo più compiuto dell'ambizioso, geloso di far trionfare il suo pensiero perchè lo crede vero. Niuna cura di ricchezze, di titoli, d'onori: non fasto: vita modesta: apparente umiltà; tutto sagrificato al proposito di formar gli altri a sua similitudine. Solo Ignazio di Lojola potrebbe disputargli la palma: ma il Lojola vi metteva un ardore spagnuolo e un impeto d'immaginazione che hanno la loro bellezza: restò sempre un vecchio leggitor dell'_Amadigi_, che dopo la cavalleria mondana, seguiva la cavalleria spirituale, mentre Calvino ha tutte le durezze della passione, senza averne l'entusiasmo... Fa meraviglia che un uomo sì poco simpatico, sia stato al suo tempo il centro d'un movimento immenso... e che una delle donne più illustri del suo tempo, la Renata di Francia, nella sua Corte di Ferrara circondata dal fior de' letterati, s'invaghisse di questo maestro austero, e s'avviluppasse per lui in una strada così spinosa... «Conseguenza inevitabile del carattere e della posizione di Calvino fu l'intolleranza... Pare una contraddizione che Calvino, reclamando focosamente la libertà per sè e suoi, la ricusasse poi agli altri. Eppure ciò va di suo piede: credea diverso dai Cattolici, ma assoluto quant'essi. La libertà di credere, il diritto di formarsi un simbolo da sè, non era apparso ai Protestanti del XVI secolo... Quello zelo violento che trae l'uomo convinto a procurar la salute delle anime con mezzi poderosi e senza badare alla libertà, traspira da tutte le lettere di Calvino... Come i Cattolici, reclama la tolleranza non a nome della libertà, ma della verità. — Le violenze sue contro Serveto, Bossec, Gruet, Gentile ed altri non faceano meraviglia; erano di diritto comune. «La moderazione e la tolleranza, virtù supreme d'età critiche come la nostra, non istarebbero in un secolo dominato da convinzioni ardenti e assolute. Era la fede che in Ispagna e ne' Paesi Bassi accendeva i roghi, e alzava patiboli: quelle ecatombe offerte alla verità (cioè a quel che credeasi tale) hanno la loro grandezza, e non s'ha da esagerare nel compianger coloro che soccombettero in questa lotta grandiosa, dove ciascuno combatteva pel suo Dio: la fede gli immolò, siccome la fede li sostenne... Come creder a mezzo quello per cui si è perseguitati? Qual fede vacillante non diverrebbe fanatica colla tortura? La gioja di soffrir per la sua fede è talmente grande, che più d'una volta si videro nature passionate abbracciar opinioni pel gusto di sacrificarvisi». [119] _Monumenta Vaticana_ LXXXIV. [120] Delle buone relazioni del Sadoleto con Melantone e delle speranze della costui conversione è curioso testimonio una lettera del nunzio Girolamo Rorario al cardinal Verulano, da Pordenone il 21 febbrajo 1539: «Scrissi alli 17 del presente al reverendo Sadoleto e a vostra signoria illustrissima significandole come don Michele Brazetto mio compatriota, già mesi tre, partì da qui per Vittemberga, dove si è con gran familiarità intrinsecato con Filippo Melantone, di modo che gli ha aperto tutto il cor suo, ed ha fatto conoscere la bona mente sua verso la sede apostolica: e di ciò etiam ne porta testimonio con una sua, scritta al reverendo Sadoleto in risposta d'una di sua santità reverendissima. Ed io ne tengo fermezza grande, fondata sopra un natural presupposito, che essendo lui il più dotto di Germania; e in altri luoghi ancora avendo pochi pari, è da giudicare che lui conosce la via della verità: la qual conoscendo, e ritrovandosi in povertà grande, ed aver un figlio, non è da credere che lui voglia viver povero e dannato, e lasciar il suo figlio in la medesima e maggior dopo lui povertà e dannazione, possendo provveder all'uno e all'altro. E tanto più quanto da chi l'ha conosciuto è stato conosciuto per modestissima persona: e Dio volesse gli altri arrabbiati d'Alemagna fossero stati simili a lui! E io mi ricordo in Augusta all'ultima Dieta, Melanton cercando poner pace e riconciliar la Germania alla sede apostolica, scrisse una sua, ancorchè fosse presente a M. Luca Bonfilio, allor secretario del reverendissimo Campeggio, ricercando gli fosse concesso tre cose: comunicare _sub utraque specie_; matrimonio de' sacerdoti; del terzo non mi ricordo, ma mi par era cosa più leggiera di ciascuna di queste due: e prometteva che del resto s'aquieteriano, ed io parlandone col reverendo Campeggio, mi rispose in conclusione che conosceva le domande non esser tali che la sede apostolica gliele potesse senza scandalo concedere: ma che li conosceva ghiotti, e che quando avesse concesso questo, non stariano contenti, e domanderiano etiam delle altre cose, persuadendo alli popoli che, così come erano stati gabbati in queste, non altrimenti erano nel resto....» (_Archivio vaticano, Nuntiatura Germaniæ_, VIII). [121] _Comme ainsi soit que par ton excellente doctrine et grace merveilleuse en parler tu ayes (et à bon droit) mérité qu'entre les gens savans de nostre temps tu sois tenu comme en grande admiration et estime, et principalement des vrais sectateurs des bonnes lettres, il me desplait merveilleusement qu'il faille que, par cette mienne expostulation et complainte qu'à présent pourras ouir, soye contraint publiquement toucher et aucunement blesser icelle tienne bonne renommée et opinion._ Vedasi il nostro vol. III, p. 153, e JOLY, _Étude sur Sadolet_. Caen 1856. [122] Registro della Chiesa italiana. «Bernardino di Seswar, uomo dotto, desidera predicar pubblicamente la parola di Dio in italiano, si risolve di dargli posto nella cappella del cardinale a San Pietro per un po' di tempo, poi potrà esser messo a San Gervaso». _Registri_, 13 ottobre 1542. Troviamo questo passo in Picot, _Istoria di Ginevra_, ma noi, alla nota 17 del Discorso XXIII, supponemmo deva dire Bernardino di Siena. L'errore stesso tornerebbe ove Calvino dice: _Bernardinus de Seswar, primus pastor ecclesiæ; italicæ, quæ Genevæ, mense octobris_ 1542, _erecta est in gratiam Italorum qui se huc, evangelii causa, receperant_; e lo loda per la vigorosa guerra che moveva all'anticristo. _Epistola Calvini Vireto._ [123] Amsterdam 1686, parte III, lib. III. [124] Parte III, lib. I. [125] Dai registri di Stato copiati da Galiffe, _Notices généalogiques_. [126] Fra i tanti libri di colà conosciamo _Antithesis Christi et Antichristi, videlicet papæ, versibus ac figuris venustissimis illustrata_. Genevæ 1578, in-8º piccolo con 36 figure in legno. [127] Bolla _Dilectum filium_, 14 giugno 1560. [128] Nel 1865 a Uster, canton di Zurigo, il pastore Vögelin scandalizzò gli ortodossi co' suoi ardimenti, sicchè sessanta ministri zuricani gli opposero una dichiarazione pubblica, dove lo accusano di non aver nè predicazione, nè dottrina cristiana evangelica; di scalzare l'autorità della sacra scrittura e il rispetto dei popoli pei documenti sacri della rivelazione; di negar la divinità e santità assoluta di Gesù Cristo e i miracoli; di indegnamente abbassar gli apostoli; di far uso arbitrario delle dichiarazioni del Salvatore; di caratterizzare la dottrina in un modo leggero e irriflessivo, ecc., e invocavano i superiori della Chiesa a frenarne la parola. Questi superiori sono il Consiglio comunale di Uster, il quale rispose che essi pastori non aveano autorità di dichiarar false le dottrine di Vögelin; usar esso della libertà sua, com'essi della loro: badassero ai doveri del loro ministero, e non a dar consigli. [129] La lista è stampata, ma con moltissimi errori, nell'opera del Gaberel, vol. I, p, 211 delle note, e va sino al 1612, in cui è notato Giovanni Lodovico Calandrini figlio di Giovanni. Per dire d'alcuni, al 1563 abbiamo Battista Curti del lago di Como, Pietro Casale e Andrea Casale di Gravedona, Giovanni Andrea Rocca di Brescia, Stefano Barbieri di Soncino, Antonio Capellaro di Modena. Nel 1564 molti di Montacuto di Calabria, e varj Piemontesi. Nel 1565 Evangelista Offredi di Cremona, nel 1567 e 68 Pietro Duca d'Alba, Francesco Micheli di Cremona, Gotardo Canale di Conegliano: nel 1573 Nicolò Tiene di Vicenza, Galeazzo Ponzone cremonese: nel 1577 Giacomo Puerari di Cremona: nel 1580 Giuseppe Giussani milanese: nel 1582 Giulio Paravicino pur milanese: nel 1587 Giacomo Antonio di Gardone bresciano: nel 1589 Giovanni Giorgio Pallavicino, Ippolito e Lodovico Sadoleto di Valtellina. DISCORSO XLIV. CONFLITTI GIURISDIZIONALI. POLITICA CATTOLICA. IL BELLARMINO. ERESIA SOCIALE. Oltre i canoni fondamentali, quali la trasmissione del carattere sacerdotale mediante una cerimonia sacra in cui è l'azione divina; la subordinazione a un capo infallibile; l'indissolubilità del matrimonio, e tutto quanto concerne la vita eterna, dove la Chiesa non bada a tempi o a luoghi, sempre identica nell'evangelizzare Cristo e il regno de' Cieli, essa ha una legislazione in ordine alla ragione civile, che tempera all'indole dei popoli e alla loro età morale. Fra tanta divergenza d'accidenti e di dogmi, unico proposito conforme dei dissidenti era l'abolire le centralità pontifizia, opponendo le nazionalità alla cattolicità, le opinioni individuali alla unità della fede, subordinando la potestà ecclesiastica alla civile, cioè la coscienza al decreto, il diritto al fatto, la libertà alla permissione, il fòro interno all'esteriore. Aveano tutto il torto? Che l'autorità deva governare le opere, non già possedere i popoli, di modo che rimangano indipendenti i due poteri nell'ordine della propria competenza, l'aveva mal compreso il medioevo quando il potere, che unico sopravvisse della società, e che unico potea frenare la prepotenza de' Barbari e proteggere il popolo era l'ecclesiastico: onde ne nacque un diritto, assentito anche da quelli cui ponea limiti, e che difendeva i deboli o per podestà immediata e diretta, o per derivata dal pontefice[130]. Questo elevarsi de' pontefici sopra i sovrani anche pel temporale parve trascendesse il precetto del «Rendete a Cesare quel ch'è di Cesare»; i cesaristi non negavano il diritto canonico, bensì discutevano se dovesse essergli subordinato il diritto pubblico: e Dante, un de' monarchici più assoluti, prescriveva che _illa reverentia Cæsar utatur ad Petrum, qua primogenitus filius debet uti ad patrem_. Via via però che i governi ripigliarono ordine e vigore, andavasi ritogliendo alla Chiesa quel che la necessità dei tempi v'aveva aggiunto di là dalla sua competenza essenziale divina: ma l'atto effettivo della Riforma consistette nel fare l'opposto, sovrapponendo il temporale allo spirituale fin a dimenticare di render a Dio quel che è di Dio. Le nazioni, cioè quei pochi che arrogansi di parlar in nome d'esse, non volevano più l'unità teocratica; volevano costruire lo Stato indipendentemente dalla Chiesa; e la protesta sembrò un legittimo sforzo per isvolgere l'inviolabilità della coscienza dal diritto ancora oscuro dalla società moderna. L'errore consistette non nell'emanciparsi dai vincoli curiali, bensì nell'istituire Chiese distinte, nazionali, foggiate secondo il bisogno civile. Era un frantendere la gran lite fra la Chiesa e lo Stato; tanto più che non trattavasi d'affrancar l'anima del cittadino, bensì di ridurlo più servo, retrocedendo fin al paganesimo. Di primo acchito i principi s'accorsero qual partito potessero trarre dalla Riforma, concentrando in sè i poteri della Chiesa, e incamerandone i beni; fra i Luterani restò convenuto dover un paese avere la religione che volesse il principe; Grozio assegna come primario diritto maestatico l'imporla: _in arbitrio est summi imperii quænam religio publice exerceatur; idque præcipuum inter majestatis jura ponunt omnes qui politica scripserunt_. Ciò importa, secondo il Böhmer, il diritto di costituire i dottori, di prescrivere i riti, di riformar le cose sacre e la disciplina, di dirigere l'insegnamento e la predicazione, di usar nelle cose sacre la giurisdizione criminale e civile e penale, di decider le controversie religiose, di convocare i concilj, di designar le diocesi e le parrocchie. Tirannide la più completa se mai fosse stata applicata nella pienezza delle sue conclusioni e non ristretta dalle costituzioni scritte, alle quali fu duopo ricoverarsi dopo tolto quel supremo custode della verità, della giustizia, del diritto. Così alla monarchia cattolica del medioevo sostituivasi la monarchia politica moderna, coll'unità e universalità del pubblico potere. Quel che i Protestanti avevano conseguito di colpo coll'aperta ribellione, i Cattolici s'ingegnarono ottenere con mezzi termini, accordando la coscienza coll'ambita onnipotenza. Principi che avevano declamato contro gli abusi non sapeano acconciarsi ai rimedj, e contro le decisioni tridentine accampavano le ragioni del principato: onde nuovi dissensi vennero a turbare il seno della Chiesa romana. Quanto ai dogmi, nessun Cattolico poteva impugnare l'autorità irrefragabile del Concilio; ma v'aveva articoli che toccavano la società secolare. Perocchè i prelati tridentini poco si curarono della parte legittima spettante alla politica, e presero per ribellione a Dio ciò ch'era una riscossa contro l'arbitrio dei poteri umani. Sbigottiti dall'attacco recato all'attribuzione loro più sublime, i papi non pensarono più che a difendersi, tantochè, invece di continuare a capo del progresso come erano stati fin allora, parve si atteggiassero in opposizione o almeno in sospetto di esso, dacchè vedevanlo staccarsi da loro; severità affatto precarie, e volute dalle circostanze, presero l'aria d'una missione sacra e durevole: e l'Italia, nel punto che cessava di essere il centro dell'unità religiosa, scadde da maestra delle civili dottrine. Ma al primo momento, tratti a sè tutti gli elementi della vita morale e intellettuale, e rifattasi vigorosa col precisare il dogma ed emendare la pratica, e posar come assolute le sue verità, e negando che fuori di queste si dia salute [131], Roma non solo represse nelle genti latine la propensione alla Riforma, ma volle ricondurre alla sua obbedienza i traviati; e ripigliata l'offensiva, parve resuscitare i tempi della sua prevalenza. Anche in questo punto correggendo il paganizzamento della società, avrebbe voluto togliere ogni diversità interna di chiese distinte, di riti nazionali, credendo prova di forza l'esigere di bel nuovo quell'unità assoluta, che dapprincipio aveva salvato la civiltà. Come le reliquie d'un esercito scompigliato si rannodano allo stato maggiore, così i Cattolici sentirono la necessità di stringersi al papa: e principalmente i Gesuiti, animati dall'alito del ringiovanito cattolicismo, si applicarono a sostenere il solo pastore, attorno a cui dovea formarsi un solo ovile. La stampa avea mostrato un'inaspettata potenza facendosi aggressiva e dissolvente sotto la bandiera della Riforma per iscassinare i poteri stabiliti, le sovranità riconosciute, e ridurre all'intelligenza comune, le objezioni accumulate da quindici secoli contro il cattolicismo; e mentre prima o morivano coll'uomo che aveale inventate, o restavano fra teologi ed eruditi, allora ottenne che la religione non fosse più sovrana dell'opinione, ma le contraddizioni e gli attacchi, giusti o ingiusti, venissero accreditati ed estesi. I Cattolici vollero da un lato porre un argine a' suoi eccessi, dall'altro adoprarla ad assodare e ricostruire; e stupendi scrittori comparvero anche nel campo nostro, non solo profondi di dottrina, ma anche abili a spiegarla e diffonderla, e nuovo grandioso campo s'aperse alla letteratura teologica e storica nel propugnare l'autorità e le ragioni di Roma. Ma poichè il protestantismo aveva implacabilmente osteggiato la santa sede, gli apologisti si volgevano di preferenza a difenderla. Melchior Cano che pel primo fece un trattato _De' luoghi teologici_, sostenendo i diritti del sopranaturale e della rivelazione, appoggia la fede sulle profezie e i miracoli: pure anche in esso e nei seguaci suoi trattasi della Chiesa e del papato, più che delle prove e de' caratteri della rivelazione. Le Decretali si diceano il codice della tirannia papale, a scapito dell'autorità dei vescovi [132]. La severa critica dell'età nostra fe ragione delle tante baje spacciate in proposito delle false, riconoscendo che in fondo esse non istabilirono verun punto il quale già non fosse convenuto; e che dirigevansi a sostenere l'indipendenza de' vescovi, a fronte de' metropoliti; e ciò, non coll'inventare documenti, bensì col raccogliere brani di costituzioni, e di lettere, o regie, o pontificie, che già aveano vigore, e darvi forma di legge. Pio IV elesse una congregazione che le coreggesse, rintegrando ciò ch'era mutilato, sceverando lo spurio dal sincero, e riassettando la cronologia. Dissipate le false Decretali, l'autorità pontifizia si trovò più solida perchè più misurata, e venne rigenerato il diritto ecclesiastico, il cui corpo si potè pubblicare sotto Gregorio XIII. La baldanza d'un recente trionfo, o lo sforzo di chi dissimula la sconfitta apparve nel ridestare, in un secolo di dubbio e di negazione, le pretensioni che, in una età organica, aveano accampate Gregorio VII e Innocenzo III, e asserire di nuovo il predominio illimitato della Chiesa sopra lo Stato; il papa superiore a qualunque giudizio, e decaduto il re che uscisse dal grembo cattolico. L'atto formale di queste pretensioni fu la bolla, detta in _Cœna Domini_ perchè doveasi leggere solennemente ogni giovedì santo. Antica e più volte aumentata, ebbe l'ultima mano da Paolo V, e suole citarsi come il massimo dell'arroganza papale. Tralasciando i punti di minor rilievo, e spogliandola delle frasi adatte al tempo e alla curia, essa in ventiquattro paragrafi scomunica gli eretici di qualsia nome, e chi li difende, o legge libri loro, o ne tiene, ne stampa, ne diffonde; chi appella dal papa al Concilio, o dalle ordinanze del papa o de' commissarj suoi a' tribunali laici; i pirati e corsari nel Mediterraneo, e chi depreda navi di Cristiani naufragate in qualunque siasi mare; chi impone nuovi o rincarisce antichi balzelli o tasse o pedaggi a' suoi popoli; chi somministra ai Turchi cavalli, arme, metalli, o altre munizioni da guerra, o vi dà consigli; chi offende nella persona i cardinali, patriarchi, vescovi, nunzj, o li caccia dalle proprie terre; o giudici e procuratori deputati sopra cause ecclesiastiche, o vieta di pubblicar le lettere apostoliche o i monitorj; chi le cause o le persone ecclesiastiche trae al fôro secolare, e fa leggi contro la libertà ecclesiastica, o turba i vescovi nell'esercizio di loro giurisdizione, o mette la mano sopra le entrate della Chiesa e i benefizj, o impone tasse al clero; chi turba i pellegrini diretti a Roma, o che ivi dimorano o ne tornano; chi occupa o molesta il territorio della Chiesa, compresevi Sicilia, Corsica, Sardegna; e così le Marche, l'Umbria, il principato di Benevento, Avignone, il contado Venesino, e insomma quanto alla Chiesa spetta _di fatto_. Estendesi la scomunica ai vasi d'oro e d'argento, vesti, suppellettili, scritture, beni del palazzo apostolico; e non se ne darà l'assoluzione se prima non siasi desistito dal fatto, o cassati gli atti contrarj alla libertà ecclesiastica, distruggendoli dagli archivj e dai libri; nè qualsivoglia privilegio o grazia valga perchè possa uno venirne assolto che in articolo di morte, e anche allora deve dar garanzia di pentimento e soddisfazione. La condanna colpisce pure chi impedisse di pubblicare o attuare la bolla. Le riazioni trascendono sempre, e in guerra armata o inerme il miglior difendersi è l'attaccare. Se non che a condiscendere trovavansi poco disposti i principi, i quali reluttarono contro il sinodo tridentino, e accettandolo fecero riserva per le consuetudini e le leggi de' loro Stati; e il frangere le barriere, al potere assoluto opposte dall'immunità clericale, e cincischiare la giurisdizione ecclesiastica, divenne l'intento di ciascuno Stato, parendo ai re che, per trovarsi davvero indipendenti, non dovessero lasciar veruna ingerenza ad altri nel proprio paese, nè consentirvi autorità che non fosse accentrata nel Governo. Sino i più cattolici, impuntatisi in tali pretensioni, talvolta sbigottirono i papi col minacciare d'abbandonare la messa per la Cena e pel sermone; e con questi spauracchi li ridussero alla loro volontà. Altri, senza spingersi tanto oltre e rinnegando la logica, procuravano dipendere il meno possibile da Roma, solleticavano le ambizioni nazionali, e a titolo d'indipendenza tendevano ad isolare i sacerdoti dei loro Stati dagli altri, impedire le comunicazioni dirette col capo spirituale, formando speciali Chiese, necessariamente docili al potere locale per cui concessione esistevano, e che un moderno chiamò aborti del protestantismo[133]. La superiorità dei Concilj al papa, pretesa in quelli di Costanza e Basilea, fu ritenuta dai Tedeschi; i Francesi ne fecero il cardine delle libertà gallicane, riconoscendo infallibile il papa sol quando sia unito al consesso della Chiesa[134]. Ma anche nella Chiesa gallicana non disputavasi della libertà individuale, bensì della distinzione delle due potestà e della loro indipendenza; non facendosi cenno della libertà di coscienza. Ora, l'ammettere un'opposizione non è un rinnegare i contendenti; se anche non si riesca ad accordarli, la Chiesa e lo Stato esistono, giacchè si contrastano. Perchè mancassero appigli alle declamazioni contro l'avidità de' prelati, era stabilito che delle ricchezze loro non ereditassero i parenti, bensì la Chiesa romana; onde il papa mandava collettori per tutto il mondo. Ed ecco derivarne controversie e dispute inestricabili cogli eredi e colle chiese stesse, turbarsi i possessi, e viepiù sotto papi rigorosi come Pio V. Dall'invigilare all'adempimento dei legati pii, i vescovi traevano ragione di voler vedere i testamenti, ma con ciò scoprivansi i secreti di famiglia, e fisicavasi sulle frodi supposte, come poi fecero i governi moderni. La proibizione del concubinato portava a ricorrere alla forza per isciogliere temporarie unioni, e le curie volevano all'uopo valersi di birri e carceri proprie. Tutto ciò parve usurpazione ai Governi, e l'andarono impedendo fin al punto che, quasi il pontefice fosse uno straniero, il quale pretendesse invadere colla sua universale la giurisdizione particolare del principe, si sottoposero gli atti suoi e i suoi decreti a esame, a ordini di esecuzione e di placitazione[135], dopo esaminato se ne rimanessero «salvi i diritti dello Stato». La bolla poi in _Cœna Domini_ fu ripudiata da alcuni, da altri accettata col proposito di modificarla nell'applicazione; Venezia la ricusò, per quanto il nunzio insistesse; l'Albuquerque governatore di Milano vi negò l'_exequatur_; a Lucca non si teneano obbligatorj i decreti dei funzionarj papali senza approvazione del magistrato; i duchi di Savoja conferivano benefizj riservati al papa: i vescovi di Toscana lasciavano ammollire nell'applicazione que' tremendi decreti. Ma i frati la zelavano a rigore; guai a parlare di tasse sui beni ecclesiastici! negando l'assoluzione a magistrati, cagionarono tumulti ad Arezzo, a Massa marittima, a Montepulciano, a Cortona. E sparnazzavasi il nome d'eretici, tale considerando chi disobbediva a un ordine papale. A Genova era proibito tener assemblee presso i Gesuiti, pretestando vi si facessero brogli per le elezioni; l'Inquisizione vi fu sempre tenuta in freno, e dopo il 1669 sottoposta alla giunta di giurisdizione ecclesiastica. Stefano Durazzo arcivescovo, martire della peste del 1556, interminabili dispute sostenne col doge sul posto che gli competesse nel presbitero, e sul titolo d'eminenza; non soddisfatto, negò coronare il doge, e la lotta si prolungò anche dopo che l'arcivescovo ebbe abdicato. I governatori di Milano alle riforme di Carlo Borromeo opponevano i diritti regj, e quel senato i privilegi della Chiesa milanese; e Pio V scrivendogli gli rammentava che _nulla re magis sæcularis potestas stabilitur et augetur, quam amplificatione et autoritate ecclesiasticæ ditionis; quidquid ad spirituale patrimonium firmamenti et virium accedit, eo temporalis status maxime communitur; nam observantia et pietas principum et magistratuum in ecclesiarum antistites, populos ipsis adeo praebet obedientes, ut fatendum sit regnorum ac statuum incolumitatem uno illo ecclesiastici juris præsidio tanquam fundamento contineri, quod utinam contrariis ad multorum exitium exemplis non pateret_. Già dicemmo di san Carlo. Il suo cugino e successore Federico Borromeo due volte per queste dispute dovette viaggiare a Roma; minacciò di censure chi trafficasse con Svizzeri, e Grigioni eretici, e scomunicò il governatore perchè, col proibire le risaje nelle vicinanze delle città, arrogavasi giurisdizione su possessi ecclesiastici[136]. Il regno di Napoli se ne trovava viepiù compromesso, attesa la sua feudale dipendenza dalla Santa Sede. Filippo II re di Spagna con qualche restrizione ricevette i decreti del Concilio tridentino, e il 2 luglio 1564 ordinò al vicerè di Napoli, di pubblicarli perchè fossero osservati anche in questo paese, protestando però non si derogava con essi alle preminenze regali, nè ai patronati regj, od altri diritti della sovranità. Esaminatili, il reggente vi trovò molti punti che pregiudicavano tali diritti. Così il Concilio infligge scomunica e multa a chi stampa libri sacri senza licenza del vescovo; or se alla Chiesa spetta la censura, spetta al principe il consentire o no la stampa. Per certi casi si dà licenza ai vescovi di procedere contro ecclesiastici e secolari colla scomunica non solo, ma collo sfratto e con pene pecuniarie anche forzose: ora l'esecuzione è attributo regio. Ad essi vescovi è pure conferito l'approvare i maestri e professori, e con ciò s'intacca l'autorità del principe e delle Università. Per fondar nuove parrochie o seminarj, il vescovo può imporre decime, oblazioni, collette sul popolo; mentre questo diritto è inerente alla sovranità, e non alla podestà ecclesiastica. Così la visita e amministrazione di tutti i luoghi pii e spedali e confraternite, il rivederne i conti, il commutar la volontà de' testatori, l'imporre pene ai laici e patroni che malversino le rendite e ragioni di loro chiese, il sottrarre ai tribunali secolari i chierici tonsurati, sono atti che assottigliano la giurisdizione civile. In quel regno, per abitudine antica, le censure ingiuste o nulle erano fatte revocare, e ciò il Concilio proibiva; come colpiva di scomunica e fin privazione di dominio i principi che permettessero il duello; ai combattenti e padrini, oltre la censura, infliggeva la confisca dei beni e perpetua infamia. Pertanto il Concilio fu lasciato divulgare, ma senza pubblicazione solenne, e si tenne in non cale ogni qual volta paresse pregiudicare la regalia; nè bolla o rescritto di Roma valea senza l'_exequatur regium_, e poichè il papa di ciò si offendeva, Filippo II gli scrisse non volesse porsi all'avventura di veder di che cosa fosse capace un re potente spinto all'estremo. Nuovi urti cagionò la bolla _in Cœna Domini_, alla quale il vicerè duca d'Alcala risolutamente si oppose, fino ad arrestare i libraj che la stampassero; fu condannato alle galere uno che aveva pubblicato l'opera del Baronio contro il privilegio d'esenzione, chiamato la Monarchia Siciliana, pel quale al re competevano le divise e i diritti di legato pontifizio [137]. Di rimpatto i vescovi pretendeano giurisdizione sui testamenti, e per qualche tempo tenere i beni di chi moriva intestato, applicandone una parte a suffragio del defunto: nei casi misti, cioè di sacrilegio, usura, concubinato, incesto, spergiuro, bestemmia, sortilegio, potesse procedere il fôro ecclesiastico o il secolare, secondo che all'uno o all'altro fosse prima recata la querela; donde inestricabili altercazioni. Il popolo vi trovava il suo conto, perocchè nel 1582 essendosi messa la gabella d'un ducato ad ogni botte di vino, il cappuccino frà Lupo uscì minacciando di grave castigo celeste quei che la pagassero o la esigessero. Pensate se vi si diede ascolto: tanto che fu dovuta sospendere. Nè pochi vescovi proibivano l'esazione delle gabelle nella loro diocesi, in forza di quella bolla: e la Piazza di Nido a Napoli ricusò un dazio nuovo, perchè non approvato dal papa. E il papa vi dava rinfranco, e minacciava interdire la città; fu respinto dal confessionale e privato del viatico chi, ne' consigli vicereali, aveva opinato in contrario, e il famoso reggente Villani a stento ottenne l'assoluzione in articolo di morte. Per tal operare i doveri di suddito trovavansi in conflitto con quelli di cristiano, nè vedeasi via di composizione. S'aggiungano a ciò le citazioni che faceansi alla Curia di Roma, e i visitatori apostolici che il papa mandava nel regno per esiger le decime, ed esaminare le alienazioni indebite di beni ecclesiastici, e se adempiti i legati pii; se no, trarli a vantaggio della fabbrica di san Pietro. Privilegi ecclesiastici consentiti all'autorità secolare rendevano la Sicilia indipendente da Roma, ma la sottomettevano alla Spagna e all'Inquisizione, che quivi potea più che in altro paese d'Italia, elidendo la giurisdizione dei vescovi, oppugnando la resistenza dei vicerè, e alle prepotenze de' baroni opponendo la secreta efficacia de' _foristi_ o famiglia del Sant'Uffizio. Avendo il duca di Terranuova mandato in galera un orefice ladro, di Spagna gli venne ordine di rilasciarlo perchè era forista del Sant'Uffizio, pagargli ducento scudi per indennità, e far pubblica penitenza. Essendo nel 1602 bandito un Mariano Alliata forista, il Sant'Uffizio intimò ai giudici lo ripristinassero; e non obbedito, li scomunicò; e perchè l'arcivescovo gli assolse dalla scomunica, il Sant'Uffizio scomunicò l'arcivescovo. Questi ricorre al vicerè marchese di Feria, il quale manda contro gli Inquisitori due compagnie d'alabardieri col connestabile e il manigoldo; e gli Inquisitori dalle finestre del convento scomunicano costoro e chiunque vi dà ajuto: i soldati sfondano la porta; ma trovando i frati assisi in giro e tranquilli, non osano far violenza; al fine il dissenso è accomodato ritirando l'interdetto e consegnando il delinquente agli Inquisitori[138]. I principi mal tolleravano queste restrizioni alla loro autorità, e che si avessero giudizj non solo, ma armi indipendenti dall'unità di governo che andavano introducendo. Di qui una concatenazione di litigi, che l'età nostra compassiona, ma che in fondo erano le quistioni costituzionali d'allora, dove la libertà compariva sotto le cappe pretesche, come ora in abito di avvocato e di senatore. Anticamente essa libertà non era conosciuta che in forma di privilegi, e questi erano tanti, così varj, così gelosamente protetti dalle corporazioni o dall'energia personale, che costituivano un insieme robusto e bastevole di pubbliche garanzie. La Chiesa era stata la prima ad acquistar e assicurare la sua libertà, e sovente offrì un asilo alle pubbliche o individuali, che mancavano di sicurezza. Quando la monarchia assoluta le assorbì tutte, molti popoli credettero che le immunità della Chiesa, più o meno rispettate, fossero un compenso più o meno sufficiente di quanto i principi aveano tolto, e zelarono le immunità ecclesiastiche. Taglieggiata da principi, la politica romana parve si voltasse a favorire di preferenza i popoli, perchè ragionava de' loro diritti, e ponea qualcosa di sopra all'onnipotenza dello Stato e dei re. Chi seguì le nostre disquisizioni ha potuto vedere come ella avesse sempre prediletto i governi elettivi, il suffragio popolare, la preminenza dei migliori; sempre all'assolutezza regia opposte la legge di Dio, cioè la giustizia eterna. Sottentrati i secoli princicipeschi, il diritto nuovo vi surrogava i dominj ereditarj, la onnipotenza parlamentare, cioè la supremazia del numero e della forza; e scassinata l'autorità divina, si dovette cercare nuovi fondamenti alle obbligazioni dei privati e delle nazioni. Fra i pensatori italiani che si staccarono dalla Chiesa già altrove mentovammo Alberico Gentile. Fondator della dottrina del diritto pubblico, separava questo dalla religione, volendo che le differenze di fede e di culto nulla ingerissero sulle relazioni di Stato e sulle ambascerie. Però ne' pubblicisti d'allora sentesi la riazione cattolica sebben sieno protestanti, non ostentando più le sguaiate immoralità di Guicciardini e Machiavello, l'indifferenza tra il bene ed il male, la venerazione per la riuscita qualunque ne siano i mezzi. Molti de' nostri corsero quei campi, senza lasciarvi orme insigni. Scipione Ammirato difende la Corte di Roma, e nega che da essa venga lo sbranamento d'Italia, il quale del resto egli preferisce a una «mal costante e peggio impiastrata unione», la qual non potrebbe ottenersi senza la ruina del paese. Paolo Paruta, adoratore della libertà della sua Venezia, ritrasse la guerra di questa coi Turchi, che è l'epopea della riscossa cattolica, della quale quanto egli stesso risentisse appare nel Soliloquio sopra la propria vita. Giovanni Botero piemontese, segretario di san Carlo e di Federico Borromeo, nella _Ragione di Stato_, una teorica intera della economia dello Stato fonda sul Vangelo, vale a dire sulla giustizia e l'umanità, in perfetta opposizione al Machiavello, che combatte sempre e non nomina mai[139]. Messo che lo Stato sia «dominio fermo sopra i popoli», giustifica troppo i mezzi di conservarlo; approva la strage del san Bartolomeo, mentre sgradisce la cacciata dei Mori di Spagna, e loda la Francia d'aver concesso libertà di culto ai Protestanti. Da orgoglio e potenza derivano i vizj del clero, che altra autorità non dovrebbe avere se non quella venutagli dalla moderazione e dal disinteresse. Nella _Regia Sapientia_ ammanisce precetti alla condotta dei re, traendoli da passi scritturali, donde forse tolse esempio d'ispirazione Bossuet alla sua _Politica tratta dalla santa scrittura_. Ma i liberali protestanti non giungevano che alla negazione, resistendo al despotismo in nome del diritto non del dovere, o zelando quel criticismo inesperto, che vede le piaghe, non la difficoltà del rimedio, e che distruggendo il rispetto, incita alla disobbedienza. Essi tacciavano i Cattolici di legittimare la resistenza agli arbitrj; di voler che anche la Chiesa partecipasse al potere, anzichè concentrarlo tutto ne' principi; di supporre qualcosa di superiore e anteriore ai patti sociali, là dove essi non deducevano le obbligazioni se non dalle leggi; d'insegnare con san Tommaso che l'obbedienza ai re è subordinata all'obbedienza dovuta alla giustizia. I teologi nostri sostenevano che la papale sovrasta alla prerogativa politica, perchè di diritto divino[140]. Se rispondeasi dover essere divino anche il diritto dei principi, altrimenti qual ne sarebbe il fondamento? essi non esitavano a rispondere, il popolo, sancendo così la sovranità di questo, cioè il diritto che Dio conferì alle società di provedere al proprio governo qualora ne manchino; non però di violare diritti acquistati, nè di sostituire il capriccio della folla alle legittime istituzioni. Personificazione di tali idee fu Roberto Bellarmino gesuita da Montepulciano (1542-1621). Secondo lui, la podestà civile deriva da Dio; prescindendo dalle forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, fondasi sulla natura umana, e non essendo insita ad alcun uomo in particolare, appartiene all'intera società. La società non può esercitarla da se medesima, onde è tenuta trasferirla in alcuno od alcuni, e dal consenso della moltitudine dipende il costituirsi un re o consoli o altri magistrati, come il diritto il cambiarli[141]. Fine diretto e immediato della Chiesa è l'ordine spirituale, del principe il temporale. Se il principe trascende a danno delle anime, la Chiesa dee richiamarlo, e lo può anche esautorare. La supremazia papale è sottratta da qualsiasi giudizio; essendo il papa anima della società, di cui non è che corpo la potestà temporale[142]. Però negli affari civili non deve egli maneggiarsi, salvo ne' paesi suoi vassalli; anzi è lecito resistergli qualora turbi lo Stato, e impedire che sia obbedito. Deporre i re non può ad arbitrio, se pur non sieno suoi vassalli; ben può mutarne il regno ad altri, ove lo esiga la salute delle anime, e qualora egli pronunzii, una nazione deve cessare d'obbedirgli[143]. Questo sistema giuridico insieme e storico è quel che noi esponemmo dominare ne' tempi ove professavasi regnante Cristo. Alla monarchia pura antepone il Bellarmino quella temperata dall'aristocrazia; e se pur dice che il papa può l'ingiustizia render giustizia, convien ricordarsi che Hobbes attribuiva lo stesso diritto ai re[144]. La sua opera spiacque grandemente a Napoli e a Parigi; neppure gradì a Roma, e Sisto V la pose all'Indice, ma contro il voto della Congregazione, sicchè ben tosto ne fu depennata; e ad attestarne il merito basterebbe sapere che ben ventidue opere uscirono a confutarlo[145], anzi si eressero cattedre a posta per ciò. Nel 1585 comparve un _Avviso piacevole dato alla bella Italia da un giovane nobile francese_. Secondo il De Thou è opera di Francesco Peratto, calvinista, che vi costipa quanto di peggio dissero contro del papa i classici nostri, poi altri, e sostiene ch'esso è l'anticristo, e che il ben d'Italia vorrebbe fosse sterminato. Vi rispose il Bellarmino coll'_Appendix ad libros de summo pontifice, quæ continet responsionem ad librum quendam anonymum_, e vi sostiene che la bellezza d'Italia «in ciò consiste, che non è contaminata da veruna macchia d'eresia nè di scisma». Eppure com'egli sentisse la necessità di riguardi e transazioni il mostrano certe istruzioni che dirigeva ad un nipote vescovo, tra il resto dicendogli: «Viviamo in un tempo dov'è difficilissimo tutelare le libertà ecclesiastiche senza incorrere nell'indignazione dei poteri secolari. D'altro lato, se noi siamo timidi o negligenti, offendiamo Dio stesso e il glorioso suo vicario. Bisogna col nostro modo di operare mostrar ai principi e ai loro ministri che non cerchiamo occasioni di cozzare con essi, ma che il solo timor di Dio e l'amore del suo nome ci determinano a difendere le libertà della Chiesa. L'esserci avvolti in un combattimento legittimo non ci tolga d'apprezzare la benevolenza de' principi del secolo». Il Bellarmino, già predicatore cercatissimo a ventidue anni, da san Francesco Borgia spedito all'Università di Lovanio per opporsi all'eresia serpeggiante, vi fu consacrato sacerdote; combattè Bajo che deviava in punto alla Grazia, e continuò a predicare e istruire finchè per titolo di salute si restituì a Roma. Nelle _Dispute delle controversie della fede_ espone prima l'eresia, poi la dottrina della Chiesa e i sentimenti de' teologi, rinfiancandoli non con argomentazioni, ma con testi della Scrittura, dei Padri, de' Concilj e colla pratica; infine confuta gli avversi. Modello d'ordine, di precisione, di chiarezza, scevro dalle aridità e dal formalismo di scuola, se sbaglia talvolta sul conto degli scrittori ecclesiastici, non ancora passati al vaglio d'una critica severa, sa arditamente ripudiare scritti apocrifi; non inveisce contro gli avversarj, ma appoggiato all'autorità di teologi, li ribatte con chiara e precisa verità; e Mosheim, uno dei più accanniti campioni dell'eterodossia, pretende che «il candore e la buona fede di lui lo esposero a' rimbrotti de' teologi cattolici, perchè ebbe cura di raccogliere le prove e le objezioni degli avversarj, e per lo più esporle fedelmente in tutta la loro forza». Uno de' tanti libelli usciti contro di lui narrava come, straziato dai rimorsi, fossesi condotto alla santa casa di Loreto a confessare sue colpe: ma uditene alcune, il penitenziere lo cacciò come irreparabilmente dannato, sicchè cadde per terra, e fra orribili scontorcimenti perì. Ciò stampavasi mentr'egli viveva in umiltà laboriosa; ammirato per disinteresse e umiltà, in tutt'Europa volava il suo nome e traducevasi il suo catechismo; un Tedesco venne apposta a Roma, con un notajo attese presso la casa dove il Bellarmino abitava finchè questi uscisse, fece rogar atto d'averlo veduto, e di ciò glorioso tornò in patria: il papa lo creava cardinale _quia ei non habet parem Ecclesia Dei quoad doctrinam_. E morendo santamente, professava non solo tener tutta la fede cattolica, ma nel punto controverso della Grazia pensare come i Gesuiti[146]. Anche l'altro gesuita Santarelli insegnava poter il papa infliggere al re pene temporali, e per giuste cagioni sciogliere i sudditi dalla fedeltà. Invano i suoi confratelli ritirarono tosto quell'opera; il parlamento di Parigi e la Sorbona, cui era stata denunziata, la condannarono ed arsero, obbligando i Gesuiti a far adesione a tale condanna, e dichiarare l'indipendenza dei principi[147]. Per queste opinioni i Gesuiti furono dichiarati nemici ai re, apostoli della democrazia, predicatori del tirannicidio, insomma precursori dell'odierno liberalismo; il quale poi alla sua volta dovea sentenziarli dispotici, oppressori del pensiero, alleati de' tiranni; e allora e adesso senza esame o senza lealtà. Nè dobbiamo tacere come Clemente VIII, in un'istruzione sull'Indice, raccomanda «si abolisca ciò che, dietro alle sentenze, ai costumi, agli esempj gentileschi, favorisce la polizia tirannica, e ne induce una ragion di Stato avversa alla cristiana legge». Ecco da qual lato stesse il sentimento più umano. Eppure corre opinione che la Riforma partorisse la libertà, e che la Chiesa nostra la esecrasse. Il vero è che, divisa da quel punto l'Europa in cattolica e protestante, cessò la comune azione civilizzatrice, e bisognò congegnare un equilibrio, che d'allora divenne la legge politica. Ridotta impotente alle più elevate attribuzioni sociali, e ristretta ognor più alla vita individuale e al bisogno di conservarsi, la Chiesa alleossi coi re, declinando dalla propensione popolare che l'avea controdistinta nel medioevo; la tirannide uffiziale, che essa avea sempre riprovata, ma che allora veniva introdotta dai principi protestanti, si comunicò pure ai cattolici; e il clero, che non poteva impedirla, pensò tornasse opportuna a frenare i dissensi baldanzosi: mentre i principi, sentendosi minacciati dalla libertà del pensiero, fecero sinonimi eretico e ribelle, e insieme li perseguitarono. Di rimpatto i fautori della Riforma e d'una libertà sfrenata e persecutrice, vedendo la Chiesa cattolica porsi dal lato della resistenza e dei regni assoluti, contro le sorgenti franchigie politiche, la denunziavano come sostegno del despotismo, inducendo quella confusione di cose umane e divine, che il secol nostro si compiace di rinnovare a sterminio della vera libertà. Mentre dunque dapprima il delitto confondeasi col peccato, il fôro secolare stava a servigio dell'ecclesiastico, alla Chiesa affluivano tributi, tasse, diritti, or tutto cambiava. I papi, spoveriti di mezzi[148], scaduti d'autorità, trovaronsi ben presto soccombenti davanti all'assolutismo organizzato e armato, dovettero rassegnarsi a molte concessioni per salvar l'essenziale, e lasciar che i principi acquistassero passo a passo le attribuzioni ecclesiastiche, che i Protestanti aveano carpite. La sanzione di tali acquisti viene espressa ne' Concordati, che sono il preciso opposto della formola assurda e micidiale, or proclamata da certuni, la separazione della Chiesa dallo Stato. La Chiesa cattolica possiede la verità tutta, la verità pura, e con essa i principj puri della giustizia e della prudenza, talchè anche nell'ordine temporale è la più opportuna alla felicità. Ma se il dominio suo è desiderabile, non sempre è possibile: mentre è necessario v'abbia una potenza spirituale, sicura, indipendente, che eserciti diritti proprj e costanti, conferitile dal divino suo fondatore. Essa riconosce a se sola l'autorità di definire, corregger gli abusi, modificare, riformare la disciplina esteriore, in quanto non si opponga ai dogmi e al gius divino. Perciò, secondando i tempi, più volte consentì privilegi, indulti, dispense, grazie, esenzioni. Finchè concernevano piuttosto il favore concesso che non il vantaggio generale della Chiesa, ebbero la forma ordinaria; ma dacchè trattossi di assicurar l'esercizio dei diritti della religione, e modificavano talune discipline per un'intera nazione, sicchè acquistavano effetto di legge obbligatoria, vestirono forma più solenne, e chiamaronsi Concordati. Furono sempre promossi dai principi per materie su cui non si estendono le loro facoltà, prendendo l'aspetto di domanda, anzichè d'esigenza; e la santa sede li sanzionò per gravi motivi, quali il libero esercizio della religione cattolica o della giurisdizione episcopale; la libera comunicazione dei fedeli col papa; l'uso dei beni; l'osservanza della disciplina ecclesiastica; la nomina de' vescovi, attribuita ai capitoli o ai principi; la cognizione delle cause ecclesiastiche e l'appello alla santa sede; l'incolumità della fede e dei costumi de' Cattolici viventi fra eterodossi, o simili intenti. Roma li considerò come liberalità de' pontefici e dovere de' principi: questi riconoscendo l'indipendenza dell'autorità ecclesiastica, quelli dando concessioni per quiete delle coscienze. Non sarebbero patti bilaterali, giacchè la Chiesa riservasi il diritto di interpretare, modificare, abrogare: pure seguono la natura degli altri contratti quanto alla durata e alla soluzione. Ma oggi, che la Riforma s'è innestata sulla ragion di Stato, una politica, sterminatrice d'ogni personalità giuridica, cassa arbitrariamente gli accordi colla Chiesa, e la vuole segregata affatto dallo Stato, protetta coll'ignorarla, in effetto perseguitata, spoglia della proprietà, dell'associazione, dell'insegnamento, e ridotta alle serene contemplazioni e a giaculatorie. Questa eresia sociale nel linguaggio nuovo adombrasi col nome di Chiesa libera, e serve alle volubili opinioni delle maggioranze politiche: anzichè accettare qual è naturalmente il dualismo umano di anima e corpo, per cui la società, attraverso alle cose mortali, pellegrina verso le eterne. NOTE [130] I confini delle due gerarchie sociali delineava insignemente nel XII secolo Ugo da San Vittore. _Illa potestas dicitur sæcularis, ista spiritualis nominatur. In utraque potestate diversi sunt gradus et ordines potestatum, sub uno tamen utriusque capite distributi, et velut ab uno principio deducti et ad unum relati. Terrena potestas caput habet regem; spiritualis potestas summum pontificem; ad potestatem regis pertinent quæ terrena sunt, et ad terrenam vitam facta omnia; ad potestatem summi pontificis pertinent quæ sunt spiritualia, et vitæ spirituali attributa universa._ De Sacramentis, lib. II, p. 2, c. 4. [131] Distinguono l'infedeltà in positiva, privativa, negativa. _Positiva_, di quelli che respingono la cognizione del vangelo: _privativa_, di quelli che per colpa lo ignorano; _negativa_, di quelli che non sentirono mai parlare della rivelazione. L'infedeltà positiva e privativa non è scusabile dalla Chiesa; ma la negativa è involontaria, e perciò non colpevole. Gesù Cristo disse: «Se non fossi venuto e non avessi parlato, non avrebbero colpa» (Jo. XV, 22). E san Paolo (_ad Rom._ X, 14): «Come crederanno a colui di cui non han sentito parlare, e come ne sentiranno parlare se a loro non si predichi?». La Chiesa condannò il dire che: «L'infedeltà, puramente negativa in quelli ai quali non è stato predicato Gesù Cristo, è un peccato». Quanto alla necessità del battesimo, il Concilio di Trento lo volle _in re vel in voto_: e il desiderio implicito si può intendere in colui che, pur non avendo conoscenza del battesimo, è nella disposizione di fare tutto ciò che Dio prescrive come mezzo e salute. Vedi GOUSSET, _Teologia dogmatica_. _Trattato della Chiesa_, parte I, capo V, art. III, N. 914. [132] Vedasi sopra, nel Discorso III. [133] A. VINET, _Essai sur la manifestation des convictions religieuses_. Parigi 1842. [134] Il Dumoulin diceva che i decreti del Concilio di Trento «non possono menomamente esser ricevuti senza violare la maestà reale e la sua giustizia senza calpestar l'autorità dei tre Stati di Francia; l'autorità della Corte e del Parlamento e la libertà del popolo cristiano». _Conseil sur le fait du Concile._ [135] L'_exequatur_ o _placet_ regio può esser considerato come una notizia che il principe prende delle mutazioni di uffizj o di cose pubbliche, che il potere universale pontifizio introduce nel dominio particolare di esso principe, e fin qui è ispezione modesta e legittima. Diviene usurpazione quando considera il papa come un principe straniero, che non ha giurisdizione sul territorio altrui se non col beneplacito dello Stato. Clemente VIII nel 1596 scriveva all'Olivares vicerè di Napoli, che «è falsa la immemorabile antichità dell'_exequatur_, anzi ne son notissime le origini e le cagioni». In fatto nacque essa durante il grande scisma, quando Urbano VI nel 1378 ordinò ai vescovi di esaminar le bolle pontifizie prima d'eseguirle, onde accertare se venissero dal papa legittimo o dall'antipapa Clemente VII. I principi usarono l'eguale cautela, ma cessata l'occasione, lasciarono ancora la libera autorità. Chi primo pose restrizione fu il Portogallo verso il 1486, di che fu avvertito seriamente da Sisto IV e da Innocenzo VIII: e i principi e i ministri colsero volentieri quest'esempio per esercitare ingerenza sulle provisioni papali, e legar la Chiesa allo Stato. Benedetto XIV, nel gennajo 1742 dirigeva in tal proposito una istruzione alla Corte di Torino, nella quale dicea tollerar la visione delle bolle e dei brevi, ma senza che vi si apponesse alcun decreto d'esecuzione; e anche dalla visione eccettuava le bolle dogmatiche in materia di fede, le bolle e i brevi che regolano il ben vivere e i santi costumi, quelle di giubilei e indulgenze, della sacra penitenzieria, e le lettere scritte dalle sacre congregazioni ai vescovi o ad altre persone per informazione. [136] Alcuni ecclesiastici impedivano di far passare le acque sulle loro terre: libertà d'acquedotto ch'è uno de' più utili statuti antichi del Milanese, e causa di tanta prosperità agricola. San Carlo, considerando _hac in re non de Ecclesiæ ejusve ministrorum damno, sed de utilitate evidenti agi_, comanda di non opporvisi. Editto 21 agosto 1572. [137] È questa la più rinomata fra le delegazioni fatte dal pontefice a secolari. Urbano II al 5 luglio 1098 avrebbe dato a re Roggero e suoi successori le facoltà di legato a latere, e di eleggere loro vicarj col titolo di giudici della Monarchia; avendo così giurisdizione sopra i vescovi, sino a poter annullare interdetti e scomuniche e le sentenze loro, e sospenderli; annichilar le sentenze e pene pontifizie se non approvate da esso tribunale. Tanto erano esorbitanti tali concessioni, che dubitavasi della autenticità. Esaminato bene l'atto, appare che, ne' diplomi originali con cui Roggero eresse chiese e conventi, esprimeasi sempre «con intesa e per comando di Urbano II»: il Baronio dimostrò la falsità dell'atto del 1098, per lo che l'ultimo volume de' suoi _Annali_ fu escluso dalla Spagna, ed egli stesso ebbe l'esclusione da pontefice nel conclave del 1605. Per quattrocentrenta anni non se ne trova menzione, fin quando al 1513 l'avvocato Giovan Luca Barberio lo pubblicò nel _Caput brevium_, collezione dei diplomi delle Due Sicilie, non indicando donde l'avesse tratto. Nel 1578 dallo Zurita stampavasi l'_Historia Sicula_ di Gaufrido Malaterra, contemporaneo di Urbano II, nella quale esso breve era introdotto al lib. IV, c. 29, ma potrebbe esservi intruso o alterato. Carlo V se ne giovò, e nel 1526 lo facea sottoscrivere dai consiglieri di Sicilia, e pubblicare nel libro _De Monarchia_. Del resto quel breve porta _quod omni vitæ tuæ tempore, vel filii tui Simonis, aut alterius, qui legitimus tui hæres extiterit, nullum in terra potestatis vestræ, præter voluntatem aut consilium vestrum, legatum romanæ Ecclesiæ statuemus: quinimmo, quæ per legatum acturi sumus, per vestram industriam legati vice exhiberi volumus_, ecc. Valea dunque soltanto per esso Roggero e pel suo primogenito Simone, o per l'altro figlio. Eppure di là vennero interminabili contese, tratto tratto sopite con particolari concessioni di papi; massimamente Clemente XI colla costituzione del 1715 _Romanus pontifex_ provide a reprimere i grandi abusi, e meglio Benedetto XIII fissò i limiti de' poteri della Monarchia. Carlo VI violò subito il concordato, e in appresso i re se ne fecero appoggio onde pretendere come legali quelle invasioni che in Toscana e altrove si faceano sopra l'autorità ecclesiastica, e s'andò via via ampliando, sin a vedersi nel 1860 Garibaldi sedere sul trono, e ricevere l'incensata. Vedi _La Sicilia e la Santa Sede_. Malta 1865. [138] Cronaca manuscritta nella biblioteca comunale di Palermo, 2. q. E. 55. [139] Lo dichiara negli _Uffizi del Cardinale_, lib. I, p. 64. [140] Questa teorica fu, ai dì nostri, ravvivata dal Gioberti nel _Primato_ e nei _Prolegomeni_. Il padre Ventura disse che «il potere politico dev'essere subordinato all'ecclesiastico quanto il domestico al politico». Vedasi anche AUDISIO, _Diritto pubblico della Chiesa e delle genti cristiane._ Vol. 3. Roma 1863. [141] De laicis, lib. III, c. 6: _Certum est politicam potestatem a Deo esse... Jus divinum nulli homini particulari dedit hanc potestatem; ergo dedit multitudini... Respublica non potest per se ipsam exercere hanc potestatem; ergo tenetur eam transferre in aliquem unum, vel aliquos paucos... Pendet a consensu multitudinis constituere super se regem, vel consules, vel alios magistratus... Sublato jure positivo, non est major ratio cur ex multis æqualibus unus potius quam alius dominetur..._ [142] _Summus ponfifex simpliciter et absolute est supra Ecclesiam universam et supra Concilium generale, ita ut nullum in terris supra se judicem agnoscat._ De Concilii auctoritate, cap. 17. [143] _De romano pontifice capite totius militantis Ecclesiæ,_ II, 29. _Pontifex ut pontifex, etsi non habet ullam mere temporalem potestatem, tamen in ordine ad bonum spirituale habet summam potestatem disponendi de temporalibus rebus omnium Christianorum._ [144] _Reges quæ imperent justa facere imperando quæ volent injusta._ HOBBES, De cive 112. L'opinione attribuita al Bellarmino si fonda principalmente sul _De romano pontifice_, lib. IV, c. 5; ma l'ultimo punto suole travisarsi. [145] L'_Antibellarmino_ di Adamo Scherzer; un altro di Samuele Weber, l'_Antibellarmino contratto_ di Corrado Vorstio; l'_Antibellarmino biblico_ di Giorgio Albrecht; il _Collegio antibellarminiano_ di Amando Polano; le _Disputazioni antibellarminiane_ di Lodovico Crell; il _Bellarmino enervato_ di Guglielmo Amesio; e taciamo altri, fra cui le confutazioni di re Giacomo Stuart. Anche Duplessis-Mornay scrisse il _Mistero d'iniquità o storia del papato, per quali progressi salì al colmo; che opposizione gli fece la gente dabbene di tempo in tempo, dove si difendono i diritti degli imperatori, re e principi cristiani contro le asserzioni de cardinali Bellarmino e Baronio_. Saumur, 1611. [146] Dopo altri, Agostino e Luigi De Backer stamparono a Liège, nel 1853 e seguenti, in sette grossi volumi la _Bibliothéque des écrivains de la compagnie de Jesus_. Il catalogo delle opere del Bellarmino còlle traduzioni e le confutazioni occupa quarantasei colonne. Molte volte furono ristampate le _Disputationes de controversiis fidei adversus hujus temporis hæreticos_. Il Bellarmino, a istanza del cardinale Tarugi, compose la _Dottrina cristiana breve_: e per ordine di Clemente VIII la _Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana_. Fu approvato dai più insigni teologi e dai papi, e dal Concilio romano del 1725: e attaccato dai Giansenisti, massime da G. B. Guadagnini; contro del quale Francesco Gusta scrisse la _Difesa del Catechismo del vener. cardinal Bellarmino_, Venezia 1799. [147] A questo concetto del deporre i re da un pezzo rinunziarono i papi. Il 23 giugno 1791 il cardinale Antonelli, prefetto della Propaganda dirigeva una nota ai vescovi d'Irlanda, ove dice: «Bisogna ben distinguere fra i veri diritti della sede apostolica e quel che maliziosamente gl'imputano. La Santa Sede non insegnò mai che si deva ricusare fedeltà a sovrani eretici, e che un giuramento prestato a re fuor della comunione cattolica deva esser violato, o che sia permesso al papa di privarli de' loro diritti temporali». I vescovi degli Stati Uniti, raccolti nel V concilio di Baltimora, mandarono al papa un indirizzo ove de' loro avversarj dicono: «Sforzansi ispirare sospetti contro i loro fratelli cattolici che versarono il sangue per la libertà di questo paese: pretendono che noi siamo sotto il dominio del papa per le cose civili e politiche, e che così dipendiamo da un sovrano straniero... Molti di noi dichiararono vigorosamente e con giuramento che il papa non esercita verun potere civile; e questa dichiarazione fu benissimo accetta da Gregorio XVI». Vedasi M. AFFRE, _Essai sur la suprématie temporelle du pape, 1829_. Questi, contro il Lamennais, dimostrò che la bolla di Bonifazio VIII è stata abrogata pochi anni dopo da Clemente V in quanto diceva che la podestà temporale fosse sottomessa alla correzione della potenza spirituale. Francesco Suarez, al quale il Grozio non sapea trovar l'eguale per acume filosofico e teologico, dimostra che sentimento comune de' giureconsulti e teologi era che il potere dei re vien loro da Dio per mezzo del popolo, e ne sono responsali non solo a Dio, ma anche al popolo. Un predicatore davanti a Filippo II a Madrid, avendo pronunziato che «i sovrani hanno potere assoluto sulla persona e i beni de' sudditi», l'Inquisizione lo processò, condannollo a penitenze e a ritrattarsi dicendo dal pulpito che «i re non hanno sui loro sudditi altri poteri se non quello accordato loro dal diritto divino e dall'umano, e nessuno che proceda dalla loro volontà libera e assoluta». Vedi BALMÈS, _Il Protestantismo paragonato al cattolicismo_. Talmente si avea gelosia delle pretendenze papali, che la _Gerusalemme conquistata_ del Tasso fu proibita dal parlamento di Parigi perchè, descrivendo le turbolenze di Francia, vi si dice nel canto XX, 77 del papa che ei solo il re può dare al regno E 'l regno al re, domi i tiranni e i mostri, E placargli del cielo il grave sdegno. [148] Il cardinale Sforza Pallavicini volea che la Corte di Roma fosse ricchissima, affine di provvedere non solo allo spirito, ma anche alle utilità secondo la carne, essendo «quell'anima che tiene in unità tanti regni, e costituisce un corpo politico il più formidabile, il più virtuoso, il più letterato, il più felice che sia in terra». Perciò richiede «torrenti di pecunia», e viver pomposo di cardinali, e proporzionato ne' vescovi; e che a Roma concorrano a servizio uomini d'ogni natura, e quei che vivono solo dello spirito, e quei che per soprapiù desiderano i beni mondani, e quei che tali beni antepongono a quelli dell'anima. DISCORSO XLV. ERETICI NEL VENETO. ACCADEMIA DI VICENZA. FRANCESCO NEGRI. GIROLAMO ZANCHI. ALTRI. Fin dal 1248 Venezia avea stabilito si punissero quelli che un concilio di prelati sentenziasse d'empietà; e nella promission ducale di Marino Morosini nel 1249, per la prima volta si legge: _Ad honorem Dei et sacrosanctæ matris Ecclesiæ et robur et defensionem fidei catholicæ, studiosi erimus, cum consilio nostrorum consiliariorum vel majoris partis, quod probi et discreti et catholici viri eligantur et constituantur super inquirendis in Veneciis. Et omnes qui illis dati erunt pro hæreticis per dominum patriarcam Gradensem, episcopum Castellanum, vel per alios episcopos provinciæ ducatus Veneciarum,_ COMBURI FACIEMUS _de consilio nostrorum consiliariorum vel majoris partis ipsorum._ Il 4 agosto 1289, ad istanza di Nicola IV s'introdusse l'Inquisizione, composta di tre giudici, che erano il vescovo, un domenicano e il nunzio apostolico: però non poteano seder a tribunale senza commissione sottoscritta dal doge: solo dal doge poteano aver ajuto nel loro uffizio: si depositerebbe una somma presso un deputato del Comune, il quale ne farebbe le spese, e ne riceverebbe tutti gli emolumenti e benefizj: vi assisterebbero tre _savj dell'eresia_, incaricati dal doge per impedire gli abusi e tener informato il Governo delle prese deliberazioni. Procedere doveano unicamente contra l'eresia; non contra Turchi ed Ebrei i quali non sono eretici; non contra Greci, perchè la loro controversia col papa non era ancora stata decisa; non contra i bigami, perchè, il secondo matrimonio essendo nullo, aveano violato le leggi civili, non il sacramento; gli usuraj pure non intaccavano alcun dogma: i bestemmiatori mancavano di riverenza alla religione, non la negavano: nè tampoco fatucchieri e stregoni doveano esser competenza di quel tribunale, salvo che si provasse aveano abusato de' sacramenti. Le ammende ricadevano all'erario, e agli eredi i beni de' condannati. Essendo denunziato un libro favorevole alle opinioni di Giovanni Huss, la Signoria lo fece ardere, e l'autore mandò attorno colla mitera in capo, indi sei mesi di prigione e nulla di peggio. Viepiù tollerante era verso gli Ebrei, come negoziatori. L'ingegnere Alberghetti nel 1490 ideò un congegno nuovo, e per applicarlo essendosi associato ad alcuni Ebrei, domandò al collegio se l'ordinanza 19 marzo 1414 relativa ai privilegi fosse applicabile anche agli Ebrei. Risposto fu che quella concessione riguardava chiunque inventasse alcuna nobile ed utile opera, non distinguendo veneti o forestieri, cristiani od ebrei, di qual fossero città o setta. Anche più tardi vietossi d'inveir dal pulpito contro gl'Israeliti, nè di obbligarli andar alla predica o portar segni umilianti. Da una autobiografia di Giovanni Bembo veneziano, scritta nel 1536 e dall'erudito Teodoro Mommsen pubblicata nel 1861, raccogliamo che sua madre Angela Corner, con altre venete matrone, il nome delle quali scomparve in una laceratura del manuscritto, assistevano alla lettura e spiegazione del vangelo in lingua vulgare, fatta da Giovanni Maria da Bologna medico. Questo, denunziato da Francesco Giorgio frate Mendicante, fu posto in carcere, da cui venne liberato dopo molti anni da papa Giulio. Ciò dovette dunque accadere ne' primi anni del secolo, e avanti che di Germania tonassero i riformatori. Al 26 agosto 1520 presentossi al senato il vicario del patriarca Contarini, esibendo la bolla pontifizia che condannava le opere e le proposizioni di Lutero, e minacciava di scomunica chi le tenesse e le professasse; e domandò di poter mandare i famigli nella libreria del tedesco Giordano, sita a San Maurizio per sequestrar di tali libri, venuti di Germania. Avutone licenza, li fece solennemente bruciare, ma già alcune copie n'erano uscite, e Marin Sanuto, autore di curiosi Diarj, dice averne avuta una, e tenerla nello studio. Il qual Sanuto racconta pure come «sul campo [149] san Stefano fo predicato per messer Andrea da Ferrara, qual ha gran concorso: era il campo pien, e lui stava sul pozuolo [150] della casa del Pontremolo, scrivan all'officio dei Dieci; el disse mal del papa e della Corte romana. Questo seguita la dottrina de frà Martin Lutero, ch'è in Alemagna homo doctissimo, qual seguita san Paolo, ed è contrario al papa molto, ed è sta per il papa scomunicato»[151]. Lamentossi il pontefice, per bocca del suo segretario Bembo, dell'impunità concessa a questo frate, e raccomandò che la Repubblica non permettesse di stampare un'opera di esso, di sentimento luterano: del che venne data sicurezza al legato; e il frate fu lasciato o fatto partire. Quell'anno stesso Burcardo Scenck, gentiluomo tedesco, scriveva allo Spalatino, cappellano dell'elettore di Sassonia, che Lutero godeva stima a Venezia, e ne correano i libri, malgrado il divieto del patriarca; che il senato penò a permettere vi si pubblicasse la scomunica contro l'eresiarca, e solo dopo uscito di chiesa il popolo. Lutero stesso per lettere [152] felicitavasi che tanti di colà avessero accolto la parola di Dio, e tenea corrispondenza col dotto Giacomo Ziegler che caldamente vi s'adoperava; come di là giungevano esortazioni a Melantone perchè non tentennasse nella fede, nè tradisse l'aspettazione degli Italiani. Al 21 marzo 1521 il consiglio dei Dieci deliberava intorno ad eretici di Valcamonica, accusati di stregheria, e rammemorando lo zelo sempre spiegato a favor della Chiesa cattolica, soggiungea doversi però in tal materia procedere con cautela e giustizia, e affidarne la procedura a persone di chiara intelligenza, di retto giudizio e superiori a ogni sospetto. Pertanto ne fossero, insieme col padre inquisitore, incaricati uno o due vescovi insigni per dottrina, bontà, integrità, e s'accordassero con due dottori laici nella confezione del processo. Finito questo senza tortura, i rei sarebbero sottoposti a nuovo interrogatorio dai due rettori di Brescia colla corte del podestà e quattro altri dottori, procedendo con ogni diligenza e circospezione prima di passar alla sentenza, e ponendo mente che la cupidigia di denaro non fosse causa di condannare o diffamare alcuno senza colpa[153]. Raccomandavano poi di mandare nella valle predicatori, de' quali que' semplici e ignoranti montesi aveano maggior bisogno che non d'inquisitori. Monsignor Aleandro scrive al Sanga da Ratisbona il 31 marzo 1532 d'un frà Bartolomeo minorita veneziano, fuggito per sospetto di luterano, e diceva, per malevolenza particolare contro lui di monsignor Teatino. Anguillava costui, chiedendo un breve del papa che lo giustificasse in modo da poter vivere tranquillo in patria, ma al tempo stesso parlava da luterano, e asseriva d'aver buone offerte dagli eretici se si desse con loro. L'Aleandro usava seco or dolci modi or aspri, ma non venendone a capo, gli parea meglio lasciarlo andare fra tante migliaja di Luterani, che non rimetterlo in Venezia, dove «avendo parenti e, per la tristezza de' tempi, molti fautori _etiam de summatibus_», potrebbe disseminar tristi germi. Più tardi troviamo costui a Norimberga in mezzo a Luterani, «che cantava di bello contro la Chiesa con parole donde nascea non piccol carico τῶν ἑνετῶν». Ove l'Aleandro soggiunge: «Da Venezia messer Roberto Magio mi stimola con lettere che io vadi colà, che è molto necessario, e grande espettazion di tutti. In una che ebbi jeri mi è scritto, che questi sono tempi da potersi far per me in quella città di buone opere[154]». Baldassare Altieri d'Aquila, stabilito in Venezia, e agente di molti principi tedeschi, ebbe comodità di diffondervi libri e idee nuove; e tanto crebbero, che nel 1538 Melantone esortava il senato a permettere vi s'istituisse una chiesa: «Voi dovete conceder, particolarmente ai dotti, il diritto d'esternar le loro opinioni e insegnarle. La vostra patria è la sola che posseda un'aristocrazia vera, durata da secoli, e sempre avversa alla tirannia: assicurate dunque alle persone pie la libertà di pensare, e non si incontri costà il despotismo che pesa sugli altri paesi»[155]. La quaresima del 47 predicò in San Barnaba un giovane servita con maggior concorso che altri mai, e parendo avesse trasgredito i modi cattolici, fu detenuto, toltigli i libri e le scritture, dal cui esame apparve «luterano e persona di grande scandalo e degna di castigo»[156]. A Venezia da Enrico di Salz e Tommaso Molk di Königsgratz fu fatta stampare una Bibbia ussita, che or trovasi nella biblioteca di Dresda[157]. Vedemmo che il Bruccioli ivi pubblicò la sua Bibbia vulgare in senso luterano. Nelle case di Giovanni Filadelfo, il 1536 e 37, vi fu stampato il «Commento sull'epistola di san Paolo, compuesto per Juan Valdesio, pio y sincer theologo»; nel 46 da Paolo Gherardo il _Beneficio di Cristo_, e per Filippo Stagnino _Le opinioni di sant'Agostino sulla Grazia e il libero arbitrio_ nel 1545 da Agostino Fregoso Sostegno. Ivi predicava l'Ochino; a Padova fece lunga dimora Pietro Martire Vermiglio, e tenne scuola lo Spiera di Castelfranco (Vol. II pag. 124): a Treviso si formò un'accolta di novatori; e in una a Venezia tennero conferenze circa quaranta persone, che spingeansi ben oltre i confini dei Protestanti. Di ciò prese ombra Melantone, e nel 1539 scriveva al senato pigliasse precauzioni contro gli Antitrinitarj, nè lui confondesse con essi; finchè n'è tempo ci proveda, perchè è fama che più di quaranta persone nella loro città e campagne ne siano infette, persone nobilissime e d'acuto ingegno[158]. Dicemmo di monsignor Della Casa, ito nunzio papale a Venezia nel 1544, e della parte sua nel processo del Vergerio. Dalle sue lettere appajono le guise che quel Governo teneva coll'autorità ecclesiastica. Al cardinale Farnese il 29 maggio 1546 scrive: «Avendo io fatto mettere prigione un Francesco Strozzi, eretico marcio, il quale si tiene che traducesse in vulgare il _Pasquillo in estasi_, libro di pessima condizione e pestifero, e sendosegli trovato adosso, quando fu preso, uno epitafio mordacissimo e crudelissimo fatto da lui contro la persona di nostro signore, ed avendo sua santità a Roma con l'oratore di questi signori fatta ogni istanza necessaria, ed io qui non mancato di tutte le diligenze possibili per potere mandare il detto Francesco a Roma, il quale è prete e stato frate dodici anni, non si è potuto avere, e finalmente il serenissimo mi ha dato tanto precisa negativa jeri mattina, che giudico non sia più da tentare questa pratica; fondandosi sopra la conservazione della giurisdizione, e mostrando quanto ciascuno Stato debba sforzarsi di mantenerla». Il 29 giugno: «Sopra Francesco Strozzi la illus. Signoria mi ha promesso stamattina di darmelo in qualunque prigione io lo vorrò; e come io l'abbia in loco comodo, farò fare quanto richiede la giustizia in caso così atroce[159]. Il 25 agosto: «Qui son molti fautori de' Luterani che spesso spesso levano rumori assai. I quali non avendo modo di ribattere, quantunque questi signori siano prudentissimi, e non diano orecchio così facilmente a ogni cosa, crescono però e si dilatano per tutto». Il 21 maggio seguente: «Io non ho ancora potuto aver risoluzione di quello ch'io debba fare del frate eretico, del quale io parlai mercoredì passato in Collegio (_in senato_) bene efficacemente, mostrando a quei signori che i rimedj ordinarj non bastavano a reprimere la malizia di questa setta, come l'esperienza dimostra tuttavia. E perchè lor sublimità furono di varj pareri, non ebbi risoluzione ferma: ed io ho molto riguardo di non pronunziar cosa che non sia poi eseguita da loro, che sarebbe poco onor di questo officio, e darebbe animo alli eretici. Averò la resoluzione lunedì, e sono assai certo che i signori deputati hanno novamente avuto ancora maggior autorità, e sono stati esortati alla severità e al rigore. Per il che io spero bene». Raccogliamo da altro luogo che quel frate fu degradato in San Marco, in abito secolare condotto nel Forte, condannato in vita; e i suoi libri e la scritture bruciati[160]. L'11 giugno 1547 lo stesso Della Casa scriveva: «Io credo che quello che sua santità ha detto al signor ambasciadore abbia fatto bonissimo frutto nella causa delle eresie, perchè due di quei signori deputati mi hanno ringraziato molto delle buone relazioni che dicono saper che io ho fatte a Roma delle persone loro, mostrando di averne infinito piacere: e la causa in se va molto bene, e spero che, con qualche destrezza necessaria, in effetto in tutta questa negoziazione di qua si sarà, con l'ajuto del santo Dio, fatto assai opportuno rimedio a questa fastidiosa e pericolosa malattia». E il 3 agosto 1549: «Sopra due eretici di Padova, per aver un poco di querela fondata contra di loro, si è commesso al vicario che faccia un poco di esamine secreto, e si vedrà di farli venir qua». Infine il 9 novembre all'eletto di Pola a Roma: «Facendo io jermattina instanza in Collegio per aver il braccio secolare per il Grisonio nelle eresie di Conegliano, il principe m'interruppe dicendo, che aveano fatto un'esecuzione molto laudabile contra quei di Digiano ecc. e che si avvertisse che i preti che si poneano in luogo dei contumaci fossero buoni, e sedessero là per sanar e correggere quanto aveano infettato questi ecc.» Nel 1546 Baldassare Archiew inglese domandava al senato licenza di rimaner in Venezia come residente per la sua nazione, e presentar lettere di cui lo aveano incaricato i principi di Germania. Sul consentirglielo si disputò per molti giorni. Michele Barozzi sostenea che in paese cattolico non poteasi tollerare un residente eretico, per cui favore l'eresia troverebbe modo d'insinuarsi: ma il Pesaro riflettea trattarsi di Stato, non di fede: i Protestanti erano grandi principi, occupavano mezza Europa, si opponevano all'imperatore, di che tornava vantaggio a Venezia: se poi si volesse aver riguardo alla fede, ben altri rigori occorrerebbero per reprimere la simonia. Il Barozzi replicava che la domanda dell'Archiew riguardava appunto la fede, poichè tendeva a procacciarsi stabile e riconosciuto dominio in Venezia, e perciò arbitrio di parlar liberamente, spacciare suoi libri, e scandolezzare i Cattolici coi liberi modi di protestante. Il Trevisan insisteva, i Protestanti non mandare certo a trattar di fede, bensì di Stato: i principi tedeschi non cercare che la conservazione della propria libertà e degli interessi religiosi: solo per questi, dopo ventinove anni che professavano la nuova fede, essersi ora uniti in lega spedendo nunzj alle diverse potenze, fra cui anche a Venezia, dirigendole per mezzo dell'Archiew una lettera alla quale sarebbe scortesia il non rispondere: come sarebbe improvido il non tenersi amica una Lega tanto potente. In fatto la lettera fu ricevuta, e datavi risposta evasiva; e l'Archiew rimase come residente d'Inghilterra. Del che lagnandosi il papa, gli fu risposto esser ciò necessario per le continue comunicazioni con quel regno; del resto sua santità non poter dubitare della devozione della Repubblica. Nessun però creda che i Veneziani s'allentassero nel perseguitare l'eresia; sì perchè ve li portava l'indole dei tempi, sì perchè essa turbava la quiete pubblica, primario intento di quel Governo. Fin dal 22 aprile 1547 erasi data questa commissione agli assistenti del Sant'Uffizio. «_Nos Franciscus Donato dux Venetiarum, ecc._ Conoscendo, niuna cosa esser più degna del Principe Cristiano, che l'essere studioso della Religione e difensore della Fede Cattolica, il che etiam n'è commesso per la promissione nostra ducale, e stato sempre istituito dalli Maggiori nostri; però ad onore della Santa Madre Chiesa avemo eletti in questi tempi col nostro minor Consiglio voi, dilettissimi nobili nostri, Nicolò Tiepolo, dottor Francesco Contarini e Marco Antonio Venier dottore, come quelli che sete probi, discreti e cattolici uomini, e diligenti in tutte le azioni vostre, e massimamente dove conoscete trattarsi dell'onore del Signore Iddio. E vi commettemo, che dobbiate diligentemente inquirere contro gli eretici, che si trovassero in questa nostra città, e etiam ad mettere querele contro alcuno di loro, che fossero date; e essere insieme col reverendissimo Legato e Ministri suoi, col reverendo Patriarca nostro e Ministri suoi, col venerabile Inquisitore dell'eretica pravità, sollecitando cadauno di loro in ogni tempo e in ogni caso che occorrerà, alla formazione de' processi: alla quale etiam sarete _assistenti_, etiam procurando, che siano fatte le sentenze debite contro quelli, che saranno conosciuti rei. E di tempo in tempo ne avvisarete tutto quello che occorrerà, perchè non vi mancheremo d'ogni ajuto e favore, secondo la formola della promozione nostra ecc.». Il 21 ottobre 1548 fu presa questa _parte_, cioè determinazione nel Consiglio dei Dieci: «In esecution della Promission del serenissimo principe nostro e del capitular di conseglieri, furono da Sua Serenità con il consenso loro deputati tre delli primarj nobili nostri ad inquirir e accettar denunzie contra eretici in questa città e ducato solamente. I quali essendosi ridutti insieme con l'auditor del reverendissimo legato e con l'inquisitor tre fiate alla settimana dal mese di aprile 1547 in qua, hanno fatto quel buon frutto che a cadauno è noto. Imperochè sono cessate le conventicule che prima si facevano in diversi luoghi publici e privati di questa città, e molti immersi in tale diabolica pravità si sono abjurati publicamente; la qual bona opera quando si facesse nelle altre città del Stato nostro, nelle quali vi regna questa detestanda setta, si come da diversi Rettori nostri per molti casi d'importanzia siamo stati ricercati a fare, e anco dal reverendissimo legato apostolico, non ha alcuno che non conosca quanto si faria cosa grata all'onnipotente Dio e Signor nostro Jesù Cristo, però, «L'anderà parte, che la deliberazion di questo Consiglio del 21 marzo 1521 in materia de strigoni e heretici, sia, quanto spetta ad eretici della fede catolica e di sacramenti della santa Chiesa, riformata, e da novo sia dechiarito che si abbi ad osservar quanto si osserva in questa nostra città, cioè: «Che li rettori delle infrascritte città, debbano primamente far elezione de dui dottori, over persone intelligenti, catoliche e di bona vita, e poi ridursi in qualche loco commodo con il reverendo vescovo over suffraganeo o vicario suo, e con il venerando inquisitor, e tutti insieme inquirir et accettar denunzie contra cadaun eretico sottoposto alla città, alle castelle e a tutta la diocese sua; assistendo continuamente li rettori e li dui per loro ut sopra eletti al accettar delle querele e alla formazione di processi e non altramente, prestando il consiglio e favor suo fino alla compita formazione di essi: e che per i ditti reverendi ecclesiastici siano fatte le sentenzie contra quelli che sarano conosciuti rei secondo il tenor di sacri Canoni. Al far delle qual sentenzie debba sempre intervenir il Consegio e li dui per loro eletti, si come è ditto di sopra e non altramente, e similmente assister e prestar il loro consegio in ogni cosa pertinente a questa materia. Fatte veramente le sentenzie, debbano li rettori darli la debita esecuzione. E se per qualche justo impedimento non potessero assister ambidue li rettori alle cose sopra ditte, vi debba almeno intervenir uno di loro, insieme con li dui qualificati ut sopra. E ove si attrova uno solo rettor, quello debba assister personalmente, avendo sempre appresso di sè li altri dui a questo deputati da lui. E questo ordine sia posto de cætero nelle commissioni di essi rettori, acciò ch'el sia del tutto osservato. «Li processi veramente che sin ora fussero sta fatti in questa materia senza la presenzia di rettori nostri, s'intendino nulli, ma ben si possano da novo formar nel modo sopra ditto. «Sia etiam commesso alli predetti rettori, che, subito receputo il presente ordine nostro, debbano far pubblicamente proclamar nella città a loro commessa e in tutte le castelle sottoposte alla sua jurisdizione, che se alcuno averà libri proibiti dalla santa Chiesa Catolica, possino e debbino presentarli ad essi rettori fra quel termine che li parerà statuirli, senza incorrer in pena alcuna, ma ben i libri siano brusati publicamente. Passato veramente il termine, si procederà contra li inobedienti come parerà alli rettori esser conveniente. «E da mo sia preso che alli stessi rettori nostri [161] insieme con la deliberazion soprascrita, sia scrito a parte secretamente quanto si contiene ut infra: «Istruzione secreta. «Averete veduto quanto vi avemo commesso con il Consegio nostro di Dieci e zonta, in materia di proceder contro eretici con l'assistenzia e consiglio nostro, e di quelle due persone qualificate da esser per voi elette, la quale deliberazion volemo che eseguiate. Ben vi dicemo con l'istesso Consegio e zonta che quando si trattasse de qualche persona dalla quale vi paresse poter provenir qualche scandalo per alcuno rispetto, debbiate, avanti che si devenga a retenzione o sentenzia, dar avviso alli Capi di esso Consegio con dichiarir particolarmente la qualità della persona, li parenti ed aderenti, e facoltà soa, e ogni altra cosa e rispetto che ve paresse degno de considerazione, e il simile servarete avanti l'esecuzion delle sentenzie contra ogni altra persona quando abbia intervenir pena de vita o membro, overo di confiscazion di beni, perchè poi vi si darà commissione di quanto ne parerà convenirse. «Questo ordine nostro essendo importantissimo, volemo che teniate secretissimo apresso di voi soli, sì che nè alcun ministro vostro nè alcun altro, sia chi esser se vogli, lo possa saper, e consignarete le presenti alli vostri successori in propria mano con la istessa secretezza, i quali facino il medesimo a quelli che si succederanno di tempo in tempo». Lo stesso Consiglio dei Dieci colla sua Giunta, a' varj rettori delle provincie scriveva: «Averete veduto il modo col quale s'abbia proceder contro li eretici luterani, dell'esecuzion del quale credemo ve sarà cura diligente. Ben vi dicemo col detto Consegio e zonta, per conveniente rispetto, che quando ve paresse la cosa redutta in termine ch'el se dovesse venir a sentenzia contra alcuno de vita over de membro o de confiscazion de beni, vediate de intervenir, sì che abbia star suspeso il proceder più oltre, e debiate scriver alli Capi di esso Consiglio, mandando il processo formato sotto sigillo e espettando ordine nostro». Al 29 novembre 1548 il doge Francesco Donato scriveva al rettore di Bergamo: «Avemo inteso con grandissimo dispiacere nostro, che in questa città si ritrovano alcuni eretici, i quali non solo non vivono cattolicamente, ma pubblicano, disputano e cercano di persuadere agli altri le opinioni luterane, cosa che non volemo comportare per modo alcuno». Ed essendosi il papa doluto che il capitano e podestà di Vicenza lasciassero predicare liberamente l'errore, la Signoria, conforme ai detti ordini severi, cominciò supplizj. Guido Zanetti fu consegnato all'Inquisizione romana; Giulio Ghirlanda trevisano e Francesco di Rovigo condotti a Venezia e di subito strozzati; così Antonio Ricetto vicentino, Francesco Spinola prete milanese e frà Baldo Lupetino: Francesco di Ruego fu affogato nel 1546. Alquanti approfittarono del terribile avviso per fuggire, tra cui Alessandro Trissino con altri riparò a Chiavenna, donde a Leonardo Tiene suo concittadino scrisse, eccitandolo ad abbracciare una volta la Riforma, con tutta la città. L'Altieri suddetto, il 24 marzo 1549, scriveva al Bullinger da Venezia: «Qui la persecuzione si fa ogni dì più insolente: molti son presi, e condannati alle galere o a carcere perpetuo, alcuni s'inducono a ritrattarsi per timor della pena, talmente ancora è debole Cristo: molti son proscritti colle donne e i figli, altri provedonsi colla fuga. Tra questi il pio e dotto vescovo Vergerio, il quale se viene a voi, accoglietelo bene e favoritelo cortesemente. Io pure sarò ridotto alla condizione stessa, giacchè Dio vuol con queste tentazioni provar la fede de' suoi». Esso Altieri procurò che i Tedeschi e Svizzeri facessero ritirare il decreto del senato: ne scrisse al duca di Sassonia; andò in Isvizzera: protestava i Veneti esser tutti favorevoli ai Francesi e perciò nemici dell'imperatore, e in conseguenza dovere i principi di Germania tenerli in conto, come opportuni ai loro divisamenti: ma non potè ottenere se non lettere commendatizie, e reduce ebbe intimazione di professar il culto romano, o andarsene. Così in fatto fece, passando per Ferrara a Firenze, poi tornando nel Bresciano, donde scriveva ad esso Bullinger, il novembre 1549, trovarsi in gran molestie e pericoli della vita, nè scorger luogo in Italia ove stare sicuro colla moglie e il figlio: «nè avran posa gli empj finchè non mi assorbano vivo». Più violento il Vergerio scriveva: «Se sarebbe crudeltà, barbarie ed asineria a voler impedire che fosse restituita la purità e bellezza della lingua volgare, perchè non è da dire che sia infinitamente maggior barbarie, crudeltà, asineria l'aver mandato un Archinto milanese legato in Venezia, il quale non pensa ad altro tutto il dì che di far strascinare in prigione e cacciar in bando gli uomini da bene, solamente perchè si dimostrano bramosi di veder restituita alle Chiese quella purità e bellezza dell'evangelo, che Gesù Cristo venne ad insegnarci, e la quale era stata sconcissimamente contaminata e vituperata?[162]» E al Dolfin vescovo di Lésina: «La ingiustizia e crudeltà è grandemente cresciuta d'un tempo in qua appresso de' vostri, perciocchè a' tempi nostri i papi fan annegare i nostri fedeli di notte segretamente, senza che possano prima esser le loro difese ascoltate, almen in luogo pubblico, come s'è fatto novamente di que' due santi martiri di Cristo frà Baldo Lupetino d'Albona, di cui fu nipote e discepolo M. Mattia Flacio Illirico, ben conosciuto dal mondo, e M. Bartolomeo Fonzio, tra gli altri dico che di notte furon fatti annegare, nè vogliono i medesimi papi che i rei in questa causa possano essere ascoltati, se non appena da qualche diabolico inquisitor in un cantone _Sed tu Domine usquequo?_». Sotto il 24 aprile 1551 racconta: «C'è di nuovo in Italia che i signori Veneziani avean fatto un decreto che niun legato papale nè vescovo nè inquisitore potesse procedere contro alcun suddito, senza la presenzia ed intervento di alcun magistrato laico; ed ora il papa freme, ed ha fulminato una sua bolla, che sotto gravissime pene niun principe secolare possa impacciarsi nè molto nè poco nelle materie degli accusati per conto di religione, e staremo a vedere se i Veneziani vorran obbedire. Buona cosa sarebbe se per questa via entrasse discordia tra loro e l'anticristo»[163]. Poi al Bullinger da Tubinga il 6 settembre 1554: «Ho qui con me Gerolamo Donzelino medico, cacciato or ora da Venezia pel Vangelo; uom prudente, che sa molto di ciò che si fa in Italia; e m'afferma che la peste servetana più che mai serpeggia, e ch'egli fu tentato dal Gribaldo per accedere a quella opinione. Certo è che da alcuni di Basilea si fe, con alquanti italiani, una cospirazione che, se non venga compressa, ci partorirà qualche gran male». E negli ultimi suoi giorni (1562) scriveva informando _Venetos impios sœvire, quod antea non fecerunt; nec dubium est quin cum papa sint confœderati contra, ut ajunt, Lutheranos. Florentiæ ibidem; imo una vice propter religionem XVIII captos et in carcerem conjectos fuisse. Theologum, qui diversam de Trinitate sententiam pro concionibus defendere voluerit, Genevæ esse decolatum; quod factum non omnes approbant._ Aveasi dunque a Venezia libertà di costumi, non libertà d'opinioni, che spesso con quella è confusa[164]. Vero è che i Tre Savj dell'eresia, istituiti nel 1551, erano uno spediente per vigilar l'azione del Sant'Uffizio. Gli Esecutori sopra la bestemmia doveano approvare le stampe, vigilare sopra gli eretici, i bestemmiatori, i violatori di cose sacre, coloro che celebrassero messa non ordinati. Ed è pur vero che i papi querelavano la Signoria di troppa mitezza; e segnatamente Giulio III nel 1550 ne mosse vive rimostranze all'oratore Matteo Dandolo[165], anche perchè i laici fossero chiamati a giudicare cogli ecclesiastici in materia di fede; contro la qual pratica esso pontefice pubblicò una bolla. Fu forse per le instanze del papa che, il 3 novembre 1550, fu emanata questa provigione: «_Franciscus Donato Dei gratia dux Venetiarum etc. Nobilibus et sapientibus viris Francisco Venerio, de suo mandato potestati, et Hieronymo Grimani capitanio Veronæ, et successoribus suis, fidelibus dilectis salutem et dilectionis affectum._ Avendo noi esistimato cosa equa e conveniente, che contra li imputati d'eresia da per tutto nella giurisdizione del Dominio nostro si abbi a procedere ad un modo istesso, avemo deliberato nel consilio nostro di Dieci e Zonta, che, nelli casi occorrenti e che occorreranno di essa eresia, si debba osservar la medesima forma di procedere che è statuito si servi in le città nostre di Bressa e di Bergamo, come in le lettere scritte alli rettori di quelle per il ditto Consilio di X con la zonta, sotto li 29 di novembre 1548 si contiene in tutto e pertutto, cioè: che ritrovatevi con quel reverendo Vicario, over con quel reverendo Episcopo se si troverà presente de lì, e l'inquisitore, debbiate insieme con loro e doi dottori delli primarj di quella città, che a voi pareranno prediti di bontà e dottrina, non ostante alcuno altro ordine, formar diligente processo in questa materia: nel qual vi troverete presenti in tutto quello che si opererà; ovvero, se qualche fiata per alcun necessario impedimento non poteste voi intervenire, farete che vi si ritrovi il Vicario di voi Podestà, appresso alli sopradetti, e usarete ogni diligenzia acciò che il processo sia formato di quel modo che si conviene, e noi possiamo intendere con bon fondamento come passano le cose nella prefata importantissima materia, e finito che sarà, lo mandarete alli Capi del Consilio preditto immediate, il quale poi che averemo veduto, vi daremo avviso di quello ch'occorrerà. Pertanto con l'autorità del preditto nostro Consilio di Dieci e Gionta vi commettemmo che debbiate così osservar e far osservare, facendo registrar queste lettere in quella cancellaria vostra per memoria de quelli che di tempo in tempo vi succederanno a effetto di tal osservanzia»[166]. Pio IV nel 1564 si doleva coll'oratore Marco Soranzo perchè la Signoria non operasse abbastanza severa ne' casi d'eresia, che si verificavano a Venezia, Verona, Vicenza. «Bisogna che si mostrino più severi, e che facciano migliori rimedj che non han fatto finora. Lo Stato loro da più bande è vicino ad eretici; è necessario che facciano buona guardia che questa peste non vi entri, e che, quando alcuno vien scoperto d'eresia, lo puniscano acerbamente. Il che non hanno fatto fin adesso in quel modo facea bisogno, e noi sapemo che anco in Padova hanno tollerato delli scolari tedeschi apertamente eretici, li quali hanno infettato degli altri»[167]. In conformità, il Consiglio dei Dieci emanò un'ordinanza, ove professava non potersi fare a Gesù Cristo e a tutti i fedeli cosa più grata, che il cercar tutti i mezzi d'allontanare que' mali uomini, i quali in materia di religione seguono opinioni particolari: pertanto ingiungevano ai rettori di sbandirli da tutte le terre della repubblica fra quindici giorni dalla pubblicazione del decreto, con minaccia che, se tornassero, verrebbero chiusi in prigione sicura, appartata da quella pe' delitti ordinarj, e sottoposti a grave multa. Ciò non tolse che l'anno medesimo scrivessero a' Grigioni di venir pure a negoziare in Venezia senza paura dell'Inquisizione, sicuri sulle promesse già date anche per tutto lo Stato, purchè vivessero modesti e non recassero scandali. Sollecitato da Pio V perchè la Signoria applicasse rigorosamente l'Inquisizione, l'ambasciatore veneto Paolo Tiepolo scrive avergli risposto si farebbe, ma guardando «troverebbe che in quel dominio si vive più religiosamente e cattolicamente che forse in qualsivoglia altra parte; e non sapeva dove più si frequentassero le chiese e i divini uffizj che in quella città. Di che rimase alquanto sopra di sè, forse per l'informazione avuta del contrario». E altra volta: «Venne a trovarmi l'inquisitore di Brescia, e mi disse che il papa l'aveva lungamente esaminato sopra le cose di quella città, e che egli, che conosceva che con sua santità non era bisogno di sperone ma di freno, avea fatto ogni sorta di buon officio, scusando e raddolcendo quelle cose che erano venute alle orecchie della sua santità, affermando che da quei clarissimi rettori gli erano prontamente prestati tutti quegli ajuti e favori che sapea desiderare. Mi soggiunse aver detto a sua santità d'aver sentito che non era ben disposto verso quel serenissimo dominio: ma come devoto della sua santità volea dirle che non sapea Stato che facesse più di quello per la santa sede; che, sebbene in una moltitudine grande si trovasse qualcuno che non avesse mente del tutto retta, non bisognava fare mal concetto di tutta una repubblica così degna e così buona come quella». Altrove narra come rassicurasse il santo padre che la Signoria vigilava occulatissima sugli eretici, non solo per zelo religioso, ma per la concordia e unione de' cittadini, la quale ne rimarrebbe turbata; e che «le cose erano in buono stato, e forse migliori che in altra parte della cristianità, non ostante che quel dominio avesse per più di trecento miglia continui confini colla Germania, e per questo rispetto convenisse aver molto commercio con Tedeschi». Aggiungeva «che noi usiamo più effetti che dimostrazioni, non fuochi e fiamme, ma far morire segretamente chi merita... Quelle dimostrazioni palesi, più grandi, severe e terribili, portavano maggior danno che utile, e poteano piuttosto confermar quei che seguirono i loro umori che spaventarli: in Francia e ne' paesi di Fiandra si eran fatte ammazzare le decine di migliaja di persone, non solo senza frutto, ma con vedere ogni giorno moltiplicar la gente nell'opinione dei morti; che il Consiglio dei Dieci aveva ultimamente fatto legge, che, chiunque fosse bandito da qualsiasi città per conto di religione, s'intendesse bandito da tutto il dominio, cosa che forse non si avrebbe potuto fare per gli ordinarj termini di giustizia». Quella terribile frase del Tiepolo «far morire segretamente chi merita» speriamo fosse una di quelle diplomatiche, ove la seconda parte distrugge l'effetto della prima, e che si usano da chi cede nelle forme per conservare il fondo. Chè, se vi furono supplizj segreti, dovettero essere eccezionali, non mai per sistema. Ed anche nel 1588 querelandosi Sisto V de' portamenti della Repubblica, il cardinale Farnese replicò sorridendo: «Padre santo, que' signori governano lo Stato colle regole di Stato non con quelle del Sant'Uffizio; e se devesi aver occhio sincero alla religione, bisogna averlo anche ad altro»[168]. Nelle carte Medicee cogliemmo una lettera del cavaliere Nobili ambasciadore di Toscana, il quale da Madrid scrive, l'8 giugno 1568[169]: «Io ho ritratto dall'ambasciadore di Venezia, com'egli è qua un Italiano, il quale è stato molti mesi in terra di Svizzeri e Grigioni là al confine di Milano, ed è venuto in notizia di molti vassalli del re, che tengono intelligenza con Luterani di que' paesi; ed è venuto alla Corte per manifestar a sua maestà questi tali infetti d'eretica opinione. E costui medesimo ha parlato con l'ambasciatore di Venezia, dicendogli che nel trattare questo negozio ha trovato molti delle terre de' Veneziani, uomini di qualità, di questa mala intenzione: e che se la Signoria vorrà remunerarlo, andrà là, e darà conto di tutte queste cose con molta giustificazione e verità. Onde l'ambasciadore s'è mosso a scrivere alla Repubblica, esortandola a volerne veder il vero, e castigar severamente chi tenesse queste pratiche nello Stato loro, e massime in Bergamo e Brescia, terre dove costui accenna esser seminata questa infezione». Poi il 30 luglio: «Sopra quello che per lettera delli 11 aprile passato scrissero il duca mio signore e vostra eccellenza a sua maestà Cattolica del pericolo che sovrastava all'Italia da' Franzesi e dalli eretici quando si fossero volti a tentar questa provincia, sua santità ancora n'ha scritto in conformità, e particolarmente s'ingegna di mostrare in qual sospetto si doveano tenere il duca di Savoja e i Veneziani; l'uno per l'infezione ch'è nello Stato suo di questa peste dell'eresia e per la vicinità con Francia, e questi per tener poco conto come ciascun viva o cattolicamente o altrimenti; e con l'ajuto o pur con la sola permissione di questi duoi pare che possino derivare tutte le turbazioni che altri disegni per Italia: e contro quel duca e quella Repubblica s'è disteso, caricandoli molto appresso sua maestà, come quelli dei quali è molto dubbiosa la volontà in servizio della fede cattolica e di sua maestà». Jacopo Brocardo veneziano (secondo altri, piemontese) seguì Calvino, e pretese confermare colla santa scrittura le visioni che dicea d'avere: nel 1565 ritiratosi nel Friuli, scrisse di fisica, ma scoperto fu arrestato dai Dieci: rilasciato, andò vagando a Eidelberga, in Inghilterra, in Francia, in Olanda, ove pubblicò libri sostenendo che i profeti aveano vaticinato gli avvenimenti particolari del secolo XVI: e gli applicava ai fatti venturi, a quanto accadrebbe a Filippo, a Elisabetta, al principe d'Orange. Il sinodo di Middelburg disapprovò questa guisa d'interpretar la Bibbia. Segur Pardalliano bretone credette che il personaggio, designato in queste profezie come destinato ad abbatter l'idra papale, fosse Enrico IV, e indusse questo a spedirlo ai principi protestanti per tal oggetto; ma divenne ridicolo quando palesò donde traeva tali persuasioni. Un commento del Brocardo sulla Genesi fu condannato dal sinodo nazionale della Rocella nel 1581. Ritrattò poi i suoi libri mistici e profetici, pure fu sbandito dall'Olanda, e campò miseramente fin dopo il 1594. Il modo di procedere in fatto d'eresie a Venezia appare da questa istruzione: «_Modus qui servatur in tribunali nostro in procedendo contra hæreticos._ «Et primo, porrecta querela, sive denuntia contra aliquem per judices ecclesiasticos, videlicet reverendum dominum Auditorem reverendissimi d. Legati apostolici et per patrem inquisitorem hæreticæ pravitatis, cum assistentia clarissimorum dominorum deputatorum contra hæreticos, ex offitio super ea testes assumuntur et examinatur; et si faciunt inditia aut probationes, ita quod deveniri possit ad capturam denunciati, tunc Judices ecclesiastici, accedente consilio prædictorum clarissimorum dominorum deputatorum, dictam capturam decernunt; sin autem, eundem ad comparendum personaliter citari mandant, qui si non comparuerit, proclamatur in scalis publicis, et contra ipsum proceditur, ejus contumacia non obstante. Si vero comparuerit, judices ecclesiastici cum assistentia prædictorum clarissimorum d. deputat. ejus rei recipiunt aut constitutum, et eo recepto, decernunt (accedente consilio ut supra) quod incarceretur aut consignetur in aliquo loco quem ei deputant pro carcere, cum fidejussione de se præsentando et de non recedendo, et successive ad ulteriora proceditur, examinando testes et contestes, et constituendo inquisitum qui confitetur se errasse, et qui se remittit sanctæ matris Ecclesiæ correctioni. Tunc formata abjuratione illa, reus, ore proprio, si scit legere, sin autem notarius reo præsente et omnia in eadem abjuratione confitente, recitat die statuto per judices. Deinde ipsi judices ecclesiastici, habito colloquio de pœna sive pœnitentia, ad quam reus veniat condemnandus, cum prædictis clarissimis dominis deputatis, et citato reo ad audiendiam sententiam, illam in scriptis, accedente consilio ut supra, proferunt et promulgant, et in ipsius sententiæ fine serenissimi principis pro executione ipsius sententiæ brachium humiliter implorant. Si vero reus negaverit delicta, de quibus in inquisitione, perpetrasse, tunc in arctiori carcere detrudi mandatur, ut eo mediante, delicta per se perpetrata confiteatur. Si vero illa confiteri negaverit, tunc et eo casu utatur deductis in processu et attestationibus testium, dummodo videantur esse conformes et sine aliqua inimicitiæ suspicione, ac tales quod in juditio fides eisdem adhiberi possit: et sic ad sententiam condemnatoriam, prout juris fuerit ut supra proceditur. Si vero testes examinati non plene probaverint, ita quod tantummodo inditia fecerint, aut semiplene probaverint, tunc et eo casu proceditur ad torturam, licet hactenus in tribunali nostro hujusmodi non evenerit casus, et ita hactenus fuit servatum et processum, cum assistentia prædictorum clarissimorum domin. deputatorum et eorum accedente consilio decretum et sententiatum». L'archivio del Sant'Uffizio di Venezia, or riunito agli altri nel convento de' Frari, consta di cencinquanta cartelle. Eccetto un processo del 1541, la serie regolare non comincia che al 1548. Secondo il Romanin, fra quest'anno e il 1550 si fecero sessantatre processi sia nella dominante o nelle provincie; diciannove di essi vennero sospesi: gli altri riuscirono a condanne di multa o bando; alcuni di carcere temporario, uno di galera, uno di morte. Gl'imputati sono preti o artigiani: pochi civili, nessun nobile. Solo alla Marciana[170] esiste la sentenza contro Francesco Barozzi per stregheria, seduzione, apostasia ostinata: egli acconciossi a confessar tutto, purchè gli si lasciasse salva la vita e non confiscati i beni: restò alcun tempo in carcere, pagò cento ducati di cui fare due crocifissi d'argento, e s'obbligò a certe preghiere e a confessarsi regolarmente. Nè scarseggiarono nel Veneto i processi di streghe; e ne' Diarj di Marin Sanudo ne occorrono varj, coi soliti abusi delle procedure d'allora, e con evidenti prove di superstizione, di delirio, di allucinazioni. Dagli _Annali di Brescia_, manuscritti alla Quiriniana, raccogliesi che nel 1455 frate Antonio inquisitore invocava il Governo contro eretici nella pieve di Edolo, che ricusavano i sacramenti, immolavano fanciulli, adoravano il diavolo. Nel 1510 a Edolo e Pisogne essersi bruciati da sessanta streghe e stregoni, che confessarono aver ammaliato uomini, donne, animali, seccato prati ed erbe: e menati al fuoco, non si mostravano sbigottiti, nella certezza che il demonio avrebbe fatto miracolo per salvarli. Nel 1518 essersi bruciate da settanta streghe in Valcamonica, togliendone i beni: e di quell'anno stesso una lettera da Orzinovi denunzia come infetti di stregoneria molti preti, che non battezzavano, e che dicevano la messa _come Dio vuole_. Il dottor Alessandro Pompejo, in lettera da Brescia del 28 luglio 1518, racconta come sul monte Tonale si raccogliessero fin duemilacinquecento persone alla tregenda: e Carlo Miani patrizio veneto con maggiori particolarità riferisce che, sollecitate dalle madri, le fanciulle fanno una croce in terra, poi la calpestano, e sputacchiano; ed ecco presentarsi loro un cavallo, sul qual montato, subito si trovano sul Tonale alle turpi nozze. Introdotte in magnifica sala tutta a seta, vedono un signore, assiso in tribunale d'oro e gemme, che le fa scompisciar la croce, indi le accoppia a giovincelli bellissimi. Anche sul monte Crocedomini fra la val Sabbia e la Camonica teneansi di tali congreghe, testimonio il Gàmbara nelle note alle sue _Geste de' Bresciani durante la Lega di Cambrai_. Per l'Inquisizione de' libri proibiti Venezia volle salve le ragioni del principato, e affidò tal materia al Consiglio dei Dieci, il quale, con decreto del gennajo 1526, comandò non si stampasse nulla senza licenza dei tre capi del Consiglio: poi passò tal cura agli Esecutori contro la bestemmia. L'Indice di Clemente VIII non fu ricevuto che con certe restrizioni, e nel concordato del 1596 si stabilirono nove capitoli: 1º i libri sospesi dal nuovo Indice per doversi espurgare, possano vendersi a chi abbia licenza dal vescovo o dall'inquisitore: 2º se gli stampatori volessero ristamparli, potran essere corretti dal vescovo o dall'inquisitore, senza mandarli a Roma; 3º de' libri nuovi si consegnerà l'originale al segretario de' riformatori dello studio di Padova o al cancelliere del capitano delle altre città; 4º sui libri si stamperà la licenza avuta e il nome di chi gli ha riveduti: 5º non si pongano figure disoneste; 6º i libraj per questa sola volta presentino all'inquisitore l'inventario dei libri che hanno, per espurgare i notati nell'Indice; 7º vescovi e inquisitori possano proibire solo per titolo di eresia o per falsa licenza: 8º non son obbligati gli stampatori a dare il giuramento; 9º gli eredi libraj diano all'inquisitore la nota de' libri proibiti che trovassero nell'eredità. Siffatti rigori non tolsero che la tipografia fosse una delle principali e nobili industrie di Venezia, segnalata dagli Aldi, dai Baglioni, dai Comini, dagli Zatta: anzi i Baglioni ottenero la nobiltà veneta, e gli Albrizzi la dignità di procuratori di San Marco. Ogni capoluogo del Veneto aveva il suo tribunal d'Inquisizione, organizzato a immagine di quel di Venezia; e d'accordo coi riformatori dello studio di Padova, facea la revisione de' libri e delle stampe; e la licenza dovea registrarsi dal magistrato degli Esecutori contro la bestemmia. Un consultore ecclesiastico ed uno secolare venivano interrogati nelle differenze fra gli avvedimenti religiosi e i politici; un Revisore dei brevi esaminava tutte le bolle e carte che venissero da Roma. Quanto dicemmo nel Discorso IX sulla scuola di Padova vuolsi inteso per Venezia, di cui quella città era il ginnasio. Il Caracciolo denunzia Padova come «ricetto di eretici; vi furono per alcun tempo non solo il Vergerio, ma Enrico Scotta, Sigismondo Gelvo, Martin Borrao, il Gribaldo e lo stesso Calvino, quando, fuggito di Picardia, venne in Italia e arrivò sino a Firenze. Chioggia aveva il vescovo molto sospetto d'eresia, sicchè poi al Concilio non fu arrestato sol per la protezione del cardinale di Trento. In universale di tutta questa provincia di Venezia quanto fosse macchiata di eresie, si può scorgere dalla relazione fatta di lei a papa Clemente VII dal vescovo Teatino». Fra le lettere del Bullinger n'ha una del 30 marzo 1543, dove Osvaldo Miconio parla d'un decano di Padova, il quale parea voler combinare i riti cattolici colle nuove credenze; e d'un altro, non nominato, che in colloquio sosteneva volersi un solo pastore e un solo ovile, si osservasser la quaresima, il digiuno, le feste, l'intercession dei santi, insomma (dice) connettere Cristo e Belial. Accenna pure d'un altro italiano, che cattivossi Calvino in modo, da ottenerne una commendatizia; eppure venuto ad Arovia, palesò di non credere nello Spirito Santo. Anche Bernardino Tomitano di Padova, che stampò una _Esposizione letteraria del testo di Matteo evangelista_ (Venezia 1547), che probabilmente è tradotta da Erasmo, fu accusato d'eresia, ma se ne scolpò colla «Orazione I e II ai Signori della Sant'Inquisizione di Venezia»; (Padova 1556). Nell'archivio vaticano si trova una «Scrittura fatta sotto Federico Cornaro vescovo di Padova circa il tollerare o non tollerare la licenza della nazion germanica»[171], dove si muove lamenti perchè anche in questa Università si esiga altrettanto che in quelle d'Inghilterra, di Ginevra, di Germania, «che vogliono che tutti li forestieri dopo tre giorni siano obbligati, lasciando il proprio rito, accomodarsi all'abuso e licenza loro». L'insegnamento degli Averroisti[172] sopravvisse nella scuola di Padova anche dopo che di quelli la barbara forma era condannata dagli umanisti, e il fondo dai Cattolici. Zabarella, Zimara, Federico Pendasio, Luigi Alberti ed altri proseguirono quella tradizione, benchè repudiassero tutti l'unità dell'intelletto. Francesco Ludovici veneziano, in una delle tante continuazioni del poema dell'Ariosto, intitolata il _Trionfo di Carlo Magno_, canta di Rinaldo, che penetrato nelle viscere del monte Atlante, si trova nel tempio della Natura, e là vede dar l'esistenza a quanto vegeta e respira; la quale Natura v'è collocata al posto di Dio, come l'intelligenza e la ragione tengono luogo dell'anima. Interrogata da Rinaldo perchè gli uomini abbiano anima più intelligente che le bestie e immortale, la Natura risponde: Nell'uom ne pon'io più (_d'intelletto_) ch'è mio volere; E tanto è quel, che d'ogni altro animale Eccede di lontan vostro savere. Quell'altro poi, che in voi dici immortale, Io non lo fo. Se Dio lo fa, sel faccia: Che cosa ella si sia non so, nè quale. Puote esser molto ben che a lui ne piaccia Far, quando i corpi io fo, qualcosa in voi Che torni al vostro fin nelle sue braccia; E questo, se a te par, creder lo puoi. Ultimo rappresentante di quella scuola ci appare Cesare Creminino da Cento, che professò diciasette anni a Ferrara, poi quaranta a Padova. Le poche cose sue stampate non ne giustificherebbero l'alta reputazione; ma sussistono molte copie de' corsi che spiegava agli scolari. Egli non accetta l'unicità dell'intelligenza: pone per intelletto attivo Dio stesso, distinto dalle potenze dell'anima, sussistente per se stesso, vita dell'universo, il qual universo non è, ma diventa (_mundus nunquam est, nascitur semper et moritur_). Distingue sempre la verità filosofica dalla teologica, e specialmente nell'aprire il trattato dell'anima dice agli uditori: «Io non pretendo insegnarvi quel che hassi a credere dell'anima, ma solo quel che disse Aristotele. Ora tutto quanto è in Aristotele è contrario alla fede, e i teologi vi han risposto ad esuberanza. Una volta per sempre ne siate avvertiti, acciocchè, se udrete qualche proposizione di mal suono nel mio corso, sappiate ove trovarne la risposta»[173]. Queste e altre precauzioni non tolsero che l'inquisitore di Padova, ai 3 luglio 1619, gli scrivesse per richiamargli il decreto del Concilio Lateranense, che obbliga i professori a confutare seriamente gli errori che espongono[174]. «La santità di nostro signore mi ha ordinato ch'io faccia sapere a vostra signoria che nella sua Apologia non solo non ha sodisfatto alla correzione del primo libro, inscritto _Disputatio de Cœlo_, secondo la disposizione del Concilio Lateranense, ricogliendo la ragione d'Aristotele, confutandolo, e manifestamente difendendo la fede cattolica, ma d'avantaggio ha di proprio senso inventato certi modi di dichiarazioni e distinzioni, che contengono asserzioni degne di censura, come si può vedere dalle osservazioni che gli ho fatto avere. Per tanto V. S. corregga per se stessa il primo libro, secondo il prescritto del Concilio Lateranense; e essendo questo debito suo e non dei teologi e d'altri, V. S. lo deve fare così per obbligo di coscienza, essendo quel filosofo cristiano e cattolico che dice di essere, come per stimolo di riputazione, volendo esser tenuto dal filosofo cristiano e non etnico. E di più, V. S. levi dall'apologia e rivochi quei modi d'esplicare e di distinguere che di propria mente ha rese per dichiarazione delle propositioni che furono notate e censurate nel primo libro, perchè non soddisfano all'ordine che li fu dato, nè si devono per se stesse tollerare. Per tanto essendo necessario per ovviare a quei mali che la lettura di detti libri può causare, V. S. corregga il primo libro, secondo il prescritto che le fu ordinato in conformità del Concilio Lateranense, e levi e rivochi dal secondo gli errori ed asserzioni degni di censura che V. S. ha scritti di proprio senso, insieme con quei modi che ha tenuti in dichiarare la sua intenzione in dette cose; altrimenti mi scrivono da Roma che si verrà alla proibizione di detti libri; nè in questo negozio si pretende altro che l'onor di Dio e la salute delle anime. In oltre si pone in considerazione a V. S. che la retrattazione in cose concernenti alla fede deve esser chiara e manifesta, e non involuta nè ambigua, ed altri uomini di valore hanno esposto Aristotele in questa Università di Padova; con tutto che tenesse l'anima mortale, provavano non di meno insieme Aristotele essersi ingannato intorno a ciò, e in lumine naturali, e egregiamente confutarono le sue ragioni, in principiis philosophiæ, e tra gli altri il Pendasio a' nostri tempi, uomo di molta dottrina e pietà. Che è quanto mi occorre farli intendere in scrittura, oltre al ragionamento avuto seco a lungo di tal proposito. V. S. dunque mi risponda in scrittura distintamente a quanto io le scrivo, a fine che ne possi dar conto a Roma per venerdì prossimo futuro. Dio la conservi». Il Cremonino di rimando: «Ho vista la lettera che mi scrive vostra paternità, nella quale trovo due cose: una è l'avvisarmi, incitarmi e persuadermi a procurar di dar soddisfazione all'osservazioni venute novamente intorno a' miei libri. La ringrazio del buon affetto, e credo che ella sappia ch'io l'altra volta, secondo l'ordine de sua santità, fui prontissimo, e deve credere che ancor ora sono il medesimo ad ogni conveniente richiesta. L'altra cosa è quello che mi propone doversi fare; del che di passo in passo le dirò quello ch'io possa fare. Vedrò poi l'osservazioni più tosto ch'io possa, essendo ora un poco risentito, sì che non posso attender a studio, e farò con vostra paternità per adempimento di quanto occorrerà. «Quanto a metter mano nel primo libro, non posso farlo assolutamente, perchè, allora che si trattò, fu concluso di ordine di nostro signore, che si facesse con l'occasione dell'Apologia, come s'è fatto; e ciò fu saputo in senato, e si tien per certo, sì che io non ho autorità di metter mano nel libro. «Quello ch'io posso fare è questo: nell'ultima parte che darò fuori _De cœli efficientia_, avere riguardo ad ogni cosa che accaderà, e far quanto convenga per farmi cognoscere quel filosofo cattolico e christiano che dico di essere, e che so che vostra paternità sa chi io sono, che qui mi vede ogni dì essa l'esser mio, e non ha a stare a Dio sa quali relazioni. Quanto ai modi d'esplicare che dice, credo questi saranno a parte notati nell'osservazioni; vedrò e sarò con lei. Vedremo anche insieme il Concilio Lateranense, e così farò quello che occorrerà. Ma quanto al mutar il mio modo di dire, non so come poter io promettere di transformar me stesso. Chi ha un modo, chi un altro. Non posso nè voglio ritrattare le esposizioni d'Aristotele, poichè l'intendo così, e son pagato per dichiararlo quanto l'intendo, e nol facendo, sarei obbligato alla restituzione della mercede. Così non voglio ritrattare considerazioni avute circa l'interpretazione ch'abbiate fatte delle lor esplicazioni circa l'onor mio, l'interesse della cattedra, e per tanto del principe. Ma vi è rimedio; ci sia chi scriva il contrario; io tacerò, e non procurerò di respondere altro. Così al Suessano fu fatto scrivere il libro _De Immortalitate_, contra il Pomponazio. «Quanto alle cose dell'anima, ora non è tempo; quando farò il commento, mi porterò da buon cattolico, e non inferiore di pietà cristiana ad alcun altro filosofo». Bisogna dire che, in causa delle sue credenze, nessun disturbo gli venisse, perocchè continuò ad insegnare a Padova. Ma il suo nome restò come tipo della dotta miscredenza, narrandosi che in modo antifilosofico troncasse risolutamente l'accordo tra la fede e la filosofia, dicendo, _Intus ut libet, foris ut moris_: e che, morto ottuagenario dalla peste del 1631, anche dal sepolcro protestasse contro l'immortalità mediante l'epitafio: _Hic jacet Cremoninus totus_. Questo fatto è vero? Gisberto Voet scrive[175] che _antehac ab eruditissimo viro et amico mihi comunicatum erat epitaphium quod dicebatur sibi fecisse, Totus Cremoninus hic jacet: sed postea ab eodem aliunde aliter informato, monitus revocari illud_. Ma il Balzac, raccomandando un M. Drouet, dice: «Son nom est en grosse lettre dans les archives de l'escole de Padoue; et il sortit de la discipline du grand Cremonin, presque aussi grand et aussi savant que luy. Non pas que pour cela il soit partisan aveugle de feu son maistre. Je vous puis asseurer qu'il n'en a espousé que les legitimes opinions, et jamais fidèle ne fut mieux persuadé que luy que le Dieu d'Abram et d'Isac est le Dieu des vivans, et non pas des morts». E Lorenzo Crasso[176] pronunzia del Cremonino: «È veleno d'animo contagioso l'insegnare che l'anima dell'uomo, soggetta alla corruzione, non differisce nella morte da quella de' bruti, com'egli faceva, ancorchè sagacemente asserisse sostener ciò solamente in sentenza d'Aristotele»; e aggiunge che «fu ben composto di corpo, austero di volto, brieve di sonno, ambizioso di saper molto, finto di costumi, lontano d'ogni religione, avendo, secondo il parere d'alcuni, fatto non pochi allievi, confidenti di questa prava sua dottrina». Veramente reca meraviglia che il peripatismo scolastico durasse sì tardo in quell'Università, e il Cremonino vi sponesse il trattato della Generazione e Corruzione, e quello del Cielo e del Mondo, mentre Galileo vi spiegava Euclide; il Cremonino che, quando Galileo scoperse i satelliti di giove, non volle guardarli col telescopio perchè quel fatto repugnava ad Aristotele. Ma la ruina di quella scuola non fu tanto dovuta alla scienza seria e sperimentale, quanto al trionfo definitivo dell'ortodossia. Nella terraferma veneta conosciamo Paolo Lazise veronese, canonico lateranense, che mentre insegnava il latino a San Fridiano di Lucca, udì Pietro Martire, e gustò i dogmi eterodossi, de' quali fece professione nel 1542. Stette alcun tempo professore a Zurigo, poi a Basilea, infine Martino Bucer lo invitò a insegnar greco ed ebraico a Strasburgo. È famoso nell'ampia schiera de' letterati ciarlatani Giulio Cesare Scaligero, di Verona probabilmente, che sulle prime attaccò Erasmo per le beffe contro i latinisti italiani, e fu sospettato d'aderire alle opinioni nuove: consta che morì da cattolico il 21 ottobre 1558, pure sul suo sepolcro a Agen in Francia scolpirono questa scettica epigrafe: _J. C. Scaligeri quod fuit_. Domizio Calderini, di Caldiero presso Verona, autore di varj commenti sopra gli antichi, segretario apostolico a Roma, con una critica presuntuosa si procacciò nemici, i quali dissero schivava la messa, e quando doveva assistervi esclamava: «Andiamo all'error comune»[177]. Ciò basta perchè l'abbiano posto fra i _testimonj della verità_. Alessandro Citolini, di Serravalle diocesi di Céneda, oltre un'_Arte di ricordare_, ove riduceva a certe categorie tutte le cose escogitabili, affine di poter discorrere sopra qualunque soggetto, nel 1561 stampò a Venezia la Topocosmia, o _il Mondo ridotto a un luogo solo_, miscuglio di tutte le cose intelligibili e materiali; spargendovi per entro gli errori, dai quali s'era lasciato affascinare. Rifuggì a Strasburgo, poi in Inghilterra, e grandemente è lodato dallo Sturm. Al 13 luglio 1528, Clemente VII dirigeva una bolla al vescovo di Brescia Paolo Zema e all'inquisitore di quella città, congratulandoli perchè essi e tutto il municipio, a non perdere l'ottimo nome lasciato loro da' parenti e antecessori, con ogni diligenza vigilassero acciocchè l'eresia non vi pullulasse, e per estirparla se ve ne fosse. E che, avendo essi saputo come taluni, scuranti della fama e dell'onore, non si fosser vergognati di professare la dottrina luterana, e quel che non osavano in pubblico insegnavano in disparte, molti traviando, avevano eletto tre cittadini, per cui cura l'eresia diabolica luterana fu quasi divelta dalla città e dal territorio, e puniti gli autori e seminatori di essa. Pertanto gli esorta a dar ascolto a questi cittadini, affinchè del tutto sia sradicata la dottrina luterana e gli altri errori nella città e diocesi; e ricordando l'accusa ch'e' mossero contro Giambattista Pallavicino frate carmelitano, che, predicando la quaresima precedente a Brescia, aveva enunciato alcune cose erronee ed avverse alla fede cattolica, scandolezzando i pii, gli autorizza a proferir sentenza, escludendo qualunque appello, foss'anche alla santa sede; obbligar colle censure ecclesiastiche i testimonj che ricusassero; e proceder contro chi tenga, o favorisca, o consigli le massime di frà Martino; dichiara infami e intestabili i pertinaci, e indegni della sepoltura sacra: si ricevano all'abjura i pentiti, e a giurare che mai più non ricadranno: e vengano assolti da ogni inabilità o infamia[178]. Anche del già mentovato bresciano Jacopo Bonfadio, fatto morire dal Governo genovese per delitto nefando, gli scrittori plebei vollero dire che del supplizio fosse promotrice la corte di Roma. Al contrario nell'archivio genovese esiste lettera di monsignor Giambattista Lomellini, scritta da Roma a quel Governo il 1 febbrajo 1551, in cui racconta il cardinal Crescenzio avergli detto come «sua santità restava grandemente scandolezzata di quella Signoria, a cui si era dovuto in poco tempo far richiamo di tre quattro casi esorbitanti, commemorando primo il Bonfadio, il quale ancorchè allegasse esser prete, l'aveano fatto morire senza dargli tempo di provar questo». Nel processo del Cardinal Morone trovammo inserta questa lettera, di nota difficile e scorretta: «Al molto dotto predicatore e reverendo vicario generale don Polito Crizola mio osservandissimo. Roma, alla Pace. «Carissimo fratello, già due mie dopo la prima vi ho scritte; credo averti scritto al mio intento e parere: non dirò altro se non che, da Dio incatenato contro ogni mio volere e determinio, son venuto a Milano, e ho cominciato oggi a predicar: sia fatta la volontà del Signore. Io predicherò con quella diligenza che potrò. Nostro Signore mi guidi. Mai fu mio intento rovinar niuno, dimandando Dio in testimonio che, se la coscienza mi si potesse aquietare, il tutto sarebbe aquietato. Userei di que' rimedj che voi mi scrivete. Son tanto persuaso che la libertà cristiana deva servire alla carità cristiana, che anco questa deva servir alla fede. Maledetta quella libertà cristiana, la quale distrugge la carità, ma più maledetta la carità che distrugge la fede. Che se potessi accozzar queste tre cose, io sarei il più contento uomo del mondo, ma non posso. Io pensavo di trovar il vescovo di Bergamo, che vedesse se mi poteva aquietar. Di grazia vi prego che richiediate il Polo, Morone, patriarca, e vescovo di Bergamo a' quali tutti me raccomanderete. Vedete se potete avere tanto ozio, che mi medichiate dove mi duole. Questo mi consolerebbe. Io desidererei godere i comodi del mondo, onesti però e cristiani, se potessi: nè mai fui tanto in calma quanto ora che so che non mi abbandoneranno. Ma con gran mio piacere ora finirò di predicare. Voi scrivete, ed io scriverò, fra tanto, pregando il comun padre Gesù Cristo il quale del cuore egli solo ne è padrone, veghi che questa è piaga del cuore. Non mancate pregare con tutti i fedeli. «Da Milano, la prima domenica di quaresima (1552). «Vostro Celso. «Salutanvi Ottaviano Pisogno, e Adiodato, che sono qui con esso meco». Questo Celso Massimiliano, figlio del conte Cesare Martinengo di Brescia, canonico lateranense, eccellente predicatore, chiamato a Lucca dal Vermiglio, con esso venne nell'errore. Racconta il Vergerio che, trovandosi questo eccellente servo di Dio presso Milano, il Muzio mandò soldati con bastoni e spade per arrestarlo, e darlo nelle mani degli scribi e Farisei[179]. Uscito d'Italia, il Martinengo posossi in Valtellina, ma quivi fu sospetto di anabattista e unitario[180]; non ostante divenne pastore della Chiesa italiana a Ginevra, dove fu ricevuto cittadino gratuitamente il 30 gennajo 1556. Pietro Martire, in una lettera del 1557 entrante, si conduole a Calvino della morte della moglie del Martinengo, che era la inglese Giovanna Strafford vedova Williams, rifuggita a Ginevra e da lui sposata il febbrajo 1556. Egli poi morì nel 57, e gli succedette Lattanzio Ragnoni di Siena. Ci accadrà altrove di discorrerne. Il tante volte citato Caracciolo riconosce in Bergamo molti eretici, e principalmente il vescovo e il suo vicario prevosto Nicolò Assonico; e che il Ghislieri fu mandato a formarne processo, con gran pericolo, perchè quello era favorito dai rettori e dai principali della città. «Ma essendo alla fine scoperto, e mandato i rettori e il vescovo gente per ritenerlo e per farlo con grande strazio morire, se ne fuggì, avvisato ed ajutato d'alcun fautore della Inquisizione, e fu condotto in sicura parte, e il processo tanto importante (affinchè non corresse pericolo insieme con la persona) fu lasciato in salvo in man d'un frate di San Francesco: non guari dopo, per mano d'amico lo riebbe, e tornossene a Roma con molto onor suo per sì degna opera. Ove citato il vescovo, benchè favorito e difeso da potenti uomini, comparve in persona, e posto in Castel Sant'Angelo e convinto, sottoscrisse a molti capi d'errori eretici e di pessimo esempio, per li quali scorgeasi lui tener modi per infettar tutto il paese, se con l'opera di frà Michele alla ruina di tante anime non si riparava. Il vescovo, privato della chiesa, morì poi in Venezia infelicemente». Sappiamo in fatti che alla sede di Bergamo era stato preconizzato il famoso Pietro Bembo, il quale mai non vi andò; quindi gli successe nel 1547 Vittore Soranso, che ripetutamente accusato di eresia e condannato, fu alfine cancellato di vescovo[181]. Il suo vicario prevosto Assonico, processato, morì a Venezia. Nel 1593 Alvise Priuli, rettore di Bergamo, scriveva alla Signoria veneta, «non esservi in quel territorio eretici, ad onta de' molti mercanti tedeschi che vi abitano; che però vivono senza scandalo, e ad onta della frequente pratica de' Bergamaschi nella Valtellina: e ciò perchè que' fedelissimi sudditi, impiegati ne' negozj e traffichi loro, sono lontanissimi dall'ozio, dal quale infine derivano tutti questi mali». Che però il paese non fosse così mondo ce lo provano il medico Guglielmo Grattarola fuggito ai Protestanti, e Girolamo Zanchi (1516-96) di Alzano. Era egli figliuolo di Francesco e nipote di Paolo, uomo erudito, i cui figli Basilio e Cristoforo segnalaronsi per talento. Basilio, buon poeta e canonico lateranense, studioso di sacre scritture, sotto Paolo IV fu per accusa d'eresia messo in prigione, e vi morì nel 1559. Girolamo, non eremitano, ma canonico regolare, cambiò di fede nell'ascoltare a Lucca Pietro Martire, al quale si conservò poi sempre devoto. Uscito di patria il 1550, a Strasburgo succedette a Gaspare Hedion nello spiegar le lettere sante, continuandovi dal 1553 al 63, e dando anche lezioni sopra Aristotele. Secondo il genio de' nostri italiani, non accettava integralmente la Confessione augustana, ma moderatissimo, riprovava le esagerazioni, non oltraggiava il papa, riconosceva molti pregiudizj ne' Riformati, e cercava conciliare le diverse opinioni. E scriveva allo Sturmio: «Mi muove a sdegno il veder nelle nostre chiese riformate il modo di scrivere di molti, anzi di quasi tutti coloro, che pur vogliono passare per pastori, dottori, colonne della Chiesa. Sovente a bella posta rendiamo oscuro il vero stato della quistione, acciocchè non possa esser bene intesa: abbiam l'impudenza di negare le cose evidenti, e sfacciatamente affermiamo il falso: inculchiamo fortemente ai popoli come principj di fede dottrine apertamente empie, e denunciamo come ereticali opinioni perfettamente ortodosse: mettiamo a tortura le Scritture per ridurle d'accordo colle nostre invenzioni, e ci vantiamo d'esser discepoli dei Padri, mentre ricusiamo seguirne la dottrina. L'inganno, la calunnia, l'ingiuria sono a noi famigliari, nè pensiamo quanto, con simili scritti, nociamo al progresso del Vangelo, quanta rovina portiamo alla Chiesa di Cristo, e come rassodiamo i settarj nelle loro eresie, eccitiamo i tiranni a prender le armi contro di noi, dilatiamo sulla terra il regno del demonio. Sia bene o male, sia vero o falso, poco ci cale, purchè sosteniamo la causa nostra. O tempi, o costumi! Chi mai, vedendo, leggendo, esaminando queste cose, se scintilla conserva di pietà cristiana, non sarà profondamente addolorato ed inquieto, e, non deplorerà amaramente le sciagure de' nostri tempi?»[182]. Ma mentre cercava metter pace, egli stesso versò in continui dissidj. Entrato in quel capitolo di San Tommaso, per le sue divergenze intorno alla predestinazione, alla perseveranza nella santità, all'ubiquità, all'anticristo fu preso in iscrezio, non gli faceano di cappello, non gli dirigevano la parola; sinchè egli, per conservar il posto, segnò un formulario, però con riserve, e _modo ortodoxe intelligatur_. Rinunziò poi al canonicato, e a Chiavenna stette dal 63 al 68, _fructuose quidem, sed non absque cruce_. Avea sposato Violanta, figlia di Celio Curione, e in lettera a Pietro Martire Vermiglio ne descrive la morte: tutta piena di aspirazioni, prelibava il paradiso; struggeasi di veder il Salvatore; incaricava Olimpia Morata di sepellirla: e nell'abbraccio del marito finì esclamando, _Al cielo, al cielo_[183]. Dapoi egli sposò Livia Lumaca ricca chiavennasca, e n'ebbe molti figliuoli. Dall'elettor palatino Federico III fu domandato a professar teologia ad Eidelberga, e scrisse contro gli Antitrinitarj; ma alla morte di quel suo protettore cangiatesi le credenze del paese, egli trovossene sbalzato con tutti quei che deviavano dal luteranesimo, e ricoverò a Neustadt finchè potesse tornar ad Eidelberg. Di settant'anni e già cieco, stese una professione di fede per sè e _la sua famiglia_, ove dirigendosi a Ulisse Martinengo, protesta non aver ripudiato tutti i dogmi della Chiesa romana, ma que' soli che non erano conformi agli insegnamenti della Chiesa primitiva; nell'abbandonare la romana, essersi proposto di ritornarvi qualora ella si emendasse; e lo bramava di tutto cuore, poichè il fato più desiderabile è di viver gli ultimi giorni in seno della Chiesa in cui si fu battezzati. Morto nel 1590, gli fu posto quest'epitaffio: _Hieronymi hic sunt condita ossa Zanchii_ _Itali exulantis Christi amore et patria._ _Qui theologus quantus fuerit et philosophus_ _Testantur libri editi ab eo plurimi._ _Testantur hoc quos voce docuit in scholis_ _Quique audiere eum docentem ecclesias._ _Nunc ergo quamvis hinc migravit spiritu_ _Claro tamen nobis rem auxit nomine._ Le opere sue vennero raccolte in sei volumi, contandone due di Lettere pubblicate a Ginevra il 1619. La più celebre fu _De Dei natura et de tribus elohim Patre, Filio et Spiritu Sancto, uno eodemque Jehova_, in due parti: nella prima espone la pura dottrina e spiega il mistero della Trinità: nell'altra confuta gli argomenti opposti. Queste scritture lo levarono in tal fama, che lo Sturmio diceva basterebbe egli solo a tener testa a tutti i Padri tridentini; ma se ottennero molte lodi, ebbero pochi lettori, e il Bayle riflette che le si aveano per un nulla, e le compravano men tosto i teologi che i pizzicaruoli. In non minore rinomanza salì Francesco Negri da Bassano. Per un amore infelice entrò negli Agostiniani[184]; di nuovo l'amore lo trascinò fin ad un assassinio, pel quale ricoverossi in Isvizzera. Legatosi con Zuinglio e adottatone le dottrine, vuolsi l'accompagnasse alla conferenza di Marburgo nel 1529; alla dieta d'Augusta sostenne la piena libertà de' culti, che invece fu limitata alle due Sette principali, e finì cogli Antitrinitarj. Si annunziò che il suo carteggio fosse, or fa alquanti lustri, trovato in Isvizzera e portato a Bassano, ma per quanto noi ne cercassimo, non trovammo che due lettere, tra quelle onde il Baseggio arricchì quella biblioteca. Una è di nessun interesse: nell'altra da Strasburgo il 5 agosto 1530 al molto reverendo maestro Paolo Rossello di Padova parla del quanto, dopo spatriato, ebbe a soffrire per Cristo; e come la quaresima precedente si fosse recato incognito a Venezia e in altri luoghi d'Italia, ove trovò «diversi fratelli alli quali narrai (dic'egli) diffusamente tutte le cose sì mie quanto dell'Evangelio. Li nomi di essi fratelli sono questi. In Venezia parlai con prè Aloisio dei Fornasieri di Padova, olim in monacato chiamato don Bartolomeo. In Padova parlai con prè Bartolomeo Testa, al quale lasciai el benefizio mio, che al presente è maestro de casa de monsignor Stampa. Deinde in una villa sul Veronese, appresso Lignago tre ovver quattro miglia, il nome della quale al presente non mi soccorre, parlai per due giorni copiosamente con prè Marino Gujoto, _qui quondam monachus, dicebatur_ don Pietro de Padova. Ultimo loco, a Brescia ragionai cum don Vincenzo di Mazi per un giorno continuo. Da questi adunque potrete intender tutto»[185]. Dategli poi le nuove di Germania, conchiude: «Non potiamo se non aspettar qualche gravissima croce. _Orandum sine intermissione nobis ac vobis est, ut Dominus ipse negotium suum defendat._ In Venezia non potei parlar con frate Alvise, come desiderava, imperciocchè l'era andato a star a Treviso, _prout_ mi disse sua madre. Altro non mi occorre se non instantissimamente pregarvi che vui e gli altri fratelli cristiani preghino _enixissime_ Dio per nui». Il Negri prese stanza a Chiavenna come maestro, ma non pare vi fosse pastore, giacchè il primo di tal chiesa fu Agostino Mainardi, vissuto fin al 1563, il quale anzi lo scomunicò come socciniano. Il Negri se ne scolpò a Zurigo, poi pubblicò la propria professione di fede, confessando la divinità e incarnazione di Cristo, e l'efficacia del battesimo e dell'eucaristia. Le molte opere sue lo attestano dotto di greco e d'ebraico e delle quistioni teologiche, ma scarso di gusto e d'eleganza. È notevole quella sulla morte del Fanino di Faenza (non Fanno, come dice il Tiraboschi) e di Domenico Cabianca di Bassano. Quest'ultimo avea militato con Carlo V, e delle dottrine nuove fattosi apostolo, a Piacenza le predicò apertamente, onde arrestato e ricusando ritrattarsi, fu appiccato nel settembre 1550. Il Negri tradusse in latino il caso di Francesco Spiera da Cittadella. Ma il suo scritto più famoso è la tragedia intitolata _Libero arbitrio_, stampata il 1546, poi il 1550, poi in latino il 1559. È un atteggiamento drammatico delle controversie religiose; e le invettive contro monsignor della Casa, il Tedeschino, cioè monsignor Tommaso Stella vescovo di Capodistria, il Muzio la fecero dallo Zeno attribuire al Vergerio[186], da altri a Luigi Alamanni o all'Ochino, ma non par dubbio sia del Negri, che certamente si palesa ben addentro nelle quistioni che tratta, nelle eresie di Lutero e Zuinglio, nello svolgimento de' dogmi, nell'introduzione dei riti, nelle leggi canoniche, nelle istituzioni di Ordini. L'azione accade in Roma, sulla piazza del Vaticano, regnante Paolo III, e dura dal pranzo a sera; con personaggi reali, misti ad allegorie. Fabio da Ostia, pellegrino tornato da Terrasanta, fa la protasi. Monsignor Clero, figliuolo del papa e primo ministro del regno cattolico, simboleggia il pontefice; nel cui palazzo tiensi il Concilio. Diaconato, maestro di casa di monsignor Clero, diplomatico, sostenendo i diritti pontifizj, fa la più fosca dipintura della Corte di Roma. Ammonio e Trifone, cancelliere e notajo della dateria, rivelano gl'intrighi degli ecclesiastici; inoltre compajono Orbilio servo, il cappellano di messer Clero e suo confidente, ipocrita ignorante; l'angelo Rafaele e la Grazia giustificante, mandati in terra a uccidere il Libero Arbitrio, e condannar il papa come anticristo. Il papa, convocato il Concilio per reprimere la ribellione, sembra sulle prime riesca a conservare la sua illimitata autorità. Fabio da Ostia, reduce da Palestina, imbatte il Discorso Umano, dal quale ode la rivolta de' Settentrionali contro il re Libero Arbitrio; Diaconato sopraggiunto gliene espone le ragioni, e come Libero Arbitrio fosse coronato re dal papa, che gli concesse il regno delle buone opere, gli altri possessi riservando per sè e per l'unigenito suo monsignor Clero, che dotò colla provincia sacramentaria, cui capitale è l'Ordine sacro, paese diviso in molte contrade, in ciascuna delle quali stanzia una gerarchia diversa, fra cui primeggia il concistoro dei cardinali, e ciascun cardinale tien una Corte sontuosa della quale si dipingono i disordini. Partito il pellegrino, Ermete, interprete del Concilio di Trento, esce a raccontar a Diaconato quai discorsi tennero fra i bicchieri i teologi, banchettati da monsignor Clero: cioè le quistioni intorno alla Riforma, e le decisioni del Concilio, statuenti l'inviolabile volontà del papa e la illimitata sua podestà, condannando chiunque sparge massime contrarie, o interpreta al popolo le divine scritture in modo differente. Felino, spenditor del Concilio, racconta grossolamente gli stravizzi, cui s'abbandonarono i teologi. Al secondo atto, Libero Arbitrio e i suoi ministri, Discorso Umano segretario e Atto Elicito maestro di casa, cioè i due impulsi dell'animo a operar con libertà, discorrono sopra una lettera dell'imperatore, che gl'istruisce dei progressi della Riforma in Germania. Il re fa cercar nella dateria documenti che provino il loro legittimo possesso; i quali son letti dal notajo, e commentati dal buffone alla guisa che potete immaginare; enumerandosi i varj Ordini religiosi, le ricchezze e le colpe loro, le dignità clericali, le istituzioni di luoghi pii e di congregazioni secolari; poi si discute della confessione, della eucaristia, dell'orazione, della messa, delle limosine, dei suffragi, delle indulgenze; con un incidente drammatico per mostrare che a denaro si ottiene qualunque assoluzione. Al terzo atto, Discorso Umano, per commissione del re, partecipa a monsignor Clero e a Diaconato che in segreto colloquio esso re e il papa conchiusero di scomunicare e combattere gli eretici tedeschi, emanare severissimi banditi, inacerbire l'Inquisizione: a tal uopo si convochino i cardinali, prescelti alla congregazione del Sant'Uffizio. Diaconato vorrebbe che Felino ritrattasse le calunnie date ai prelati; e poichè questo invece rincarisce le accuse[187], vien interrogato Ermete, il quale mostrando sostenerli, gli appunta d'ignoranza e nequizia: dove espone anche una quistione sorta fra Zuinglio ed Echio, in cui il primo esce vincitore. Al quarto atto, i santi Pietro e Paolo in arnese da pellegrini presentansi a Bertuccio, cugin di Pasquino, e riconosciutolo propenso alle novità, gli si manifestano, dicendo esser venuti dal cielo a Roma onde chiarirsi quanto ci avesse di vero nelle notizie da Pasquino recate in cielo circa le innovazioni papali contrarie alla divina scrittura. Mentre essi van cercando maniera di penetrar nella Corte, monsignor Clero esce con Felino discorrendo della congregazione di cardinali eletta per inquisire; dove Bertuccio si pone a inveir contro costoro e contro monsignor Della Casa, il Muzio giustinopolitano, il vescovo Stella, ed altri impugnatori della Riforma. I due apostoli, convintisi del traviamento della Corte romana, declamano in modo, che Bertuccio si converte affatto alle dottrine di Lutero e Zuinglio, dei quali sono esposti i dogmi e le discipline. Al quinto atto, la catastrofe s'avvicina. L'angelo Rafaele e la Grazia Giustificante scesero dal cielo; questa decapita il re Libero Arbitrio: l'angelo racconta il caso ai due apostoli, e il papa esser l'anticristo, e grave giudizio sovrastare alla cattolica potestà. Fra ciò sopraggiunge in trionfo la Grazia Giustificante, e impone all'angelo di divulgare per tutto la sentenza da Dio pronunziata contro l'intruso tiranno, che «l'Anticristo sia, col coltello dello spirito che è la parola di Dio, a poco a poco ucciso»; e ragionando cogli apostoli, mette a parallelo i canoni sacri colle dottrine di Roma, rilievandone le contraddizioni[188]. Come già vedemmo a Treviso e a Modena, così a Vicenza nel 1546 era una adunanza di eletti ingegni, quali Valentino Giulio di Cosenza, il Paruta, il Gribaldo, il Biandrata, Giampaolo Alciato, l'Ochino, Lelio Soccino, che intertenevansi di dispute religiose, e spingeano la critica fino a negare la Trinità. Le persecuzioni allora cominciate gli obbligarono a disperdersi, e andarono pel mondo apostoli di eresia. Giulio Ghirlanda trevisano e Francesco di Ruego, malgrado la nobiltà, la ricchezza e la fama, vennero messi a morte, e dagli Unitarj sono contati fra i loro martiri[189]. È singolare che di quell'accademia, della quale tanto si discorre, nulla si sa, nè tampoco il titolo, o dove s'adunasse, o il decreto che la condannò. La tradizione, forse non fondata che sulla bizzarria della facciata, porterebbe si raccogliesse nella casa Pigafetta o in una nel pianoro vicentino, ove i colli a Lonedo si attaccano alla montagna; e segnasi la via per la quale fuggendo ricoverarono in Germania. L'eresia dovette essere favorita dal disordine in cui la Chiesa vicentina era abbandonata dal cardinale Ridolfi, tantochè ne fu mosso rimprovero davanti al Concilio dal vescovo di Calaora, ch'era stato mandato colà da Paolo III quando ideava raccoglier il Concilio nella gentile città. Certamente i sopranominati apparvero poi fra gli Antitrinitarj, sicchè possiamo indurne che questa eresia vi fosse comune. Principalmente la famiglia Thiene fu involta in quella persecuzione. Giulio e Brunoro, esigliati nel 1532, si erano ricoverati a Mantova colle mogli, di casa Camposampiero. Quivi Giulio uccise la cognata, sotto pretesto di averla côlta in colpa, ma dissero per trarne a sua moglie l'eredità: questa moglie stessa fu trucidata nel 1553, non sappiamo da chi. Giulio è nominato in una sentenza dell'Inquisizione di Vicenza del 4 aprile 1570, e in una di quella di Cremona del 1580, per le quali era spogliato dei beni, ch'egli però avea già trasferiti ne' figliuoli. Stabilì poi la sua casa in Francia ove si propagò. Odoardo Thiene, conte di Cicogna, feudo padovano, generoso protettore de' letterati e del Palladio, lasciata la patria del 1557, si pose in Isvizzera, favorendo chi fuorusciva per religione; ricevette la dedica del discorso di Alessandro Trissino, pur vicentino e pastore a Chiavenna, intorno alla _Necessità di ritirarsi a vivere nella Chiesa invisibile di Gesù Cristo_ (1572): morendo nel 1576 lasciò erede principale Giulio, e destinò esecutori testamentarj Teodoro Beza, Nicola Balbani, Prospero Diodati. Dalla Camposampiero era nato Tiso Thiene, a cui il padre fece dono della sostanza: ma l'Inquisizione di Cremona cassò quell'atto, perchè era tenuto calvinista: e la donazione fruttò ai nipoti, che tornarono al culto degli avi. Dalla Camposampiero nacque pure Antonio, che visse in Francia, ed era signore di Chelles e Tourane nel Delfinato. Il Sant'Uffizio di Cremona non tenne buona la procura che, al 3 giugno 1569, stando in Basilea, fece in Francesco Borroni, il che lo dà a credere eretico; ma dovea discordare dal conte di Cicogna, che lo espunse da' suoi eredi, col pretesto fosse già ricco. Alessandro Thiene fece testamento l'11 maggio 1566, prima di fuggire da Vicenza: morì nel 1568 in Spira: e i suoi beni furono confiscati dalla Inquisizione di Cremona. Nicolò, magistrato municipale nel 1558, esulato da Vicenza divenne scudiero di Enrico III e fe testamento nel 1579. Aveva moglie una Leoni di Padova, dalla quale generò Ermes, che anch'egli abbracciò i riti calvinici, e visse a Corcelles. In Francia andò pure, probabilmente per causa di religione, Adriano Thiene, amico del Palladio, che fece testamento nel 1550. Di questa famiglia era economo Francesco Borroni vicentino, a cui dicemmo ch'essi diedero una procura da Basilea il 3 giugno 1569. Venuto a Cremona per affari de' suoi principali nel feudo di Rivarolo, vi fu preso dall'Inquisizione, che questo feudo confiscò, e lui condannò al fuoco il 3 agosto 1580. Coi Thiene aveano grand'entratura i Pelizzari, che li seguirono nell'esiglio, e posero banca a Lione. A Londra si piantò Gaspare Gato mercante di seta, e alla regina Elisabetta regalò un par di calze, fatto con seta nata, filata e tessuta in Inghilterra. Le espressioni de' contemporanei fan credere appartenesse alla società ereticale. Alcune frasi del testamento del 1575 fecero noverar fra gli aderenti al calvinismo anche Volpe Brunoro. Una lettera del 7 marzo 1591 di Gabriele Capra narra che i figli di Marcantonio Franceschini tolsero per forza una loro sorella al convento, e la voleano convertire; ma questo non basta per farli credere eretici. Di Giulio Pace, altrove da noi mentovato, fu quartogenito Giacomo, che tornò cattolico, e stette professore a Padova. Una sentenza del 5 luglio 1570 del tribunale ecclesiastico di Vicenza, firmata da Antonio Rutilio vicario generale e frà Andrea da Materno inquisitore speciale, condannava Francesco Renalda e Giambattista Trento. Quest'ultimo, ricoverato in Inghilterra e postosi ospite del ministro di Stato Francesco Walshingam, protesse i profughi per religione: nel testamento del 2 marzo 1588 beneficava i fratelli Pelizzari suddetti; i suoi libri ed altro lasciava alla chiesa italiana in Londra, nominando esecutore il Walshingam, e volle esser colà sepolto in San Nicolò. Nel martirologio di Ginevra è notato Ricetto da Vicenza, che il 15 febbrajo 1565 a Venezia fu posto sopra le famose due gondole unite, che poi separandosi lasciavano cadere in mare il condannato. Ivi cercò un mantello perchè sentivasi freddo. «Che freddo? (gli rispose alcuno). Ben maggiore n'avrai ben tosto in fondo al mare. Che non cerchi piuttosto salvar la tua vita? Fin le pulci fuggono la morte» — «Ed io (rispose) fuggo la morte eterna». In un manuscritto di memorie autografe, or posseduto da monsignor Marasca di Vicenza leggesi: «1559 a dì primo zunio morse ne le preson monsignor Augustin da Cittadella, e dappoi morto fu posto in Campo Marzo, e lì brusado per luterano»[190]. All'11 marzo 1585 Giovanni Strozzi scriveva al granduca di Toscana da Trento: «Qui s'è detto che inverso Lione sono state intercette lettere di Vicentini, che da Vicenza mandavano a quelli di Lione, confortandoli a difendersi costantemente e non dubitare, perchè presto verrebbe tempo che tutti insieme godrebbero della comune vittoria». E al 15: «Essi inteso che a Vicenza sono stati presi, per ordine del consiglio dei Dieci, alcuni gentiluomini per conto d'eresia, forse per occasione di quelle lettere intercette, che per l'altra dissi a vostra eccellenza illustrissima». Del poeta Gian Giorgio Trissino accennammo altrove le libere critiche contra il clero, ma non v'è ragione di aggregarlo ai miscredenti. Fra i tanti che v'aspiravano, egli fu prescelto a sorreggere lo strascico del manto papale nella coronazione di Carlo V a Bologna. Venuto nel 1542 a lite col figlio Giulio ecclesiastico, lo dipingeva qual luterano, sedotto da Pellegrino Morato e da un prete Salvago, probabilmente vicentino; e che seguisse e favorisse gli eretici, e ne adduce qualche prova. Carlo Sessi nacque da Gian Lodovico e Caterina Confalonieri a Sandrigo, donde i suoi erano feudatarj, e donde lo menò via il vescovo di Calaora, ch'era al seguito di Carlo V, e gli diè sposa una nipote. Dicemmo come fosse vittima dell'Inquisizione di Spagna l'8 ottobre 1559. I suoi figli rimpatriati, si stabilirono a Verona. È noto come nel 1560 si trattava di congregar il Concilio generale a Vicenza: ma la Signoria veneta vi renuiva perchè potrebbe nel Turco destar sospetti che, sotto velo di religione, si macchinasse altro; e perciò molestare i sudditi della serenissima. Grand'avversario degli eretici mostrossi san Gaetano Thiene da Vicenza, il quale vantasi d'averne convertiti molti sul patibolo, come fecero pure i Teatini da lui istituiti, e introdotti in patria nel 1595. Dopo quest'anno era da quel Sant'Uffizio condannato a morte Francesco detto il Tartarello, per eretico relapso; ma un Teatino riuscì a farlo ricredere e salvarsi. Presto vi erano stati introdotti anche i Barnabiti, che vi fondarono l'Opera della missione per ricoverare convertite, e teneano congregazioni di laici per opporle a quelle di eretici. Convien dire fossero benedetti di molti frutti, giacchè nel 1550 i loro avversarj sollevarono una persecuzione contro di essi, tacciandoli di turbolenti e fin di eretici, e riuscendo a farli cacciare. Sappiamo di altri protestanti che abitavano il paesello di Calvene. A Schio ed Arzignano nel 1562 allignava la setta degli Angelicati, a estirpar la quale fu mandato il padre Pagani. Don Silvestro Cigno prete vicentino, predicator famoso tra il 1541 e 1570, deplorava esistesse colà la setta dei Donatisti e dei Ribattezzatori. Girolamo Massari d'Arzignano, a Strasburgo insegnò medicina. Alcuni tra' suoi amici e settarj, sbigottiti dalla persecuzione, eransi professati cattolici, e lui l'esortavano a far altrettanto, togliersi dalla comunione ereticale, e venir a una conferenza con essi. Egli ricusò, temendo fosse un lacciuolo per catturarlo, ma perchè alcuni gliene davano colpa, scrisse un libro, ove finge che un Eusebio Uranio, prigioniero a Roma, renda conto della sua credenza davanti al papa e all'Inquisizione. Son tre giornate: i giudici parlano pochissimo, troppo l'accusato che esce in lunghe digressioni[191]. Nel 1536 stampò _De fide ac operibus veri christiani hominis ad mentem apostolorum, contra evangelii inimicos_, nella cui prefazione accenna a molti italiani dimoranti in Basilea. Fe pure una versione latina e parafrasi del trattato d'Ippocrate _De natura hominis_ (Strasburgo, 1564), una grammatica tedesca ed una ebraica, e morì a Strasburgo il 1564. Domenico Cabianca di Bassano, d'anni trenta, fu condannato a morte dal Sant'Uffizio di Cremona, e alcuni dicono fosse il primo che venisse ucciso a Roma per apostasia: come di martire ne scrisse la vita Francesco Negri. In Valtellina nel 1594 troviamo profugo a Morbegno Bernardo Passajotto, vicentino. Poi quando que' valligiani uccisero tutti i Protestanti, caddero fra questi Anna Liba di Schio, moglie d'Antonio Crotti, con un bambino alla mammella, e Paola Beretta monaca pur di Schio, che fuggita di convento, avea sposato il frate Carolini. Quest'ultimo, tradotto a Milano, dicono si salvasse abjurando. Nella biblioteca Silvestriana di Rovigo esistono gli Elogi de' Rodigini di Giovanni Bonifazio, fra' quali è menzionato Domenico Mazzarella, eccellente nella legale e nella poesia, che dettò in italiano un dialogo della filosofia nel 1568, e altri lavori, ma _tristi fato has regiones penitus deserere coactus est_. Baldassare Bonifazio, altro biografo, ricorda Teofrasto Mazzarella figlio di Domenico, nato in gran povertà, brutto, guercio, ma di bell'ingegno nelle leggi, nella poesia e nella fisica, che scrisse in italiano un sermone della filosofia: ma poi, quasi fossegli guastato lo spirito dal corpo, mentre la patria prometteasi da lui gran cose, _factus pharabuta, perduellis, disertorque fidei, Genevam repente contendit, ubi sumptus inter novatores magister et ecclesiastes, maximos quoque apud hostes catholicæ religionis obtinuit honores, si tamen infamibus viris in ignominioso impiorum asylo ullus esse honor potest_. E in nota è soggiunto che fu scomunicato e dichiarato infame in chiesa di San Francesco. Pare che Domenico e Teofrasto sian una persona sola. Un trattato di massime religiose stampato a Ginevra accenna in fatti «Mazzarella Domenico accademico degli Addormentati in Rovigo: pei rigori dell'Inquisizione abbandonò la patria e si recò a Ginevra ove si fece calvinista: diventò predicante di quella comunità, e cangiò il suo nome in quel di Teofrasto; è fama che morisse assassinato nel letto da un domestico sul finire del secolo XVI». I riscontri che cercammo nella sua patria poco ci soccorrono. Neppure il Friuli fu mondo di eresie. Nel 1558 il senato veneto deputò commissarj, che uniti a quelli del patriarca d'Aquileja, inquisissero alcuni eretici in Cividale[192]: al tempo stesso che il luogotenente del territorio di Gradisca metteva in avviso il capitolo d'Aquileja contro il suo vicario di Farra, il quale ricusava levare e accompagnar i morti secondo l'antico rito; toglieva le divote immagini, e vietava a' suoi il venerarle[193]. Il Grimani patriarca d'Aquileja fu processato dalla Inquisizione di Roma per opinioni intorno alla predestinazione; laonde nella promozione de' cardinali del 1561 fu escluso, malgrado le istanze della Signoria di Venezia; dovette ritrattarsi a' piedi del papa, e non fu assolto se non dal Concilio Tridentino, ove molti teologi opinarono che le sue sentenze erano quelle di sant'Agostino e de' santi padri. Nel 1571 il luogotenente della Patria del Friuli, richiesto dal vicario del patriarca e dall'inquisitore, spediva Zanetto Foresto, accusato d'eresia, come da una ducale di quell'anno nell'archivio di Udine[194], ove ha pure un decreto del luogotenente del 1580, che annulla un processo in materia d'eresia, fatto in Gemona dagli Inquisitori senza che vi assistessero il luogotenente e due dottori, a norma delle leggi. Giorgio Rorario di Pordenone credesi autore delle note marginali alla Bibbia tedesca di Lutero[195]. Col Vergerio avea tenuto corrispondenza Orazio Brunetti di Porcia, militare, istruito nella medicina dallo Zarotto di Capodistria. A Venezia nel 1548 stampò lettere, che abbondano in senso protestante, e combatteva il cattolicismo collo svisarlo in molti opuscoli italiani, nè pregevoli per scienza nè belli per forma, senza lealtà nè convinzione. È memoria di Bernardino Gorgia, che, sul fine del Cinquecento, fuggito dalle carceri del Sant'Uffizio di Udine, predicò le massime luterane nella parte austriaca del Friuli, insieme con Federico Soriano di San Vito[196]. Jacopo Maracco, vicario del patriarca d'Aquileja, diffuse colà le massime nuove, e non profittando quanto desiderava, si volse a predicarle nella parte veneta del Friuli, dove già la bandivano il Primosio, il Vergerio, Nicola da Treviso, gli anzidetti Gorgia e Soriano. Nel 1567 col Carnesecchi fu mandato al fuoco un frate di Cividal di Belluno come relapso. Chi era? Giulio Maresio, essendo di diciotto anni tornato in Belluno dallo studio di Bologna verso il 1541, fu circuito da un Francescano imbevuto delle nuove dottrine, dandogli anche a leggere scritture ereticali. Ma quando nel 1551 ebbe a Padova ottenuto il grado di dottore in teologia e di guardiano nei Conventuali di Belluno, quel frate per invidia lo accusò di eresia al vescovo, il quale mandollo a Venezia all'inquisitore. Poichè questi volea metterlo in carcere, egli fuggì a Roma presso il generale Giacomo di Montefalco: e trovandolo morto, raccomandossi al cardinale Maffeo protettor dell'Ordine, che umanamente lo accolse e lo spedì a Bologna. Quivi il reverendo Giulio Magnano lo chiuse in prigione, minacciandolo della galera e del rogo se non confessasse d'aver dubitato d'alcuni articoli di fede; e fu obbligato leggere una formola di ritrattazione, e condannato a cinque anni di confino in Polonia. Il quarto anno, Florio Maresio suo fratello gli dava buone speranze da parte del generale Magnano; ma altri misero in sospetto l'inquisitore se lo lasciasse rimpatriare. Fu allora che il Lismanino, giunto colà dalla Svizzera, lo persuase a gittar la tonaca, e andare apostolando con lui; lo spedì poi a studiar greco ed ebraico in Isvizzera, dove Lelio Soccino lo tenea ben d'occhio perchè non si restituisse in Italia, come ne mostrava sempre intenzione. In fatto, dolente per la morte di suo padre, e disgustato dell'Ochino, di Pietro Martire, del Soccino, fuggì in Polonia, e ritornò alla Chiesa e al suo convento. Nel 1566 gli fu fatto il processo dalla curia di Belluno, nel quale trovammo lettera sua, dal convento de' Francescani di Cracovia il 1560, in cui ad un suo superiore racconta questi fatti[197]; e potrebbe darsi fosse egli appunto il frate che venne arso col Carnesecchi. Nella contea di Gorizia penetrarono alcuni luterani della Carniola e della Carintia[198], ma erano poco favoriti; Giovanni Rauscher parroco vigilava perchè non sorgessero eretici, ed erano esigliati dal principe. Del Lismanin di Corfù, e del Lucar di Candia parliamo altrove. Al 20 febbrajo 1582 il residente veneto a Roma, informava della pubblicazione di diciasette inquisiti dal Sant'Uffizio, tre dei quali furono mandati al fuoco come relapsi, fra i quali Jacobo Paleologo di Scio, famoso eresiarca unitario, che riprovato per eccessivo sin da Fausto Soccino, girò assai per la Germania finchè fu tradotto a Roma. Lo nominammo nei Discorsi XXXII. Matteo Flach, nato in Albona d'Istria nel 1520, e noto col nome di Flacius Illiriens, studiò belle lettere a Venezia sotto l'Egnazio, e voleva ridursi monaco, ma un suo parente, provinciale de' Cordelieri, lo dissuase; andasse piuttosto in Germania. Questo provinciale era Baldo Lupatino di Albona, che molto adoprò a difondere la riforma nel Veneto, e che preso, fu in Venezia tenuto prigione venti anni, e dopo questi buttato in mare. Il Flacio a Wittenberg si pose scolaro di Lutero e Melantone, che molte accoglienze gli fecero, e cominciò la storia ecclesiastica, famosa sotto il nome di _Centurie di Magdeburgo_. Espertissimo nel cavar fuori documenti antichi, fra il resto trovò una Messa de' primissimi tempi del cristianesimo[199]. I Luterani ne menarono vanto come diversissima dagli usi recenti di Roma; ma postavi maggior attenzione, trovaronla sfavorevole ai loro dogmi, e diedero opera a sopprimerne tutte le copie, mentre il cardinale Bona la ristampò al fine de' suoi _Liturgici_. Nel _Catalogus testium veritatis_ (Basilea, 1556) il Flacio schierò le persone e scritture che prevennero o sostennero il protestantesimo. Incitatissimo contro il papato, però nelle opinioni non sempre si conformava ai capi, che lo diceano accattabrighe, intollerante: causò disordini, e parea che di questi si giovasse per tener in freno i principi. Mentre Melantone, che all'amor della pace avrebbe sagrificato tanto, scrisse un libro delle cose indifferenti (_De adiaphoris_), ove vuole non s'abbia a ostinarsi nel ripudiar riti e cerimonie, purchè non inchiudano idolatria, Flacio furibondo urlava si dovrebbero devastar le chiese, minacciar i principi d'insurrezione, piuttosto che tollerare una sola cotta[200]. Sosteneva in tutta forma che il peccato originale è la sostanza dell'uomo decaduto; sublimazione dell'errore, che eccitò moltissimi contraddittori. NOTE [149] Campo dicesi a Venezia quel che altrove piazza o largo. [150] Terrazzino. [151] Diarj manuscritti, T. XXIX, pag. 126 e 482. [152] LUTHEBI, _Op. compl. edit. Walch._ XXI, pag. 1092. [153] Ecco la parte, quale sta nella biblioteca di Brera a Milano, fra avanzi di carte tolte a Venezia nelle depredazioni del regno d'Italia. «E' stà sempre instituto del religiosissimo Stato nostro insectar li heretici et estirpar così detestando crimine, sicome nella Promission del ser. Principe et capitolar di Conseglieri nei primi capituli si legge, dal che sine dubio è processa la protetione che sempre il Sig. Dio ha havuta della Repubblica nostra, come per infinite esperientie di tempo in tempo si è veduto, onde essendo in questa materia dei strigoni et heretici da proceder con gran maturità, però. «L'anderà parte, che chiamando nel Collegio nostro il reverendissimo legato, intervenendo i Capi di questo Consiglio, gli sia per il Serenissimo Principe nostro, con quelle gravi et accomodate parole pareranno alla sapientia de sua Serenità, dechiarato quanto l'importi che questa materia sia con maturità et giustitia trattata et terminata in forma, che, giusta l'intention et desiderio nostro, tutto passi giuridicamente et con satisfation dell'honor del Signor Dio et della fede cattolica. Et però ne par debbino esser deputati a questa inquisitione uno o doi Reverendissimi Episcopi, insieme con un venerandissimo inquisitor, i quali tutti siano di dottrina, bontà et integrità prestanti _ac omni exceptioni maiores_, acciò non s'incorri nelli errori vien detto esser seguiti fin questo giorno: et unitamente con doi eccellentissimi dottori di Bressa habbino a formar legitime i processi contra detti strigoni et heretici. Formati veramente i processi, _citra tamen torturam_, siano portati a Bressa, dove per i predetti, colla presentia et intervento di ambi li Rettori nostri et colla corte del podestà et quattro altri dottori di Bressa della qualità sopra deta, sieno letti essi processi fatti, con aldir etiam i rei et intender se i ratificheranno li loro ditti se i vorranno dir altro: nec non far nove esaminationi et repetitioni et etiam torturar, se così giudicheranno espediente. Le quali cose fatte con ogni diligentia et circonspetione, si procedi poi alla sententia per quelli a chi l'appartien, giusta il Consiglio delli sopra nominati, all'esecution della qual, _servatis omnibus praemissis et non aliter_, sia dato il brachio seculare. Et questo anche si ha a servar nelli processi formati per avanti, nonostante che le sententie fossero sta fatte sopra di quelli. Praeterea sì efficacemente parlato con ditto Reverendissimo legato et datoli cargo che circa le spese da esser fatte per l'inquisitione, el facci tal limitation che sia conveniente et senza estorsion o manzarie, come si dice esser sta fatte fino al presente, sed imprimis si trovi alcun espediente che l'appetito del denaro non sia causa di far condannar o vergognar alcuno, senza over con minima colpa, sicome vien dimostrato fin hora in molti esser seguito. Et dee cader in consideratione che quelli poveri di Valcamonica sono gente semplice et di pochissimo ingegno, et che hariano non minor bisogno di predicatori con prudenti instrutioni della fede catholica, che di persecutori con severe animadversioni, essendo un tanto numero di anime quante si ritrovano in quelli monti et vallade. Demum sia suaso il Reverendissimo legato alla deputation di alcune persone idonee, quali habbino a riveder et investigar le mancanzie et altre cose malfatte, sindicare et castigar quelli che havessero perpetrati di mancamenti che si divulgano con mormoratione; universale et questo sia fatto de presenti senza interposizion di tempo per bon esempio di tutti. _Et ex nunc captum sit_ che, da poi fatto la presente essecutione con il Reverendissimo legato, si venga a questo Consiglio per deliberar quanto si haverà a scriver alli Rettori nostri de Bressa et altrove, sicome sarà giudicato necessario, et sia etiam preso che tutte le pignoration ordinate et fatte da poi la suspension presa a 12 dicembre pross. praet. in questo Consiglio, siano irrite et nulle, ne haver debbano alcuna essecutione». [154] _Monumenta Vaticana_, XCII e XCVIII. In quel tempo v'era famoso predicatore frà Zaccaria da Luni, che nel 1534 ottenne dal senato l'isola di San Secondo, ove molti concorsero sotto la regola di san Domenico. Vedi CODAGLI, _Hist. dell'isola e monastero di San Secondo_. Questo frà Zaccaria scrisse una _Defensio qua tuetur H. Savonarolam, sociosque ab hæresi immunes esse_; manuscritto già nel convento di San Marco di Firenze. [155] _Epistolæ_, col. 150 e 154, ediz. di Londra. [156] Vedi _Lettere d'uomini illustri conservate in Roma_. Parma 1853, p. 181. [157] Secondo LEBRET, _Staatsgescichte von Venedig_ II, parte II, pag. 1168. [158] MELANCHTONIS _epist._, T. I, pag. 100, e vedi ALLWOERDEN, _Hist. M. Serveti_, p. 34. [159] Pier Filippo Pandolfini, residente di Toscana a Venezia, ai 17 giugno 1546 scrive d'aver raccomandato al senato M. Francesco Strozzi, e n'ebbe in risposta dal principe che quei signori erano certificati esser lui innocente, e falsamente imputato d'eresia. E in altra del 23 luglio, che lo Strozzi avea detto villanie al legato e minaccie, e con ciò ritardato la decisione. Più tardi annunzia che fu liberato. Lo stesso scrive, ai 7 maggio 1547, che i Signori hanno creato tre uomini dei primi della città, che insieme col nunzio procedano contro a' Luterani. _Arch. Dipl. di Firenze._ [160] _Lettera di Valerio Amanio, 30 maggio; ibid._ [161] Cioè di Padova, Brescia, Cividal di Belluno, Vicenza, Bergamo, Feltre, Verona, Treviso, Udine, Chioggia, Adria, Capodistria. [162] _Giudizio sopra le lettere di XIII uomini illustri._ [163] Manuscritto nella libreria di Zurigo. [164] Il Romanin, nel vol. V, pag. 328 della sua _Storia di Venezia_, rimprovera me dell'aver detto che Venezia fu _severa e fino atroce_ nel punire gli eretici. Parli il fatto. Il Romanin era ebreo, e non poteva intender bene l'organamento cristiano, troppo poco conosciuto anche da' nostri. Egli dunque, a mostrare la mitezza del Governo veneto, cita i molti riguardi usati agli Ebrei. Che ci ha a fare? gli Ebrei non cadeano sotto la giurisdizione dell'Inquisizione o della Chiesa cattolica (lo dicemmo) se non in quanto tentassero fare proseliti. [165] Questo dispaccio dell'ambasciatore Matteo Dandolo, da Roma, 15 giugno 1550, trovasi nella Biblioteca di Brera. «_Excellentissimi Domini._ Lunedì poco dopo vespero, venne a me il reverendo Mignanello, già legato de lì, che è quello che, fuor che di cose di Stato, fa per la santità sua più che alcun altro, e mi disse, che ella me lo avea mandato per farmi intendere che quella mattina in concistoro quattro reverendissimi cardinali de' più vecchi e più gravi gli erano andati alla sedia a far grave querimonia de Luterani, che si trovano per il stato dell'Ecc. vostra, e della poca cura che se gli mette, proponendogli et eccitandola a volerne far lei qualche gagliarda provisione con mandargli un legato a posta per questo, o tutto quello, che gli parrà, per non lasciare andare più innanti in simili luoghi sì propinqui, tanta peste; che lei gli avea promesso e la buona diligenzia di quell'eccellentissimo domino, et ogni provisione necessaria o conveniente, ma che me lo avea voluto mandare a far intendere per lui, pregandomi a scriverne in calda forma, offerendogli l'opera sua, e di mandargli Legato o Prelato a posta, e qual altra cosa se gli saprà dimandare; ricordandogli, per il grande amore che porta a quel Stato, oltra il debito suo servizio al Signor Dio, quanto che gli può nuocere indubitatamente del particolare e temporale, et a non volersi fidare in questo de' suoi cittadini delle sue terre, perchè si può ben dubitare che l'Ecc. vostre non siano amate da tutti. Io per risposta gli dissi di quelle cose che altre fiate a Sua Santità ho detto, e di quel dignissimo Magistrato contro Luterani, e di quanto se gli opera con l'assistenzia de' suoi legali et auditori di essi; che sua signoria che gli è stata, ben lo potea giustificare: che di Venezia io ne ero quasi sicuro, ma di altri luoghi di quel Stato non sapevo altro, salvo che mi pareva di poter prometter, che da quell'amplissimo Magistrato non se gli manchi, nè se gli sia per mancare, sì che non potrà essere bisogno nè di Legato, nè di altro prelato; che l'Ecc. vostre non mancheranno del debito e solito loro verso il Signor Dio e cose sue, ma che io non mancherei di scriverglielo per il primo corriero; del che, se ben me ne avea fatta pressa, mostrò di contentarsi che io non glielo avessi ad espedire altrimenti a posta. Da buona via poi ho inteso, buona parte causa di questo essere stato alcuni frati inquisitori, che qui riferiscono cose grandi di Bressa, e forse anco maggiori di Bergamo; tra le quali di alcuni artesani, che vanno la festa per le ville, e montano sopra i alberi a predicar la setta luterana a popoli e contadini, e dicono esserne un processo da Bergamo già più di un anno mandato all'Ecc. vostra giustificatissimo contra simili, i quali non ne sentendo alcuna contraddizione, non che castigo, si sono invaliditi, e vanno continuando al peggio che ponno..... Nel fine mi disse, che quasi si era scordato di parlarmi di cosa molto importante. E mi entrò in questa, ma con gran dolcezza e dimostrazione di amorevolezza, con dire che gli convenia ben quest'ufficio per l'amor di Dio, ma lo facea anco per amor di quel Stato, pregandolo a voler avvertire in ogni modo, perchè gli ne potrebbe andar assai, e che quando gli vorrebbe provveder poi non potrebbe. Allegando l'Imperatore, che con un segno di croce nel principio si sarebbe potuto provvedere, e con non se ne aver curato, si può dire ne sii venuto a perder l'imperio, ch'el non sa che fare, nè che dire lì ove si attrova, nè come partirsi; che è pur più grande Stato assai quello che gli ubedia, che non è quello dell'Ecc. vostra replicandomi dirlo con non manco amore verso di quelle, che del suo debito verso il Signor Dio. Devenendo ai particolari massime di Bergamo e poi di Bressa, che di essa sa esser noto a quelle. E poi disse anco di Padoa, che quasi non ne può aver pazienzia, che in quel studio, ove sono tanti scolari teneri e nobili, si possono fornire di questa detestanda dottrina; della qual Padova io gli dissi, per haverne molta pratica come privato e in Reggimento che gli son stato, non ne aveva mai sentito parola. Mi disse, Non la trovareste così ora; so ben quel ch'io mi dico, ma per il vero di quel studio qui per molti è diffamato di tal setta un dottor piemontese, conduttovi già non molto tempo a uno de' primarj luoghi di legge. E lei continuando mi disse: Offerite a quei signori se gli paresse, che gli mandassamo o qualche prelato espresso per questo, o qual provisione che vogliano, che non ci sparagnino in quel che potemo, che noi non se gli sparagnaremo punto. Pregateli per l'amor di Dio, in nome nostro, per l'amor di Dio e per l'amor di loro, che sapemo ciò che gli dicemo. E per non mancar di quel tanto che per ora potemo, facevo ritornar il vescovo di Verona, che a nostro servizio stava in Alemagna, a custodire quella terra, che non s'infetti anche essa tra tante tanto infette. — Io laudai la santità sua del paterno e debito affetto alla religione, e la ringraziai di quello che la dimostrava a quell'inclito Stato, replicandogli le cose sopra dette di quel dignissimo Magistrato, e della diligenzia che in quell'alma città si usa, e che io non credevo si mancasse di usarla anco in quelle altre città sue; nondimeno che io non mancherei di scriverglielo diligentemente come la mi commettea, promettendogli diligenzia tale dell'Ecc. vostra che non gli sarebbe bisogno di altro Prelato per questo; ma gli offrirei quelle paternali offerte che la gli facea; e così me ne pregò di novo». [166] Da carte 139 del vol. I, Parti et decisioni del Consiglio dei X e maggior consiglio, segnato n. LIX del catalogo presente. Altre leggi si hanno sullo stesso argomento, del 29 dicembre 1550, del 13 marzo 1555. [167] Cod. DCXCVII, classe VII ital. nella Marciana. [168] Dispaccio da Roma, Cod. MCCLXXIX della Marciana. [169] _Archivio di Stato di Firenze_, filza 4898. [170] Cod. CCCLXVII, Classe VII ital. [171] Cod. Urbin. 859, fol. 325. [172] Vedi il nostro vol. I, pag. 176. A Riva di Trento, nel 1560 fu stampato un compendio della logica d'Averroè; molte volte ristampato, rimase classico fra gli Israeliti fino a questi ultimi tempi. [173] Ecco il preambolo del suo Trattato sull'anima, giusta il manuscritto della Marciana, classe VI, n. 190. _Explicaturi libros Aristotelis de anima, quamvis illis auditoribus eos exponamus, quos a rectæ veritatis tramite, quem aperit christiana religio, deviaturos nec timendum est, nec potest credi, ob sanctas et religiosas institutiones in quibus vivunt, tamen, ob nostrum legendi munus non debemus sine præfatione hujusmodi contemplationem aggredi. Estote igitur admoniti nos in hac pertractatione vobis non dicturos quid sentiendum sit de anima humana, illud enim sanctius me, et vere præscriptum est in sancta Romana Ecclesia: sed solum dicturum quod dixerit Aristotelis. Per sapientiam enim certe insipientiam assequeremur, si magis Aristoteli quam sanctis viris credere vellemus. Aristoteles enim unus est homo, et dicit Scriptura, Omnis homo mendax, Deus veritas; quare veritatem ex Deo ipso et ex sanctis hominibus, qui ex Deo locuti sunt, accipere debemus, atque illam semper et constanter anteponere omnibus aliorum sententiis, quamvis viri qui illas protulerint sint apud mundum in existimatione. Rationes omnes quibus Aristoteles, de anima loquens, videtur esse veritati contrarius solvunt præcipue theologi, ex quibus S. Thomas et alii ipso recentiores. Quare quotiescumque continget ut aliquid dicatur minus consonum veritati, habebitis apud istos quid sit respondendum, et ego illud opportune memorabo, quandoquidem in his libris hanc sum expositionem scripturus, ut nihil dissimulem eorum quæ ab Aristotele dicuntur, et dictorum fundamenta, prout ex ingenio potero, aperiam; quandocumque tamen aliquid accidet, quod a veritate christiana sit remotum, illud admonebo, et quomodo allata fundamenta sint removenda declarabo. Scitote tamen quod non sunt multa in quibus Aristoteles dissentiit a veritate, et illa non sunt ita demonstrata, ut non possint habere demostrationum resolutionem. Hic igitur est modus nostræ expositionis, quam non aliter facere debemus ex sacrorum canonum decreto._ [174] Sta nella biblioteca di Monte Cassino, n. 483. [175] _Selectarum disputationum theologic._, vol. I, p. 206. [176] _Elogi d'uomini letterati_, T. II, p. 124. [177] VIVES, _De veritate fidei_, lib. II, pag. 264. [178] _Bullarium Romanum._ [179] _Defensione al serenissimo doge Donato._ «Un certo Muzio, la cui professione è dettar cartelli e condurre gli uomini ad ammazzarsi negli steccati, è fatto teologo papesco in tre giorni, e di più bargello de' papisti. E se ne domandi il signor castellano di Milano se è vero che colui avesse preso la corte e la sbirreria, e fosse andato _cum fustibus et gladiis_ per prender quel buon servo di Cristo M. Celso Martinengo, e darlo in man degli Scribi e Farisei». Negli archivj di Ginevra è notato: «Il conte Celso Massimiliano Martinengo di Brescia arrivò in questa città nel mese di marzo 1552, e poco dopo fu stabilito ministro della Chiesa». [180] Filippo Gallizio scrive al Bullinger da Coira, l'ultimo di febbrajo 1552. «Celso Martinenghi, passando di qua, mi sostenne che non si può colle scritture canoniche provare la parola di trinità e di persone; e che noi non dobbiamo usar voci non usate da' Padri: che la verginità di Maria dopo il primo parto non ci è accertata dalle Scritture: che il battistero deve escludersi dal tempio... Comander si meraviglia che cosa vogliano: io credo rechino in petto cose che poi oseranno versar fuori..... Dall'Italia s'ode esservi chi non teme dire che Cristo nacque dal seme di Giuseppe, e quel che Matteo e Luca narrano della concezione di Cristo per opera dello Spirito Santo, non è altrimenti appoggiato al vangelo. Quelle teste ambiziose non possono requiare». E il Comander al Bullinger, 5 aprile 1552: «L'Italia è sbranata dagli Anabatisti, ed anche la nostra Valtellina. Il Martinengo, infetto di questa macchia andò in Inghilterra: mettansi in avvertenza i buoni contro costoro». [181] Il Morone, interrogato se conoscesse il Soranso, rispose: «Quest'uomo veniva qualche volta da me, e mostrava di esser riformato, e sempre mi parlava delle cose di Cristo. Ed una volta essendo lui stato chiamato a Roma, mi disse ch'era stato accusato in molti articoli, e lo trovai che voleva cavalcare a spasso fuor di Roma, e cominciò a parlare del matrimonio de' sacerdoti, e contendeva che questo si poteva fare, e che il cardinale Sfondrato avea tollerato un prete che avea moglie. Io non potea patir questa impudenza di parlare, e gli diceva che non era vero, e cercava con molte ragioni persuadergli il contrario». [182] HIERONIMI ZANCHII _Responsio ad Jo. Sturmium_. Nel tom. VIII delle _Oper. Theol._, col. 835. [183] MELCHIOR ADAM, _Vitæ Theol. exter._, p. 151. Vedi il nostro VOL. II, pag. 206. [184] Non nei Benedettini, come dice il Carrara nel _Nuovo Dizionario istorico_, pubblicato in Bassano nel 1796. Oltre quest'esteso articolo, del Negri parlò il Verci nelle _Notizie degli scrittori bassanesi_. Li contraddisse il grigione Domenico Rosio de Porta, ministro riformato a Soglio nel 1794, dirigendosi al delegato don Fedele di Vertemate Franchi; poi più diligentemente Giambattista Roberti, _Notizie storico-critiche della vita e delle opere di Francesco Negri_, Bassano 1839. È errore del Quadrio il farlo di Lovere. [185] Abbiamo desiderato notizie delle persone nominate in questa lettera; ma solo potemmo raccogliere dal sullodato signor Baseggio che il Fornasiero era agostiniano e bassanese, come anche il Testa; fuggirono di patria, nè più se ne seppe; nè si potè raccapezzare la corrispondenza ch'essi tenevano collo Spiera. [186] Il Vergerio ne fece la prefazione e alcune note nell'edizione del 1550, nella quale leggesi il nome di F. Negri. Se n'ha una traduzione francese anonima del 1559 colla data di Villafranca, cioè Ginevra, e una in latino dell'anno e luogo stesso. [187] _Esse diu mentitus erat se Papa per orbem_ _Semideumque virum, semivirumque Deum._ _At vere hunc, retegente Deo, nunc esse videmus_ _Semisatanque virum, semivirumque Satan._ _Atto_ III, sc. 4. [188] Altri fecero composizioni teatrali intorno alle controversie religiose. Nominatamente Tommaso Kirchmaier (_Maogeorgus_) di Staubing in Baviera compose _Incendia, sive Pyrgopolinices tragædia, nefanda quorumdam papistarum facinora exponens_ (Wirtenberg 1538): _Mercator, seu judicium, in qua_ (tragædia) _in conspectu ponuntur apostolica et papistica doctrina, quantum utraque in conscientiæ certamine valeat et efficiat, et quis utriusque futurus sit exitus, 1539_. Abbiamo anche una «Commedia piacevole della vera, antica, romana, cattolica ed apostolica Chiesa, nella quale dagli interlocutori vengono disputate e spedite tutte le controversie fra i Cattolici romani, Luterani, Zuingliani, Calvinisti, Anabattisti, Svenfeldiani ed altri». Romanopoli 1537. Si hanno tre medaglie coniate al Negri, e queste opere: _Rhætia, sive de situ et moribus Rhætorum._ _De Fanini faventini ac Dominici bassanensis morte, qui nuper ob Christum in Italia romani pontificis jussu impie occisi sunt, brevis historia._ Chiavenna 1550. _Historia Francisci Spieræ civitatulani qui, quod susceptam semel evangelicæ veritatis professionem abnegasset, in horrendam incidit desperationem._ Tubinga 1555 (probabilmente tradotta dall'italiano del Vergerio). [189] Lubienecius, nella _Hist. reform. polonicæ_, 1685, riferisce che nel 1546 si teneano congreghe a Vicenza: che un abate Bucalo fuggì di colà a Tessalonica con quaranta compagni: Giulio Trevisano, Francesco da Ruego, Jacobo da Chiari furono presi: quest'ultimo morì, gli altri furono strangolati a Venezia. L'abate morì a Damasco, e i suoi compagni si sparsero nell'Elvezia, in Moravia ecc. [190] Quest'onorevole amico ci ha pur comunicato un atto del notaro Bartolomeo Buzato del 29 novembre 1300, con cui il Sant'Uffizio di Vicenza vende a Manfredino quondam Zuanetto alcune case confiscate a Negro Misini: l'ordine dato il 20 ottobre 1227 ai frati di quella provincia di predicar contro i Patarini, giusta la bolla di Gregorio IX; un atto notarile del 4 dicembre 1281 con cui il vicario del vescovo di Vicenza condanna l'usurajo Sclate; e una del 9 febbrajo 1292, con cui l'inquisitore frà Bonagiunta di Mantova condanna Bartolomeo Spezzabraghe di Sandrigo a pagare 200 lire veronesi al Sant'Uffizio per bestemmie proferite contro il corpo di Cristo. [191] _Eusebius captivus, sive modus procedendi in curia romana contra Lutheranos; in quo est epitome præcipuorum capitum doctrinæ christianæ et refutatio pontificiæ sinagogæ; una cum historiis de vitiis aliquot pontificum, quæ ad negotium religionis scitu utiles sunt ac necessariæ._ Basilea 1535 e 1597. Prende il nome di _Hyeronimus Marius Vicentinus_; e falsamente l'opera è attribuita al Curione. Vi è aggiunto un _Modus solemnis et autenticus ad inquirendum et inveniendum, et convincendum Lutheranos, valde necessarium ad salutem sanctæ sedis apostolicæ et omnium ecclesiasticorum, anno 1519 compositus in M. Lutheri perditionem, et ejus sequacium_: per V. M. S. PRIERATUS ecc. Quest'indicazione d'autore è una falsità. [192] LIRUTTI, _Notizie del Friuli_, vol. V fine. [193] MORELLI, _Storia di Gorizia_, vol. I, pag. 295. [194] «_Aloysius Mocenico, Dei gratia dux Venetiarum, nobili et sapienti viro Danieli Priolo, de suo mandato locumtenente Patriæ Fori Julii fideli dilecto salutem et dilectionis affectum._» «Veduto quanto ne scrivete per le vostre dei XXI del presente e le scritture che in esse ci avete mandato in materia della richiesta fattavi dalli reverendi vicario del reverendissimo patriarca d'Aquileja, e dall'Inquisitore, perchè doveste intravenire alla espedizione di Zanetto Foresto di Brescia proclamato d'eresia, Vi dicemo con li capi del Consiglio nostro di Dieci che essendo, come è, che il tribunale del reverendissimo patriarca è solito tenersi in Udine, principal terra di questa Patria; nè essendo conveniente che esso tribunale si levi per andar a giudicar li rei ora in uno ed ora in un altro luogo, voi però debbiate intervenire all'espedizione del prefato reo; acciocchè, servatis servandis, sia spedito quanto prima, come parerà alla giustizia di esso tribunale.» «Datum in nostro Ducali Palatio, die XXVI januarii. Ind. XV 1571 (Dal _Lib. privil. civit. Utini_; carte 137). [195] _Monografie Friulane_, 1847, pag. 18. [196] LIRUTTI, _Vite de' letterati del Friuli_, vol. IV, pag. 395 e 418. [197] Reverendissime Pater et Domine Clementissime. Scribit D. Petrus, in priore sua canonica epistola, diabolum, leonis instar, circumire quaerereque quem devoret, unde monet idem Petrus ut ei, fortes in fide facti alacres intrepidique resistamus. Hanc Apostoli divinam sententiam veram esse, luculenter testantur divinae literae, quae tradunt diabolum ipsum suis fallaciis in ipso mundi exordio primis nostris parentibus insidias struxisse, imposuisse, et demum in extremum exitium una cum universa posteritate conjecisse. Hoc ejus vafrum et fallax ingenium adversus humanum genus semper exercuit, quo et Optimi Maximi Dei gloriam obscuraret, et homini, quoad fieri per ejus sedulitatem poterat, incommodaret. Modo excitavit tyrannos, qui corporibus, modo haereticos, qui bonorum et simplicium animis insidiarentur; nec unquam destitit quousque et Christum ipsum Dei Filium calumniis impiorum gravatum, agnum tamen innocentissimum in crucem egit. Cum autem Christus sibi Ecclesiam sanguine suo acquisivisset, et caput teterrimi illius serpentis contrivisset, non cessarunt parenti (?) frustra negotium Ecclesiae Domini adhuc facessere, eam omnibus scalis et machinis admotis diripere, diruere, ac solo aequare voluerunt; sed Dominus praesto semper fuit, et lupos, qui illam invadebant, procul fugavit. Inter alias autem pestes, quas mendacii pater diabolus in Ecclesiam Dei invexit, nulla fuit nocentior Martino Luthero apostata qui ante annos 40, Dei et propriae salutis oblitus, Ecclesiam Domini sponsam deserens, et aliam nescio quam imaginariam sibi fingens, novam doctrinam, nova dogmata, novosque ritus excogitavit, haecque omnia editis in lucem perniciosis libellis orbi christiano obtrusit. In quos et similes cum Dominicus Fortunatus Bellunensis theologus franciscanus, ante annos 30 incidisset, et, ut erat titulo magis quam re theologus, eorum lectione delectatus fuisset, evenit, ut post annos decem me quoque decemocto annorum adolescentem bonarum artium studiosum, e gymnasio bononiensi reducem, ad eorumdem librorum, quos mihi summopere commendabat, lectionem adhortatus fuerit. Ego vero, qui purus simplexque eram, et omnium liberalium artium, praesertim vero theologiae, cognoscendarum cupidus, purus, sic me induxi, ut non exignum hujusmodi librorum numerum emerem, quos per annos aliquod apud me servavi inspexi, legi, animo plane candido nec a sancta catholica Ecclesia vel tantillum alieno. Accidit vero ut me Patavii strenuam operam literis navante, in patriam Bellunum charissimorum parentum revisendorum gratia revocarer: ubi cum Fortunatus animadvertisset me non contemnendos fecisse in literis progressus, veritus ne paucos post annos illum et dignitate et auctoritate superarem, rationem commodam excogitavit, qua me patria pellere, adeoque pessumdare quandocumque vellet posset. Itaque mihi reditum Patavium adornanti, suasit ut literas ad fratrem meum sacerdotem, Franciscum nomine, virum bonum et Dei timentem, quem ille superstitiosum et hypocritam esse dicebat Patavio darem, et librum insuper aliquem ejus farinae ei relinquerem. Ego imprudens nihil mali hic latere putans, librum, cui titulus erat _Postilla Corvini_, reliqui; et cum primum Patavium rediissem, epistolam satis quidem juveniliter et imprudenter scriptam ad eumdem fratrem meum dedi, qua illum ad ejus libri lectionem, prudenter tamen, et superstitionem et hypocrisim relinquendam adhortabar. Hanc epistolam Fortunatus proditorie intercepit, et per totos quinque annos suppressit: interim vero amicitiam arctissimam mecum simulavit, et quotannis conscientiam confessione sacramentaria expurgare, et singulis fere diebus divinissimum Salvatoris nostri sacramentum ut alter Judas intra sua viscera recipere non est veritus. Anno vero nostrae salutis supra millesimum et quingentesimum quinquagesimo primo, cum doctor theologiae creatus et guardianus mei conventus electus in patriam rediissem, et sancte ac inculpate vivere instituissem, ille per totos duos menses me ferre non potuit, quandoquidem ad suam tyrannidem et vitam omnino impuram connivere nolebam: iccirco epistolam ipsam in lucem prolatam, reverendissimo episcopo Bellunensi, qui tunc aderat, obtulit; meque, cum sibi duos alios nequam ordinis nostri sacerdotes adjunxisset, haereseos accusavit. Episcopus judex, in re praeceps et parum aequus, inaudita parte, patrium solum vertere me jubet: minister provinciae guardianatu me privat, et Inquisitori ordinario sisti mandat. Ego male acceptus utrique pareo; libros, quos in agro Tarvisino suspectos habui, ad unum exuro; Venetias proficiscor; Inquisitorem accedo. Ille jubet me Tarvisium reverti, recipitque se revocaturum me esse Venetias post dies XV: expecto unum et alterum mensem; non parvos sumptus facio; et meis illic amicis gravis fio. Generalis quidem Jacobus Montifalchius per literas ministro mandat, ut me in tutum carcerem det, ibique diligenter ad suum usque reditum servet. Inquisitor me Venetias revocat, in carcerem conjecturus: amici consulunt, ne me Inquisitoris illius indocti, mali, et mihi infensi judicio credam, sed potius ut reverendissimum generalem accedam. Illis pareo, deque hoc toto negotio Inquisitorem admoneo, itineri me accingo, et Urbini generalem extinctum invenio. Romam recta propero; meque reverendissimo cardinali Maffeo, ordinis vice-protectori sisto: ille me amanter excipit, et me per literas diligentissime commendavit, ad reverendum Julium Magnanum vicarium generalem Bononiam mittit, is me indignissime acceptum quartana febre laborantem in tetrum carcerem conjicit, ibique totum mensem satis inhumaniter servat; post alterum fere mensem, facta per amicum quemdam meum 200 coronatorum fidejussione, Venetias se sequi jubet. Illic me sumptu meo viventem integrum mensem detinet; territat; deinde triremes, carceres perpetuos, ignes minatur; et tandem vi extorquet a me confessionem, quod circa articulos quosdam dubitaverim, quo apparentem aliquam causam condemnandi me habere videretur. Audet dicere facilius se mihi parsurum esse si hominem occidissem, quam quod scripserim eas literas: tentat subjicere me reverendissimi legati judicio, verum frustra. Discedit tandem, et me Inquisitoris illius nequam, cujus judicium detrectaveram, arbitrio linquit. Inquisitor praedam nactus, quam dudum optaverat, carnificinam de me instruit, et in quoddam privatum cubiculum venire jussum, quo multos actus publici testes futuros vocaverat, formulam abjurationis nescio quam mihi in manus dat, jubetque ut dare legam. Ego cum prius illam utcumque legendo percurrissem, rei indignitate motus protestor, me non esse reum eorum quae Inquisitor de me concinnaverat, asseroque lecturum me quidem esse Formulam ut scripta erat, quo semel tandem e manibus hominis illius liberarer, quin majora, atrocioraque lecturum, si talia in ipsa Formula continerentur; non tamen fateri propterea me juste puniri, sed Deo oppressorum vindice in testem vocato, affirmo constanter, me injuste opprimi atque damnari. Ad haec Inquisitor nihil respondit, nisi ut jusserat formulam ipsam legerem. Legi itaque, qua lecta ille me absolvit; deinde sententiam quam contra me tulerat, promulgari mandavit. Illam ego cum audivissem injustam adeo atque iniquam, ad Sanctum Tridentinum Concilium appellare decreveram: sed et monitis et precibus reverendi magistri Camini Bellunensis patri mei, qui aderat, mitigatus supersedi. Dicebat enim Deum vindicaturum propediem injurias, quibus afficiebar; sumpturum supplicium de proditoribus et jniquis iudicibus meis, quod sane fecit; et tandem innocentiam meam christiano orbi ostensurum, quod cito futurum spero. Venio in Poloniam, et hic totum fere quinquennium, quod temporis spatium exilii mei terminus erat, honeste catholiceque vitam duco. Elapso quarto mei exilii anno, reverendus Julius Magnanus generalis bonam mihi spem facit per literas reverendi domini Flori Archipresbyteri Bellunensis fratris mei germani, fore ut me cito in Italiam ab exilio revocet, si quidem meae vitae honeste catholiceque traductae fide dignorum hominum testimonium ante praemittam. Pareo, amplissimumque testimonium omnium meorum fratrum, quibus cum familiariter vixeram, et summi insuper Cracoviensis magistratus ad eum mitto. Ille testimonio accepto, nescio qua causa, revocationem ad generale capitulum, quod postea Brixiae proximo mense junio celebravit, usque prorogat. Illic de meo negotio cum provinciae meae patribus frigide tractat, tandem reverendo magistro Camillo Bellunensi provinciae Sancti Antonii ministro, patruo meo jubet, ut me in Italiam per literas familiariter revocet; promittitque daturum se operam, cum in Italiam venero, ut salva atque incolumi ejus existimatione, libertati et dignitati meae, quoad ejus fieri possit, consulat. Ego ad nova examina et judicia vocari me videns haesito, et quid mihi sit faciendum plane ignoro. Interea ex Italia amici et propinqui certiorem me reddunt, Inquisitorem in meo negotio reverendissimo generali adversari, omnemque movere lapidem ne ego ante absolutum quinquennium in Italiam redeam, minas insuper addit. Hic vero in Polonia apostata Lismaninus ab relvetiis redux, veluti ex Trophonii antro prodit: quem cum ego semel atque iterum cum aliis fratribus officii causa invisissem, ille, ut callidus est et versipeliis, audito mearum rerum statu, suis artibus ita me fascinavit et irretivit, ut propositis a parte sinistra, quae me manebant in Italia, poenis; a dextra vero praemiis, quae hic promittebat, nolentem me et tergiversantem in suam sententiam me pertrahere facile potuerit. Hoc autem dico quod ad habitum tempus ad deponendum attinet: quandoquidem quod ad fidei et catholicae religionis negotium pertinet, Deus scit me tale quidpiam in animo numquam habuisse. Cessi itaque dolens, cum ut a tyrannide illius Inquisitoris tutus essem, tum ut mutato statu experirer, tantum prosperiore aliqua fortuna uti possem. Cum autem unum et alterum mensem apud illum mansissem, observata ejus et sui similium religione ac vita, reditum ad meos meditari incipio, scriboque non semel ad reverendum commissarium, ut mittat qui me Cracoviam reducant. Lismaninus literas eas intercipit, et me in Helvetiam linguarum graecae et hebraicae addiscendarum causa mittere quamprimum tentat. Ego his angustiis circumseptus quid faciam aut quo me vertam nescio: tandem ejus in hac re consilio acquiesco, atque ad Helvetios, circiter calendis octobris anni 1556, me statim confero, sperans futurum ut illinc in Italiam redeundi aliqua mihi occasio daretur. Ticuro ad patrem scribo, eum de meo statu certiorem reddo; rogoque ut quamprimum potest ad me illinc adducendum ipse properet, aut aliquem e meis fratribus mittat. Lelius sozzinus Senensis literas eas, quas illi diligentissime commendaveram supprimit, meque et Italiam cito revisendi, et charissimos parentes meos aliquando amplexandi certissima spe privat. Circumventus ab his, qui se falso Fratrum titulis ornant, studio hebreae linguae per annum integrum me totum do; anno sequenti graecas literas salutare incipio, quo tempore literae de morte charissimi parentis mei nuntiae ad me scribuntur. Ego infausto hoc nuntio consternatus, de opera linguis ulterius navanda animum plane despondeo. Ad Lismaninum scribo, illumque supplex rogo, ut in Poloniam reduci me quamprimum curet. Ille cum subolfecisset me per sesquiannum nec artificiosissimis Ochini concionibus, nec praelectionibus doctissimis P. Martyris et aliorum non potuisse trahi in suam de religione sententiam; tantum abest, ut meo desiderio satisfecerit, ut nec minimo quidem responso dignatus me fuerit. Ad Deum tunc me converti, illumque precibus ex intimis cordis recessibus petitis continenter pulsavi, ut me e faucibus luporum ereptum Poloniae et catholicae Ecclesiae restitueret. Annuit statim clementissimus coelestis Pater, et meos labores ac aerumnas miseratus effecit, ut Italus quidam, religione excepta optimus vir mihi, se ultro obtulerit, reducturus secum me in Poloniam honeste et commode, nulloque meo sumptu, si vellem. Conditionem a Deo per hominem tam pie oblatam libens accipio, meque itineri statim accingo. Cracoviam ante biennium bonis avibus tandem redeo, et hic apud meos in Dei et proximi servitio, rugiente diabolo, qui me devorare volebat, catholice honesteque vivo; quod num verum sit, tu, piissime pater, fidelibus testibus, quibus cum familiariter vixi versatusque sum, scire facile poteris. Hic autem historiae hujus finis esto. _Articuli quatuor._ Quoniam vero Inquisitor, qui me judicavit ante annos novem cum ex Epistola mea ad fratrem, tum ex scheda quam a me extorsit vicarius generalis, articulos quatuor excerpsit, quos satis esse putavit ad meam damnationem, operae pretium erit illos huc adscribere, et brevi ac aperta responsione diluere. Primus est, aberrasse me dubitando aliquoties de purgatorio, justificatione, liberoque arbitrio. Respondeo, me sacrae theologiae studiis nondum initiatum potuisse facile de hisce articulis inter doctos nostri temporis controversis dubitare, cum viderem rationes et auctoritates sanctarum scripturarum, et veteris Ecclesiae sanctorum patrum utrinque adduci; cum autem in ea dubitatione numquam perstiterim, nec super his articulis aliquid unquam certi contra fidem catholicam asseruerim, non video qua ratione hunc articulum tamquam haereticum mihi affixerit, praesertim cum non dubitatio temporaria, sed assertio pertinax haereticum faciat. Secundus est, aberrasse me retinendo per multos annos nonnullos et varios libros haereticos scienter, quos etiam sciebam esse prohibitos. Respondeo verum quidem esse me libros hujusmodi retinuisse: hos autem libros tenebam et servabam, non ut abuterer illis, sed uterer tantum. Putavi enim abusum tantum verum prohiberi, non autem usum, cum nulla creatura plane sit, qua quis uti vel abuti non possit. Pulcherrima autem cogitatio fuit velle haereticos suis ipsorum gladiis jugulare. Quoniam vere errasse me fateor hos libros contra summi pontificis placitum retinendo, etiamsi non malo, ut dixi, animo; ita constanter assero me propter hunc articulum ab Inquisitore haereseos non potuisse aut debuisse damnari. Tertius est aberrasse me, quod ejus doctrinae haereticae fautor extiti hortando quemdam germanum meum, ut vacaret, daretque operam ut proficeret in eadem, in commodando et commendando quemdam librum haereticum et suspectum, Corvinum appellatum, promittens eidem illius professionis me alios libros mandare, quando cognoscerem suum profectum et studium in eisdem. Respondeo, meram esse calumniam et mendacium, quod dicit me doctrinae haereticae fautorem extitisse. Totus enim vitae meae transactae cursus ostendebat, me a doctrinae haereticae professione abhorrere. Si haereticus fuissem, poenitentia indulgentiaque anni jubilei quam Julius III omnibus Venetorum ditioni subiectis, qui superiore anno Romam ire non poterant, concesserat, meam conscientiam non purgassem. Quod autem articulum hunc probare contendit, propterea quod ad fratrem meum germanum epistolam illam suspectam scripserim, et librum reliquerim eiusdem farinae, nihil efficit. Ostendi enim supra, quod etiam Romam ad reverendissimum Alex. cardinalem (Alexandrinum?) scripsi, me proditoris suasu epistolam ipsam scripsisse, et librum eidem fratri meo reliquisse. Quando dicit recepisse, me missurum esse fratri meo libros ejusdem professionis alios, quando cognoscerem etc. impudenter mentitur: duo enim illa verba de suo infarsit, quae in meo exemplari numquam visa sunt. Non debui igitur adeo veteratorie mecum agere, et me, cum catholicus essem, etiamsi tunc, ut paulo post evenit, ruptus (?) fuisset haereticum facere. Quartus est aberrasse, quod parvipendi sacram canonum doctrinam existimans, facere ad hypocrisim, minusque prodesse animabus quam pestilentissimam doctrinam illam in eisdem libris haereticis prohibitisque contentam. Respondeo, et hunc articulum, quem mihi falso affingit, esse impudens mendacium. Ego enim sacram canonum doctrinam numquam parvipendi; immo manifeste apparet, me illam maximi semper fecisse, cum in ea epistola fratrem meum hortarer ad studium eorumdem canonum; quos dicebam, quod etiam in scheda repetii, veram sanctam scripturam interpretandi et veritatem a falsitate cognoscendi regulam esse. Apparet igitur Inquisitorem hunc, non Deum, sed suos tantum privatos affectus ante oculos habuisse, et me injuste, impie, et nihil minus quam christiane condemnasse. His articulis affine est, quod in sententia dicit, me spontaneam istorum articulorum confessionem fecisse, confirmasse, et ratificasse, cum actio ista omnis coacta fuerit ac violenta, ne dicam tyrannica, quemadmodum ipsa protestatio mea prae se tulit. Videat igitur, post Deum, singularis pietas tua hanc causam meam, et requirat. Itaque cum videas manifestissime, piissime praesul, quid egerim, quid passus fuerim per totos fere decem annos, quantam jacturam fecerim charissimorum parentum, libertatis, existimationis, fortunarum, valetudinis, aliarumque rerum; quam obedienter paruerim sententiae etiam iniquissimae; cum experiaris insuper, me recte de sacra catholica religione sentire, ea omnia, quae hominem christianum et verum catholicum decent, munia obire, in sancta romana Ecclesia constanter vivere ac mori velle, ab omni haeresi et haeretica professione alienissimum esse; per Deum et tuam pietatem te supplex rogo, velis me manu tandem mittere, in pristinam libertatem asserere, Italiae, patriae, propinquis, amicis, existimationique restituere, et ita restituere ne posthac in cujusvis invidi sycophantae arbitrium situm sit me haereseos insimulare aut damnare, atque adeo periculum aliquod vitae, existimationis aut fortunarum mihi creare; quandoquidem, praeterquam rem christiano episcopo dignam fecisse te scies, hominem vere catholicum sublevasse, et tibi etiam devinxisse perpetuo cognosces. Potestatem tibi fecit sanctissimus Pius IV, vivae suae vocis oraculo me absolvendi, liberandi, pristinae libertati et dignitati restituendi. Id ne differas exequi, quod heros tam pius jussit. Bonam meae paternae haereditatis partem jam exhausi; tempus, rem omnium pretiosissimam, inter Polonos et Helvetios frustra trivi discendo et docendo; propter multas causas fieri doctior non potui. Effice nunc, pater amplissime, ut una eademque opera omnia isthaec damna brevi temporis spatio tua singulari pietate sarcire possim. Omnia candide exposui, nihil sciens et prudens celavi. Vides, ex re minima quantas tragoedias per suos satellites excitavit rugiens ille leo diabolus. Privavit vita Deus suo justo judicio intra parvi temporis spatium auctorem mearum calamitatum, Inquisitorem illum iniquum, et tres alios mihi infensissimos hostes; spero, illum de reliquis quoque, qui superstites sunt, supplicium brevi sumpturum. Illis rogo ut pareat, ipsis ut meliorem mentem det. Hunc supplicem libellum, amplissime pater, tumultuarie scriptum, et plus aequo verbosum pro tua ingenuitate boni consule, ac vale. In nostro Cracoviensi Franciscanorum monasterio. Nonis Augusti MDLX». _Amplitudinis Tuae addictissimus cliens_, F. JULIUS MARESIUS BELLUNENSIS. La Maresia era famiglia cittadina ragguardevole, ma non appartenente al comune o consiglio dei nobili. Florio, figlio di Francesco, fu discepolo di Pierio Valeriano, che gli dedicò il V libro dei suoi Geroglifici, e fu arciprete del capitolo. Bonaventura Maresio, altro Conventuale, fu visitatore del suo Ordine in Polonia nel 1579, assistente e teologo del generale Antonio de' Sapienti al Concilio di Trento, e secondo inquisitore del Santo Ufficio a Belluno per quaranta anni, cominciando dal 1566. Devo tutte queste notizie al don Francesco de' Pellegrini. Il padre Domenico Fortunato, accennato nella lettera, è appunto il primo degli Inquisitori in Belluno, eletto a quell'ufficio nel 1546. Il vescovo del quale il frate si lagna era Giulio Contarini (1542-75) nipote del celebre cardinale Gaspare suo antecessore, al quale pure si raccomanda sul finire della lettera, e che lasciò fama eccellente di pietà e di sapienza. [198] Primo Trubero, nato nella Schiavonia il 1508, morto il 1586, fu il primo che adoprò la lingua schiavona a scrivere, traducendo il Nuovo Testamento, il Catechismo, la Confessione d'Augusta, e alcuni trattati di Melantone: pei quali la dottrina luterana si estese nella Carniola e Carintia. [199] _Missa latina quæ olim ante romanum circa septingentesimum domini annum in usu fuit, bona fide ex vetusto authenticoque codice descripta a_ MATHIA FLACIO. Strasburgo 1537. [200] MELCH. ADAM, _in Vitis philosoph._, pag. 195. DISCORSO XLVI. VENEZIA INTERDETTA. FRÀ PAOLO SARPI. IL DE DOMNIS. Con quanto iroso disprezzo i rivoluzionarj di settant'anni fa abbatterono l'italiana Venezia perchè antica, con altrettanta ammirevole pietà noi riguardiamo a quella gloriosa repubblica, che sempre ebbe per grido «Italia e indipendenza»: che aspirava all'egemonia di tutta la penisola, cui avrebbe ridotta a repubbliche municipali, invece degl'infausti principati: finchè la Lega di Cambrai, primo delitto della politica nuova, non venne a spezzare quella che gli ambiziosi chiamavano sua ambizione. I Veneziani erano stati i primi ad accettare il Concilio di Trento, sicchè Pio IV, oltre encomiarli, donò alla Repubblica il magnifico palazzo a Roma che tuttavia si dice di Venezia, con desiderio vi risedesse continuo un loro ambasciadore, siccome fu fatto. La serenissima in ricambio donò per residenza del nunzio in Venezia il maestoso palazzo Gritti. Nè queste cortesie, nè l'attenzione in perseguitare gli eretici, toglievano che i Veneziani si tenessero sempre sulle guardie nel trattare coi pontefici; riservavansi di concedere o ricusare l'erezione di chiese e conventi: di governare gli studj, eccetto i puramente ecclesiastici; di regolare le esteriorità del culto, e proteggerle; di riscontrare gli atti che venivano da Roma, e darne l'_exequatur_: non volevano impacci di ecclesiastiche immunità nel punire i delitti comuni[201]; anzi spingevano l'ombrosità fino a temere che i preti colla virtù acquistassero influenza sulla plebe. «La ragion di Stato non vuole che i suoi sacerdoti siano esemplari, perchè sarebbero troppo riveriti ed amati dalla plebe»; è scritto nel _Discorso aristocratico sopra il governo de' signori Veneziani_[202]. Un Gesuita raccoglie i gondolieri ogni festa per istruirli nelle cattoliche verità? la Signoria riflette che i gondolieri praticano con persone d'ogni grado, e quindi possono servire allo spioneggio, e proibisce quella congregazione, ed espelle il Gesuita. Un altro declama contro il carnevale, asserendo che quel denaro si spenderebbe meglio in soccorrere il papa nella guerra contro i Turchi, minacciosi alla Repubblica; e la Signoria lo sbandisce. Il clero indistintamente era tenuto sottoposto alla giurisdizione dei Dieci ed escluso dagli uffizj civili: qualora si recassero in discussione affari relativi a Roma, venivano rimossi dal Consiglio i _papalisti_, vale a dire che avessero aderenza con quella Corte, o soltanto parentela negli Stati pontifizj: e il 9 ottobre 1525 i Dieci risolsero, chi avesse figli o nipoti negli Ordini fosse escluso nel trattar qualunque affare concernente Roma. Allegando che il custodire Corfù e Candia, antemurali della cristianità, costava più di cinquecentomila scudi l'anno, Venezia ottenne dal papa un decimo delle rendite ecclesiastiche, non escluse quelle de' cardinali. Alle trentasette sedi vescovili l'investitura era data dal doge stesso, in nome di Dio e di san Marco; ma dopo la lega di Cambrai la curia romana n'avea tratto a sè la collazione, lasciando alla Signoria solo un quarto delle nomine, sebbene le altre non potessero cadere che in sudditi veneti. Quando Innocenzo VIII pretese l'incondizionata elezione dei vescovi di Padova e d'Aquileja, la Signoria si oppose, com'anche alle decime ch'e' voleva levare sopra le istituzioni di beneficenza. Pio IV nomina vescovo di Verona Marcantonio da Mula, allora ambasciatore a Roma; e la Signoria ricusa riceverlo; così fa quando lo elegge cardinale, e ai parenti suoi vieta d'assumere la veste purpurea di seta in segno di festa; e ne manda scuse al papa, scrivendo: «Noi siamo schiavi delle nostre leggi, ed in ciò consiste la nostra libertà». Nè volle che il Vendramin, eletto patriarca, dovesse subire l'esame a Roma; proibì di ricevere o pubblicare la bolla in _Cœna Domini_. Gregorio XIII, quando volle ordinar la visita generale delle chiese venete, come erasi fatto di tutta la cristianità, trovò somma opposizione: in nessun tempo essersi ciò praticato nel dominio: ne sarebbero scompigliati i paesi di rito greco o confinanti coi Turchi: si arrivò fin a minacciare di unirsi alla Chiesa greca; e solo con somme precauzioni nel 1581 fu lasciata operare, ma da prelati indigeni[203]. Quando gli ambasciadori veneti andarono a Ferrara a congratularsi con Clemente VIII dell'acquisto di quella città nel 1598, il papa chiese loro, che anche la Repubblica ajutasse a quel ch'egli faceva cogli infedeli convertiti, procurando ad essi modo di vivere, impiegandoli o come palafrenieri e cavalleggieri, o a cavar terra o pietre o altro; che non lasciassero vivere in ghetto gli Ebrei fatti cristiani; che molti vivendo in bigamia, sebben questo reato spettasse al Foro laico, se ne lasciasse il giudizio all'Inquisizione senza ledere la giurisdizione civile; che si procedesse con dolcezza nell'esigere le taglie de' beni ecclesiastici[204]. Della giurisdizione sovra persone ecclesiastiche Venezia era tanto gelosa, che gl'Inquisitori di Stato, avuto spia come in casa del nunzio si discorreva «che l'autorità del principe secolare non si estende a giudicar ecclesiastici se questa facoltà non sia concessa da qualche indulto pontifizio», stabilì che i prelati paesani, i quali tenessero simili discorsi, fossero notati su libro apposito come «_poco accetti_, e si veda occasione di farne sequestrare le entrate; e se perseverino, si passi agli ultimi rigori, perchè il male incancrenito vuol al fine ferro e fuoco». Quanto ai curiali del nunzio, se tengono di tali propositi fuori della Corte, «sia procurato di farne ammazzar uno, lasciando anche che, senza nome di autore, si vociferi per la città che sia stato ammazzato per ordine nostro, per la causa suddetta»[205]. Nel 1603 il nunzio movea querela perchè l'ambasciadore d'Inghilterra facesse tener pubbliche prediche in sua casa: vero è ch'erano in inglese, ma potrebbe anche presto voler farle in italiano. La Signoria rispose che, trattandosi di re sì grande come l'inglese, e del quale è preziosa l'amicizia, non poteasi impedir al suo ministro d'esercitare il proprio culto; vorrebbero però pregarlo di non ammettere altra gente[206]. Un frate a Orzinovi pubblica un libello contro un magistrato veneto, e questo lo fa arrestare, togliendogli di mano il Santissimo, ch'egli avea preso per garantirsi. Condannato un prete marchigiano, la Signoria manda al patriarca che lo sconsacri; e poichè questi esitava, alcuni in Consiglio propongono di dargliene ordine preciso; altri soggiungono che con ciò s'impiglierebbe in futuro il corso della giustizia, e perciò si mandi al supplizio senza degradazione. Egualmente la Signoria fa carcerare Scipione Saraceno canonico di Vicenza e l'abate Brandolino di Narvesa nel Trevisano, imputati di nefandità, e rinnova l'antico decreto che gli ecclesiastici non possano acquistare beni stabili, e devano vendere quelli che ricevessero per testamento, nè si fondino nuove chiese senza beneplacito del senato. Se n'adontò Paolo V. Era egli stato Camillo Borghese, e salito papa senza brighe, si credette eletto dallo Spirito Santo per reprimere gli abusi che aveano abbassato la Santa Sede. Di rigorosa virtù, erogava dodicimila scudi l'anno in limosine e doti; censessantamila ne spese in erigere quel maestoso tempio ch'è Sant'Andrea della Valle, e moltissimi in doni a Loreto e ad altre chiese e santuarj. Degli affari decideva egli stesso, anzichè riferirne in concistoro; insistette perchè i vescovi risedessero; voleva istituir una congregazione per istudiare i mezzi di ampliare l'autorità ecclesiastica e _mortificar la presunzione de' governi secolari_, e ripeteva: «Non può darsi vera pietà senza intera sommessione alla podestà spirituale». Per questa lottò con Malta, con Savoja, col senato di Milano, coi governi di Lucca e Genova non solo, ma con Francia e Spagna, e sempre prosperamente. Col doge si trovava già in iscrezio per affari di decime, di franchigie, di commercio, di guerra coi Turchi; e guardava di mal occhio questa Potenza, oculatissima ad escluder gli ecclesiastici da ogni maneggio d'affari, a non mantenere pensionarj a Roma, a esiger tasse anche dai beni ecclesiastici, allegando ch'erano un terzo dell'intero territorio; a voler giudicare anche i preti per le colpe ordinarie: e anticipando una qualifica che Federico di Prussia applicò a Giuseppe II, diceva al Contarini: «Signor ambasciatore, con nostro grandissimo dispiacere intendiamo che i signori capi dei Dieci vogliono diventar sagrestani, poichè comandano a' parocchiani che all'_Ave Maria_ serrino le porte delle chiese, e a certe ore non suonino le campane». Nato quell'aperto «pretesto di spiritualità» che dicemmo, scrisse minaccie al doge, e non ascoltato, radunò un concistoro, nel quale quarantun cardinali, eccetto un solo veneziano, convennero non potersi spingere più oltre la tolleranza: sicchè il papa mandò monitorj il 25 dicembre 1605, poi la scomunica, espressa con una severità che ripugna ai tempi[207]. La Signoria se ne mostrò addolorata, ma non cambiò tenore. Potea facilmente rassettar la cosa col consegnare al Foro ecclesiastico uno dei due arrestati; ma prevalse il puntiglio e il voler braveggiare contro la maggiore autorità; ed avviluppandosi nelle meschinità consuete a chi fa guerra ai preti, intimò guai a chi «lasciasse pubblicare il monitorio»; impose che gli ecclesiastici continuassero le uffiziature pubbliche e ad amministrar i sacramenti: dietro ciò guerricciuole contro chi disobbediva; ai vescovi di Brescia, e di Treviso, al patriarca di Udine minacciar confisca e peggio; si citino l'arcidiacono Benaglio e l'abate Tasso; si puniscano preti e frati d'Orzinovi e il Lana arciprete del duomo di Brescia, renitenti; si obblighi ai divini uffizj l'inquisitore di Brescia, che se ne astiene allegando le sue molte occupazioni: e perchè reluttò, sia bandito; si scarceri il priore dei Domenicani, dacchè promise obbedire al Governo; s'arrestino i commissarj apostolici: lamenti contro i frati di Rodengo, contro i rettori di Verona per renitenze di que' preti: lode ai rettori di Bergamo per aver ingiunto ai cappelletti e soldati côrsi d'impedire a qualsivoglia curato di partirsi dai luoghi, nello spirituale sottoposti all'arcivescovado milanese; suggerir che il conte Martinengo generale di cavalleria, sotto pretesto d'andare a caccia, vada a rinfrancare que' curati nell'obbedienza; i rettori _così alla sorda_ chiamino due o tre per volta i confessori, scandaglino le loro opinioni in materia d'interdetto, e i renitenti puniscano a loro arbitrio; si sorveglino le monache che stavano in carteggio con Roma e non andavano alla messa[208]. Al vicario del vescovo di Padova, che rispose farebbe quanto lo Spirito Santo gl'ispirasse, il podestà soggiunse: «Lo Spirito Santo ispirò ai Dieci di far impiccare chiunque recalcitra». Bandironsi Gesuiti, Teatini e Cappuccini, i quali, tenendosi obbligati d'obbedire al papa anzichè al principe secolare, andarono via processionalmente dallo Stato, con un crocifisso al collo e una candeletta in mano[209]; e restò proibito di scrivere e ricevere lettere a e da' Gesuiti, pena il bando e la galera come pel lasciare figliuoli ne' loro collegi. Sarebbe bizzarro e, mutati i costumi, avrebbe riscontro in altri tempi il descrivere le intime dissensioni delle terre e delle famiglie sull'obbedire o no al pontefice; ne' conventi, monache le quali di soppiatto scrivono a Roma: frati che tirano a sorte chi dovrà pubblicare le bolle dell'interdetto; altri che vengono di nascosto a infervorare alla resistenza: e chi a dispetto suona le campane: e chi procura venga celebrata la pasqua[210]: pure la Signoria, più civile e più accorta che alcuni Governi sparnazzanti il preteso progresso, non soffrì venisse insultata la religione, nè calpesta l'autorità, ch'è il fondamento d'ogni viver civile: e quando un Servita in pergamo si permise acerbe parole contro il pontefice, sin a dire che Paolo era divenuto Saulo, essa lo disapprovò. Tesi, apologie, consulti furono scritti e contro e in favore dai meglio reputati giuristi[211], e singolarmente dal celebre Menocchio, presidente al senato di Milano; i più sostenendo ne' governi il diritto di esaminar i motivi delle scomuniche e delle ordinanze pontifizie. Quel che ne sentissero i libertini ci appare da Gregorio Leti che nella _Vita di Sisto V_ scrive: «I frati veneziani hanno tanto a cuore la riputazione della loro repubblica, che in servizio di questa rinuncierebbero, per maniera di dire, Dio, non che il papa e la religione; ed io trovo che tutti gli altri frati devono fare lo stesso in servizio del loro principe, quantunque si veggano molti esempj contrarj e scandalosi». Durava ancora il tempo vagheggiato da Giulio II, ove non si mandasse scomunica che sulle punte delle lancie: onde il papa faceva armi; armi facea la repubblica, e al litigio prese parte tutta Europa, in tutta ritrovandosi persone e cause interessate. La Spagna, che, attenta a ribadire il suo predominio in Italia, guatava in sinistro questa republica che gliel contendea, soffiava nel fuoco; rifiutò l'ambasciadore veneto come scomunicato; il duca d'Ossuna diceva a Paolo V che i Veneziani non bisognava contarli per cristiani, giacchè spesso aveano conchiuso trattati coi Turchi, espulso i Gesuiti, cozzato col papa, parteggiato cogli eretici di Francia e d'Olanda. Di rimpatto Enrico IV stimolava i Veneziani a suscitare disordini ne' dominj spagnuoli. Più li favorivano l'Inghilterra, l'Olanda, il conte di Nassau, i Grigioni, avversi al papa, e spinti dai predicanti, che speravano in quei dissidj un'occasione di impiantare la Riforma in Italia, cioè proprio nella sede del cattolicismo. La franchigia di commercio, per cui Armeni, Turchi, Ebrei v'erano egualmente i ben venuti, favoriva a Venezia l'indifferenza religiosa. L'autore del _Discorso aristocratico sopra il governo dei signori Veneziani_ assicura che, venendo a morte un Luterano o Calvinista, permetteasi fosse sepolto in chiesa, e i parroci non se ne faceano scrupolo; aggiunge però: «Non ho mai conosciuto alcun veneziano seguace di Calvino o di Lutero od altri, bensì d'Epicuro e del Cremonini, già lettore nella prima cattedra di filosofia nello studio di Padova, il quale assicura che l'anima nostra provenga dalla potenza del seme, come le altre dell'animal bruto e per conseguenza sia mortale. Seguaci di questa scelleratezza sono i migliori di questa città, ed in particolare molti che hanno mano nel governo». La proibizione de' libri rovinava le stamperie, che a Venezia erano in gran fiore. Le idee democratiche, diffuse dalla scuola gesuitica, disturbavano la dominante aristocrazia, che in conseguenza parteggiava pel potere assoluto de' principi, e favoriva i Protestanti contro i Cattolici. Campione del partito principesco ci si presenta Paolo Sarpi, frate servita, uno de' migliori ingegni di quell'età anche nelle scienze positive. Teologo della Repubblica, in quel litigio fu condotto ad esaminarne i titoli, e con ragioni ed autorità sminuire l'ingerenza del papa ne' civili negozj, e contro le dottrine democratiche de' Gesuiti sostenere che il poter de' principi deriva immediatamente da Dio, e non è sottoposto a nessuno: il papa non aver diritto di esaminare se le azioni d'un Governo siano colpevoli o no, poichè ciò porterebbe a indagini incompatibili colla sovranità principesca. Sebbene scrivesse per comando e «a norma delle pubbliche mire»[212], venne ad infervorarsene per modo, che suo distintivo rimase l'avversione alla santa sede. Stampò allora (se pur è sua) la _Consolazione della mente nella tranquillità di coscienza, cavata dal buon modo di vivere nella città di Venezia nel preteso interdetto di papa Paolo V_, ove propone tali quistioni: 1º nel pontefice e nella Chiesa v'è autorità di scomunicare? 2º quali persone sono soggette a scomunica, quali le cause di applicarla? 3º la scomunica è appellabile? 4º è superiore il pontefice o il Concilio? 5º per ragion di scomunica il principe legittimo può essere privato de' proprj Stati? 6º per impedire la libertà ecclesiastica s'incorre giustamente nella scomunica? 7º qual è questa libertà? e si estende solamente alla Chiesa, ovvero anche alle persone di questa? 8º il possesso delle cose temporali spettanti alla Chiesa è di diritto divino? 9º una repubblica come un principe libero può restar privata dello Stato per causa di scomunica? 10º il principe secolare ha legittima azione di riscuotere le decime, e legittima potestà d'ordinare ciò che giovi alla repubblica sopra i beni e le persone ecclesiastiche? 11º ha per se stesso autorità di giudicare gli ecclesiastici? 12º quanto si estende l'infallibilità del pontefice? E rispondeva in somma, che la potestà del santo padre si limita a procurare la pubblica utilità della Chiesa: il Cristiano, non che a quello dover obbedienza cieca, pecca se la presta, ma deve esaminare se il comando è conveniente, legittimo, obbligatorio; e quando il pontefice fulmina scomunica o interdetto per comandi ingiusti e nulli, non s'ha a tenerne conto, essendo abuso di podestà: la scomunica è ingiusta e sacrilega quando lanciata contro la moltitudine; non può sussistere se non s'appoggia a peccato, anticipatamente minacciato di scomunica: il Concilio di Trento, fuoco di Sant'Elmo apparso nelle maggiori burrasche della Chiesa, ingiunge estrema circospezione nell'infliggerla, ma erra quando vuole che, chi vi persevera un anno, sia dato all'Inquisizione come sospetto d'eresia; e quando vieta al magistrato secolare d'impedire al vescovo di pubblicarla: le immunità ecclesiastiche non sono di diritto divino. La Chiesa greca, sempre povera, patì minori scandali che la latina. È patto tra il popolo e i ministri della Chiesa che questi somministrino la parola e i sacramenti, quello il pane corporale. I papi, non che la temporale, neppur sempre ebbero la sopreminenza spirituale, e la usurparono favorendo principi usurpatori. Mentre le cose umane col tempo svigoriscono, nella monarchia ecclesiastica cresce l'autorità, non già la santità e la riverenza. I principi temporali non dipendono che da Dio: nè Cristo poteva trasmettere al suo vicario la potestà temporale ch'egli non esercitò. Il papa non ne ha veruna sui principi, non può punirli temporalmente, non annullarne le leggi, o spogliarli de' dominj. A rincontro gli ecclesiastici non han nulla che resti esente dalla podestà secolare, e il principe esercita sulle persone e i beni altrettanta autorità che sugli altri sudditi. L'impugnar Roma era prova di tutt'altro che d'eroismo in una repubblica sempre ricalcitrante alle pretensioni curiali; e frà Paolo, sbraveggiando il papa, umiliavasi a Filippo II, preconizzandogli ridurrebbe schiave Europa ed Africa, e muterebbe Parigi in un villaggio; porgevasi sommessissimo ai nobiluomini del suo paese, e blandendo ad essi ed all'opinione interessata, usurpavasi gli onori del coraggio. Come sentisse in fatto di libertà cel dicono certe costituzioni da esso ideate pel suo Ordine, ove non dubita ricorrere fin alla tortura; e l'insinuare alla Repubblica provedimenti tirannici: dai giudizj escludere il dibattimento[213]; tenere ben depressi i nobili poveri; opprimere le colonie levantine; ai Greci, come a belve, limar i denti e gli artigli, umiliarli spesso, toglierne ogni occasione d'agguerrirsi, trattarli a pane e bastonate, serbando l'umanità per altre occasioni; nelle provincie d'Italia industriarsi a spogliar le città dei loro privilegi, fare che gli abitanti impoveriscano, e i loro beni sieno comperati da Veneziani; quei che nei consigli municipali si mostrano animosi, perderli se non si può guadagnarli a qual sia prezzo: se vi si trova alcun capoparte, sterminarlo sotto qualsiasi pretesto, cansando la giustizia ordinaria, e il veleno tenendo come meno odioso e più profittevole che non il carnefice. Suggerisce una legge rigorosa contro le stampe, atteso che «da pochi anni in qua escono quotidianamente a stuolo libri, che insegnano non esser da Dio altro governo che l'ecclesiastico; il secolare esser cosa profana e tirannia, e come una persecuzione contro i buoni da Dio permessa: che il popolo non è obbligato in coscienza obbedire le leggi secolari, nè pagar le gabelle e pubbliche gravezze, e basta che l'uomo sappia far di non essere scoperto: che le imposte e contribuzioni pubbliche per la maggior parte sono inique ed ingiuste, ed i principi, che le impongono scomunicati: insomma i principali magistrati sono rappresentati e posti in concetto dei sudditi per empj, scomunicati ed ingiusti; e se è necessario tenerli per forza, in coscienza è lecita ogni cosa per sottrarsi dalla loro soggezione». Contro il papa e contro Gesuiti e Cappuccini predicava pure frà Fulgenzio Manfredi minorita, il quale poi andato a Roma con salvocondotto, ottenne ricevimento cortesissimo e l'assoluzione: poi repente fu arrestato dal Sant'Uffizio, e trovatogli libri proibiti, scritture ereticali e carteggi d'intelligenze col re d'Inghilterra, fu appiccato ed arso. Secondava al Sarpi frà Fulgenzio Micanzio da Passirano presso Brescia, predicando con tale franchezza, che il medico Pietro Asselineau d'Orleans, dimorante in Venezia e caldo in quei maneggi, per cui spesso scriveva consulti invece di frà Paolo, ebbe a dire: «Pare Dio abbia per l'Italia suscitato un altro Melantone o Lutero»[214]. Fece egli il quaresimale nel 1609 «con libertà, verità e gran concorso di nobiltà e popolo, a dispetto del nuncio e delle sue rimostranze», come scriveva Duplessis-Mornay. Alle scritture che, in occasione dell'interdetto, pubblicavansi contro Roma, esultavano i Protestanti; Melchiorre Goldast, Gaspare Waser, Michele Lingeslemio, Piero Pappo ne esprimevano congratulazioni, faceanle tradurre e divulgare; lo Scaligero viepiù, il quale scriveva: «Il signor Carlo Harlay di Dolot m'ha detto di aver portato libri di Calvino a diversi signori di Venezia, dove già molti hanno la cognizione degli scritti nostri»; e divulgavasi la profezia di Lutero nell'esposizione del salmo XI: «A Venezia sarà ricevuto il vangelo: e i poveri e gli oppressi cristiani liberamente si sostenteranno e nutriranno, sicchè la Chiesa si moltiplichi». Chi abbia vissuto appena questi ultimi anni, sa come le controversie con Roma o l'avversione ad un papa infondano ardire e lusinghino speranze di rompere colla Chiesa. Chi ciò cercasse non difettava in Venezia, quali Ottavio Menino di San Vito, legale lodato e poeta latino, che molto scrisse in proposito dell'interdetto, ed eccitava il Casaubono a fare altrettanto; Antonio Querini, autore _dell'Avviso pernicioso_; l'erudito Domenico Molino; Alessandro Malipiero, «uomo d'una pietà senza fuoco e senza superstizioni, che era solito ogni sera accompagnare il Sarpi, a cui portava un amore e venerazione singolare, che era tra loro vicendevole»[215]. Aggiungiamo don Giovanni Marsilio, gesuita napoletano apostato, che colà rifuggito, continuava a celebrar messa, benchè sospeso dal pontefice. «Jeri morì don Giovanni Marsilio, (scriveva frà Paolo, di Venezia il 18 febbrajo 1612). Li medici dicono, che sia morto di veleno; di che io, non sapendo innanzi, altro non dico per ora. Hanno bene alcuni preti fatto ufficio con esso lui che ritrattasse le cose scritte; ed egli è sempre restato costante, dicendo avere scritto per la verità, e voler morire con quella fede. Monsieur Asselineau l'ha molte volte visitato, e potrà scrivere più particolari della sua infirmità, perchè io non ho possuto nè ho voluto per varj rispetti ricercarne il fondo. Credo che, se non fosse per ragion di Stato, si troverebbono diversi, che salterebbono da questo fosso di Roma nella cima della Riforma: ma chi teme una cosa, chi un'altra. Dio però par che goda la più minima parte de' pensieri umani. So ch'ella m'intende senza passar più oltre». Questi, e Leonardo Donato, Nicola, Pietro, Giacomo Contarini, Leonardo Mocenigo ed altri aveano ritrovi in casa d'Andrea Morosini, ove dibatteano le controversie d'allora circa l'autorità regia e la papale, avversi del pari alle esorbitanze romane come alla prevalenza spagnuola. Vi davano appoggio ed incitamento l'ambasciatore d'Inghilterra ed il famoso Bedell suo cappellano, il quale tradusse da frà Paolo la Storia dell'Interdetto e quella dell'Inquisizione, e studiavasi d'introdurre la Riforma, continuando la pratica anche dopo che Venezia si fu rassettata col papa. Il nunzio Ubaldini nel novembre 1608 avvisava il cardinale Borghese come fossero partiti per Venezia due predicanti ginevrini, sicuri di avervi liete accoglienze da alcuni nobili, ma poi aveano ricevuto ordine di tornar indietro. Giovanni Diodati, che menzionammo discendente da profughi lucchesi, dalla Chiesa di Ginevra deputato al sinodo di Dordrecht nel 1618, ed eletto, benchè straniero, a redigerne le deliberazioni, avea procurato la versione della _Storia del Concilio di Trento_ di frà Paolo; e a lui di queste intelligenze dando informazione, il Bedell soggiungeva: _Ecclesiæ venetæ reformationem speramus_, e lo esortava a recarsi colà, dove lo sospiravano l'ambasciator suo e frà Paolo. Fu per tal occasione che il Diodati pubblicò la sua versione italiana della Bibbia, e scriveva: «Non istò senza speranza di farne entrare e volare degli esemplari in Venezia, dove la superstizione ha già ricevuto una breccia, per la quale è entrata la libertà, cui Dio santificherà per la sua verità quando ne sia il tempo». E pochi mesi dopo: «A Venezia ne ho già spedito qualche numero di esemplari, e spero ben tosto maggior commissione. Per suggerimento dell'ambasciatore d'Inghilterra in Venezia, io fo adesso stampare il Nuovo Testamento a parte, in piccola gentilissima forma, perchè serva agli avventurosi principj che Dio vi ha fatti apparire. E forse il meno sarà questo servirli con la penna solamente; poichè bisognerà intraprendere altra cosa più forte ed espressa, e belli e formati sono i progetti, i quali il tempo è vicino molto a metter fuori, siccome io spero in Nostro Signore». Duplessis-Mornay, detto il papa de' calvinisti francesi, avea fatto il _Mistero d'iniquità_ e la _Istituzione, uso e dottrina del santissimo sacramento dell'eucaristia nella chiesa antica; come, quando e per quali gradi la messa s'è introdotta in sua vece_ (La Rochelle 1598), opera dove i Cattolici verificarono quattrocento false citazioni, su di che si tenne una famosa conferenza a Fontainebleau il 4 maggio 1600, dopo la quale egli ristampò quel libro a Saumur il 1604, con meno infedeltà. Egli zelava la conversione di Venezia, e a lui il Diodati porgeva contezza come già da due anni ne stesse in pratica: da lettere di colà venir reso certo che il paese è rinnovato; liberissimi discorsi tenervisi, massime da frà Paolo, da frà Fulgenzio, dal Bedell, in modo che uno crederebbe esser a Ginevra; il mal umore contro il papa non acchetarsi; e tre quarti de' nobili aver già raggiunta la verità. De Liquez, compagno del Diodati, soggiungeva: «Frà Paolo mi assicura che nel popolo conosce più di dodici o quindicimila persone, le quali alla prima occasione si volterebbero contro la Chiesa romana. Son quelli che da padre in figlio ereditarono la vera cognizione di Dio, o resti degli antichi Valdesi. Nella nobiltà moltissimi hanno conosciuto la verità, ma non amano esser nominati finchè non venga il destro di chiarirsi. E una prova si è che frà Paolo, quantunque scomunicato, ebbe ordine dal senato di continuare a celebrar messa». Aggiunge che, avendo i preti esatto che, prima di ricever l'assoluzione, i loro penitenti promettessero obbedire al papa nel caso d'un nuovo interdetto, il Governo gli ha arrestati, _et mis en lieu où depuis ne s'en est oui nouvelles; tellement que, depuis l'accord, ils ont plus fait mourir de prètres et autres ecclésiastiques, qu'il n'avoyent fait en cents ans auparavant_. Anche Link, emissario dell'elettor palatino, del quale si legge la relazione negli _Archivj storici_ del professore Lebret, parla di oltre mille persone aspiranti alla Riforma, fra cui trecento distinti patrizj: s'avrebbero dunque trecento voti nel gran consiglio, che di rado eccedeva i seicento; se vi si aggiungano quelli che voterebbero per la costoro influenza, facilmente potevano conseguire la maggiorità, e quindi l'effetto de' loro desiderj. Con quale asseveranza ciò è raccontato! Eppure, non che risoluzione, nemmanco proposta di ciò trovasi mai negli Atti verbali. E come saria stato possibile? In Venezia tutto era cattolico; l'origine, il patrono, le feste nazionali, le belle arti: ivi sfoggiatissime le solennità; ivi antica l'inquisizione contro l'eresia; ivi sulla religione innestata la politica per la crociata perenne contro gl'Infedeli: ivi aggregati quasi tutti alle confraternite, dove anche il plebeo trovavasi non solo pari, ma fin superiore al nobiluomo e al senatore: chi ha occhio dica se fosse culto che perisce quello che fabbricava allora tante suntuosissime chiese. Dove lo spirito pubblico era così identificato al cattolicismo, un Governo eminentemente conservatore potea mai pensare alla rivoluzione più radicale? Moltissimi atti noi scorremmo a proposito dell'interdetto, e in tutti gran franchezza e dispetto ci apparve, ma sommessione cristiana e desiderio di riconciliarsi. Il Diodati stesso nel 1608 venuto a Venezia, trovò assai meno che non si fosse ripromesso; nè però deponeva le speranze: quei due frati adoprarsi a tutt'uomo, ma ancor troppo radicata esservi la riverenza pei monaci[216]. Soggiunge che frà Paolo non vuole svelarsi, allegando che così potrebbe meglio _saper secrètement la doctrine et autorité papale, en quoi il a extrêmement profité_: quanto a frà Micanzio, _sans doute il aurait effectué quelque notable exploit, s'il n'était continuellement contrepesé par la lenteur du père Paul_. E altrove confessa avere «a fondo scoperto il sentimento di frà Paolo, e ch'ei non crede sia necessaria una precisa professione, giacchè Dio vede il cuore e la buona inclinazione». Anche l'apostato De Dominis a Giacomo I d'Inghilterra scriveva che il Sarpi «non udiva volentieri le soverchie depressioni della Chiesa romana, sebbene aborriva quelli che gli abusi di essa come sante istituzioni difendessero». Ma il Sarpi accettò la confessione protestante? Oltre la storia sua, azioni e lettere fanno della fede sua molto dubitare[217]. Avendo Nicola Vignerio stampato una dissertazione contro il Baronio, Filippo Canaye ambasciatore di Francia in Venezia e amico di frà Paolo scriveva al signore di Commartin, da quell'opera tenersi offesa la Signoria veneta, perchè vedeasi noverata fra quelli che si smembrarono dalla Chiesa. Eppure a quell'opera del Vignerio e all'esposizione sua dell'Apocalisse, ove riscontra l'anticristo nel papa, diede applausi e forse ajuti frà Paolo. E da questo crederonsi esibiti i materiali al libello inglese di Eduino Sandis sullo stato della religione in Occidente, ove non ravvisa che superstizione e inezie nella pietà dei Cattolici, e massime degli Italiani. Ugo Grozio, lodando grandemente quel libro, scriveva: _Sandis quæ habuit scripsit ipse, sed ea ex colloquiis viri maximi fratris Pauli didicerat. Item ad quædam capita notas addidit, jam egregias in defæcando lectorum judicio_[218]. Esso Grozio, stando ambasciadore in Isvezia, ebbe in mano, e trascrisse a varj amici questo passo di lettera 12 maggio 1609 del Sarpi al Gillot, canonico della santa Cappella di Parigi, che scrisse sul Concilio di Trento e sulle libertà gallicane; _Si quam libertatem in Italia aut retinemus aut usurpamus, totam Franciæ debemus. Vos et dominationi resistere docuistis, et illius arcana patefecistis. Majores nostri pro filiis habebantur olim, cum Germania, Anglia et nobilissima alia regna servirent: ipsique servitutis istrumenta fuere. Postquam, excusso jugo, illa ad libertatem aspirant, tota vis dominationis in nos conversa est. Nos quid hiscere ausi fuissemus contra ea quæ majores nostri probaverant, nisi vos subvenissetis? Sed utinam omnino subsidiis vestris uti possemus!_[219]. Quando il Priuli ambasciatore veneto tornava di Francia, moltissimi libri ereticali furono imballati da Francesco Biondi suo segretario, il quale poi passò col De Dominis in Inghilterra, e apostatò. Successe ambasciatore in Francia quell'Antonio Foscarini, che finì decapitato per isbaglio, e ch'era molto legato cogli Ugonotti. Poi diè luogo al cavaliere Giustiniani, che frà Paolo indica come _papista_, soggiungendo che perciò «conviene servirsi di quello di Torino per far qualche cosa di bene per la religione»[220]. Questo residente a Torino era Gregorio Barbarigo, tutta cosa di frà Paolo, che lo giudicava «una delle più tranquille anime che abbia non solo Venezia ma forse l'Italia»; ma presto fu spedito in Inghilterra ove morì, surrogandogli il Gussoni, col quale frà Paolo avvertiva il Groslot di non comunicare «le cose di evangelio, se non in quanto fossero congiunte con quelle di Stato e di governo». E sempre con questa bilancia pesa egli i differenti ambasciatori. Coloro che si lusingavano di ridur Venezia protestante ebbero per buon sintomo il vederla legare accordi coi sollevati dei Paesi Bassi e riceverne un ambasciatore[221], ma era un espediente politico per avversare la Spagna. Confidavano che Enrico IV, per la sua nimistà con casa d'Austria, vi favorirebbe le innovazioni; ma, qualunque fossero le costui credenze religiose, egli, come tutti i re del suo tempo, riteneva che il Governo ha podestà d'intervenire nelle pratiche religiose de' suoi sudditi; e nello stesso editto di Nantes, di cui gli si fa tanto merito, non concedeva libertà di ogni culto, ma del solo calvinistico. Inaspettatamente egli trasmise alla Signoria veneta una lettera del Diodati, il quale al Durand, pastore in Parigi, esponeva per filo e per segno quant'erasi tramato in Venezia; nominava come consenzienti i principali; che fra poco le fatiche sue e di frà Fulgenzio conseguirebbero l'intento; e se il papa si ostinasse, Venezia romperebbe definitivamente colla Chiesa cattolica, di che già il doge e alquanti senatori erano in desiderio. Questa diretta denunzia[222] costringe la Signoria a provedere; i papalini prevalgono; il Sarpi se ne scoraggia, e geme, ed «È incredibile quanto grande sia stato il male fatto con quella lettera. Se sarà guerra in Italia, fia bene per la religione, e per questo Roma la teme; l'Inquisizione cesserà, e l'evangelio avrà corso»[223]; e si duole che «le occasioni sono smarrite, dirò morte e sepolte, e solo Dio può eccitarle, al quale se piacerà così, ho materia accumulata e formata secondo le occasioni»[224]. Come ogni altro mestatore, desiderava dunque la guerra, e invocava gli stranieri; ora Enrico, da cui «unicamente potea venirci salute», ora Sully, ora il re d'Inghilterra, od altri nemici della Spagna; si duole che il papa proceda lenemente, sicchè i politici s'acconciano alla pace, tanto più che i Turchi minacciavano; e «Non vedo altro rimedio per conservare e nutrire quel poco che resta, se non venendo molti agenti de' principi riformati e massime dei Grisoni, perchè questi farebbero l'uffizio in italiano[225]. Spagna non si può vincere se non levato il pretesto di religione: nè questo si leverà se non introducendo Riformati in Italia. E se il re di Francia sapesse fare, sarebbe facile e in Torino e qui. La Repubblica negozia lega coi Grisoni; per questa strada si potrebbe far qualche cosa, se dimandassero esercizj di religione in Venezia»[226]. Del suo scoraggiarsi lo rimbrottava Mornay, soggiungendogli che, di tal passo, morrà prima di vedere compiuta la sua opera[227]. Con questa disposizione di cose e di spiriti, il litigio col papa poteva incancrenirsi. Ne esultavano i Protestanti, e il Casaubono rallegravasi di essere stato dall'ambasciatore Priuli invitato a Venezia, dove conoscerebbe _magnum Paulum, quem Deus necessario tempore ad magnum opus fortissimum athletam excitasset_; invitava Giuseppe Scaligero e Scipione Gentile a rallegrarsi che in mezzo a Venezia fosse sorto un sì magnanimo oppugnatore dei sofisti per manifestare i paralogismi con che illudono il mondo[228]. Ma gli uomini positivi vedeano altrimenti, e il famoso Sully, benchè ugonotto, compiangeva che il Sarpi svertasse l'autorità del pontefice fra i Veneziani, i quali, se avessero dato segno d'apostatare, subito avrebbero avuto in soccorso Turchi, Greci, Evangelici, Protestanti d'ogni paese, rattizzando un incendio, quale al tempo di Leone X e Clemente VII. Laonde egli si concertava coi cardinali di Giojosa e di Perrone per impedire che tali semi si sviluppassero in Italia, e per rimettere in concordia Venezia col papa[229]. Un tale pericolo viepiù affliggeva le anime pie[230]; e il Bellarmino lasciò da banda le controversie cogli eretici per ribattere i libelli de' _sette teologi_ veneziani. Oltre le ragioni di che la francheggiano esso e il Baronio[231], Roma minacciava anche coll'armi, finchè l'imperatore e i re di Spagna e Francia e i duchi di Savoja e di Firenze interpostisi, ripristinarono la pace. Nell'aprile 1609 il nunzio pontifizio fu mandato con istruzioni moderatissime, abrogando gli atti lesivi, rimettendo alla quieta i frati, eccetto i Gesuiti, non obbligando Venezia a verun atto d'umiliamento o ritrattazione, solo che usasse temperamenti. Il doge Lionardo Donato annunziava a tutti gli ecclesiastici che, «colla grazia del Signore, s'è trovato modo col quale la santità del pontefice ha potuto certificarsi della candidezza dell'animo nostro, della sincerità delle nostre operazioni e della continuata osservanza che portiamo a quella santa sede, levando le cause dei presenti dispareri: noi, siccome abbiamo sempre desiderato e procurato l'unione e buona intelligenza colla detta santa sede, della quale siamo devoti ed ossequentissimi figli, così ricevemo contento di aver conseguito questo giusto desiderio»; e perciò ritirava la protesta che avea fatta contro l'interdetto. I due prigionieri furono messi in due gondole, consegnati all'ambasciatore di Francia cardinale Giojosa che era stato incaricato d'interporsi, e che assicurava Enrico IV aveagli sempre scritto di ricordare ai Veneziani _di star bene con il papa_[232]. E il papa ricevette cortesemente l'ambasciatore Contarino, dicendogli che «dalla buona intelligenza fra la santa sede e la Repubblica dipende la conservazione della libertà d'Italia; che non volea ricordarsi delle cose passate, ma _nova sint omnia et vetera recedant_»[233]. Sarebbe contro natura se all'abbaruffata sottentrata fosse così subito la cordialità. Venezia, che che gliene dicessero, capiva d'essere la vinta; il papa non potea dimenticare con quei modi gli si era resistito: pure smetteano i puntigli, col che ripianavansi le differenze. Giacomo I d'Inghilterra, re teologastro, avendo pubblicata allora _l'Apologia pro juramento fidelitatis_ in senso ereticale, e mandatala a tutte le Corti, il re di Spagna e il duca di Savoja negarono riceverla; il granduca di Toscana la fe bruciare: i Veneziani combinarono fosse presentata dall'ambasciatore in Collegio, e dal doge ricevuta come segno della benevolenza reale, poi trasmessa al grancancelliere, che la riponesse sotto chiave. Il nunzio apostolico Gessi presentò al Collegio la censura che Roma aveva proferito contro quel libro, e domandò venisse proibito: e il Collegio gli espose l'operato, e al capo degli stampatori comunicò verbalmente di non venderlo. Se ne indispettì l'ambasciatore inglese tanto, che fu duopo spedir apposta in Inghilterra Francesco Contarini, il quale sì ben ne ragionò, che il re ebbe a lodare il cauto procedere de' Veneziani[234]. Colla lite dileguarono le speranze d'apostasia, e frà Paolo si moderò, benchè non cambiasse sentimenti. Invero egli fu nimicissimo ai Gesuiti: non è male che non ne dica in ogni occasione: non lasciò via intentata perchè fossero esclusi prima, non riammessi poi dalla Repubblica: procacciavasi sollecitamente i libri contrarj ad essi, e «Non c'è impresa maggiore (scriveva) che levare il credito ai Gesuiti. Vinti questi, Roma è presa; senza questi, la religione si riforma da sè». «È sicuro (soggiunge) assolverebbero d'ogni colpa anche il diavolo, quando con loro volesse accordarsi»; e «si vantano di dovere fra poco potere tanto a Costantinopoli quanto in Fiandra»[235]; e al signor Dell'Isola scriveva: «De li Gesuiti ho sempre ammirato la politica e massime nel servar li secreti. Gran cosa è che hanno le loro istituzioni stampate, eppure non è possibile vederne un esemplare. Non dico le regole che sono stampate in Lione; quelle sono puerilità; ma le leggi del loro governo, che tengono tanto arcane. Sono mandati fuori, ed escono dalla loro compagnia ogni giorno molti e mal soddisfatti ancora, nè per questo sono scoperti li loro artifizj. Non vi sono altrettante persone nel mondo che cospirino tutte in un fine, che siano maneggiate con tanta accuratezza, ed usino tanto ardire e zelo nell'operare». Il buon senso non accecato da passione avrebbe dovuto conchiuderne che non è vero esistessero queste regole secrete; pure la vulgarità le voleva: ma se si trovò chi stampolle col nome di _Monita secreta_, l'accannimento non toglieva al Sarpi il lume della ragione fin al punto da non avvertire l'assurdità di quel libercolo. «L'ho scorso, e m'è parso contenere cose sì esorbitanti, che resto con dubitazione della verità: gli uomini sono scellerati certo, ma non posso restare senza meraviglia che tante ribalderie sarebbero tollerate nel mondo. Al sicuro, di tali non abbiamo sentito odore in Italia; forse altrove sono peggiori; ma ciò sarebbe con molta vergogna della nazione italiana, che non cede a qual altra si voglia». Ci voleva la depressione più mortificante della ragione umana perchè quel libretto fosse aggradito e ristampato dai nostri contemporanei, per pascolo della spensante Italia[236]. A chi dunque fa tutt'uno Gesuiti e santa Chiesa non può che puzzare d'inferno frà Paolo: ma altri vorrà solo in lui vedere un patrioto infervorato, perciò nimicissimo alla Spagna, e in conseguenza a' Gesuiti, che credeva incarnati con questa; mentre ben sentiva de' Protestanti perchè, nelle guerre d'allora, contrabilanciavano Casa d'Austria. Alla curia romana, che, in ogni caso, bisogna ben distinguere dalla Chiesa, frà Paolo professava un'ostilità esacerbata da puntiglio: sempre acerrimo contro le pretensioni di essa[237], applaudiva alle libertà gallicane, e «se briciolo di libertà noi abbiamo o ci rivendichiamo in Italia, è tutto merito della Francia: a resister a una sfrenata signoria voi (francesi) c'insegnaste... e come giunger al termine che il supremo potere di stabilire la disciplina ecclesiastica risegga nel principe... e il segnar le norme a bene usare dell'autorità della Chiesa»[238]. Ciò lo portava all'assolutismo, asserendo che «se v'ha alcuna cosa che alla sovranità del principe si sottragga, quel principe da quell'ora rimansi esautorato di fatto». Repugna dal Baronio e dal Bellarmino, celia sui miracoli, mentre applaudisce agli Ugonotti: il durar di Roma giudica che «dipende da un sottil filo, cioè dalla pace d'Italia... Vogliate credermi; una volta messa la guerra in Italia, vinca il pontefice o sia vinto, non importa, la cosa è spacciata»[239]. Ma da questi pensamenti corre ancora un gran tratto all'apostatare. La riforma ch'egli bramava consistea nella disciplina più che nei dogmi, intorno ai quali, è mai probabile si lusingasse di impegnare l'attenzione d'una Signoria tanto positiva, tanto nemica dei cambiamenti? Giurisprudente nel senso antico della parola, non paradossale come Calvino, non sottile come Soccino, eresiarca non poteva riuscire, giacchè considerava la religione come inviolabile nell'essenza, purchè non abbia parte alcuna nel poter dello Stato. Eccedono dunque e detrattori[240] e panegiristi[241], e degli uni e degli altri abbondò. Anzi che luterano o calvinista, potremmo qualificarlo razionalista, venerando, la propria ragione più di qualsiasi autorità, in traccia della verità, senza voler mai trovarla ove riposa. Ai carteggi suriferriti non si può scemar forza, se non imputandoli all'opportunità politica, e al voler carezzare le opinioni degli adulatori, come allorchè la Chiesa chiamava _meretrix, bestia babylonica_ e simili titoli. Ben a questa recò un colpo micidiale colla _Storia del Concilio di Trento_. Da fanciullo dovette sentire, da chi vi prese parte, discorrere di quel fatto capitalissimo nella Chiesa; a Mantova usò famigliarmente con Camillo Olivo segretario al cardinale Gonzaga, uno de' presidi al sinodo; in Venezia con ambasciatori di principi: e parendogli che le storie già stampate, fin quella di Giovanni Sleidan che a tutte antepone, non dessero sufficientemente a conoscere _l'Iliade del secol nostro_, si propose di raccontare «le cause e i maneggi d'una convocazione ecclesiastica, nel corso di ventidue anni per diversi fini e con varj mezzi da chi procacciata o sollecitata, da chi impedita o differita, e per altri anni diciotto ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con varj fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al disegno di chi l'ha procurata e al timore di chi con ogni studio l'ha disturbata; chiaro documento di rassegnare li pensieri a Dio, e non fidarsi della prudenza umana. Imperocchè questo Concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che incominciava a dividersi, ha così stabilito lo scisma ed ostinate le parti, che le ha fatte discordi e irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell'ordine ecclesiastico, ha causato la maggior diformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano: dalli vescovi sperato per riacquistar l'autorità episcopale passata in gran parte nel solo pontefice romano, l'ha fatta loro perdere tutta intieramente, riducendoli a maggior servitù. Nel contrario, temuto e sfuggito dalla Corte di Roma, come efficace mezzo per moderarne l'esorbitante potenza, da piccioli principj pervenuta con varj progressi ad un eccesso illimitato, gliel'ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatale soggetta, che non fu mai tanta nè così ben radicata». Il Sarpi vi lavorò con attentissima pazienza; come costumavasi allora, copiò a man salva gli storici precedenti, Giovio, Guicciardini, De Thou, Adriani, e sovente non fa che tradurre lo Sleidan, ostilissimo a Roma: ma li completò con qualche documento e colle relazioni de' legati veneti; rialzò i fatti con osservazioni proprie; ma non guardandone che il lato esterno, fa la parodia anzichè la storia della più insigne assemblea che si fosse mai veduta; vuol ridurre alle proporzioni d'un intrigo la decisione delle cose superne, e farle dipendere da una manovra, da un'infreddatura, da un'arguzia felice, da un discorso eloquente, da un'infornata di cardinali, dalla pronunzia strana d'un prelato forestiero, dall'artifizio de' presidenti a soffogar la questione o prorogarla, come succederebbe in un parlamento d'oggi; anzichè dallo Spirito Santo, che, come empiamente dice, viaggiava in valigia da Roma a Trento. Come nella vita, così nell'opera non abbracciò risolutamente un simbolo protestante, eppure staccasi dal dogma cattolico volendo la personale interpretazione delle sacre scritture; ripudiando i libri deuterocanonici; disprezzando la vulgata; separando l'esegesi dalla dottrina patristica; riguardo al peccato originale, alla grazia, alla giustificazione, ad altri dogmi, copia alla lettera il teologo Martino Chemnitz, uno de' più avversi al Concilio. Non solo i polemici, ma gli annotatori più benevoli ed assenzienti lo convincono di grossi errori; senza contare la sistematica finzione di lunghi discorsi, che mai non furono recitati o da tutt'altri che da quelli, in cui bocca li pone. Il quale vezzo retorico, se è brutto nelle storie profane, sta ben peggio qui, dove si discutono punti di fede. Ma appunto uno de' molti artifizj di frà Paolo è il non asserire in testa propria, ma o far dire da altri ciò che sarebbe evidente eresia, o narrarlo come dottrina nè approvata nè riprovata, oppure confutarlo con ragioni che ne crescono la forza. In tempo d'impetuose diatribe conservava un'apparente calma, quasi non riferisse che fatti e documenti: e coll'aspetto d'imparzialità cattivava gl'inesperti, e mascherava le ignoranze e contraddizioni sue, mentre tutto disponeva non per chiarire la verità, ma per ottenere effetto, sin alterando i documenti perchè servissero alla sistematica sua opposizione e agl'interessi politici del suo paese. Quanto non si raffina nell'interpretare le intenzioni, sempre in sinistro qualvolta trattasi di Cattolici! Si bruciano in Francia i Protestanti? compassiona «quei miseri che di nessun'altra cosa erano colpevoli se non che di zelo dell'onor divino e salute dell'anima propria» (Lib. V). Parlando dell'Indice, conchiude che «non fu mai trovato il più bell'arcano per adoperar la religione a fare insensati gli uomini» (Lib. VI) ed aggrandir l'autorità della Corte romana col privarli di quella cognizione ch'è necessaria per difendersi dalle usurpazioni. Alla Chiesa primitiva, nella quale soltanto egli vuol incontrare il vero cristianesimo, revoca sempre la credenza o la disciplina, condannando come intrusioni umane tutte le istituzioni che essa trae dalla sempre fresca sua vitalità. E come ne' primi tempi, vuol la Chiesa sottomessa alla territoriale direzione; ne' quali tempi le relazioni della Chiesa collo Stato, o pagano o giudaico, troppo differivano da quando essa giunse a compiuto sviluppo. Perciò nè storica, nè ecclesiastica è la sua intuizione della gerarchia, della giurisdizione spirituale, del primato, della scolastica, del monachismo, e via discorrendo. La gerarchia non fa consolidata che per ambizione de' papi, e debolezza e ignoranza de' principi; nè fruttò giovamento ai popoli, bensì oppressione e tirannia: non che il clero favorisse il sapere, l'arte, l'umanità nel medioevo, usufruiva a puro suo vantaggio i collegi e le scuole. Nel ribatter ostinato le pretensioni della Corte romana, neppur s'avvide che il rinnovamento di esse era un'espressione dell'iniziato restauramento religioso. Marc'Antonio De Dominis, che, come nato in Dalmazia, dominio veneto, contiamo fra gli italiani non meno del Vergerio, studiò a Loreto nel collegio degli Illirj, poi a Padova: a vent'anni entrato ne' Gesuiti a Verona, lesse retorica e filosofia in Brescia, matematica in Padova; ma più volte castigato per indisciplina e superbia, uscì di quella compagnia. Clemente VIII, su proposizione di Rodolfo II, lo pose vescovo di Segna in Dalmazia il 1596: Paolo V lo trasferì arcivescovo di Spalatro, cioè primate della Dalmazia e della Croazia. O credendosi non abbastanza venerato da' suoi suffraganei, o accattabrighe per indole, vivea scontento, pretendeva ricondurre il clero all'apostolica semplicità; scrisse contro di Paolo V a difesa de' Veneziani, ed avendovi mostrate opinioni eterodosse, rinunziò al vescovado, e passò a Venezia, donde nei Grigioni, poi ad Eidelberga, infine a Londra, ove Giacomo I gli conferì ricchi benefizj, e lo creò decano di Windsor. Egli professava volere adoprarsi a rimettere in concordia le varie sette cristiane, ma in realtà cercava libertà di studj e credenze. Ivi compilò due volumi _de Republica Christiana_. La repubblica ecclesiastica comprende la monarchia del pontefice, l'aristocrazia de' vescovi, la democrazia di tutti i fedeli, ognuno de' quali, se lo meriti, può divenir vescovo[242]. Gli eterodossi alterarono quest'armonia, ed uno de' più audaci fu il De Dominis, che nella Chiesa romana ammette un primato d'onore, non di giurisdizione; tutti i vescovi avere egual pienezza di autorità e giurisdizione: ma nè il papa nè i vescovi hanno il potere esplicito senza l'universalità dei fedeli: democrazia talmente estesa, che il Concilio richiederebbe la presenza di tutti i credenti. Gli apostoli (a suo dire) furono eguali; nè Pietro era lor principe; ad essi non fu conferito altro che il primo ministero della fede cristiana onde propagare il Vangelo come ministri, non come potenti; finchè Cristo visse, non sussistette chiesa, nè a lui venne data l'amministrazione di essa, poichè era capo soltanto della Chiesa invisibile: negli apostoli non fu veruna podestà, ma solo il ministero: Pietro ricevette le chiavi, non proprio e formalmente ma parabolicamente, sicchè esso è figura della Chiesa: gli apostoli, sono pastori di Cristo, non agnello; e Pietro tolse a pascere solo le agnelle degli Israeliti: chiunque era fatto vescovo dagli apostoli, subito acquistava la stessa apostolica podestà universale nella Chiesa: non sono di diritto divino i metropoliti, i primati, i patriarchi, e la superiorità delle chiese d'Alessandria, d'Antiochia, di Roma deriva unicamente dall'eminenza d'esse città; la romana è capo sol di poche chiese, nè devesi appellare ad essa dalle altre: i cardinali non sono di prerogativa superiore agli altri; nè il papa è successore di Pietro. Dai vescovi ai preti corre differenza essenziale: ogni vescovo «è monarca nel suo distretto»; e la podestà sua, com'era quella degli apostoli, non dipende dal papa, anzi è eguale ad esso: possono andar a qualunque chiesa, nè per diritto divino sono legati a veruna; nè papa nè vescovi hanno lo spirito, cioè il potere esplicito, senza l'universalità de' fedeli[243]. I popoli hanno intrinseco diritto nell'elezione de' vescovi: e questi il diritto d'eleggersi il successore. Dio non volle obbligar il suo concorso speciale a verun sacramento; vero sacramento non è l'Ordine, e la Chiesa non può annettervi voto di continenza. L'istituzione de' monaci non venne da alcun pubblico provvedimento, nè lo stato loro è distinto da quello de' laici. Molti il confutarono, fra cui Domenico Gravina domenicano, Filippo Fabro minorita, Zaccaria Boverio cappuccino, Domenico Veneto vescovo di Vercelli[244]; e la Sorbona prima, poi l'Inquisizione romana ne riprovarono gli scritti. Fosse ravvedimento o naturale incostanza, un giorno salì in pulpito disdicendosi, poi la ritrattazione stampò, confessandosi ispirato da ire e da gelosie; laonde scadde affatto di credito. Ai vescovi cattolici mandò una sua difesa e ritrattazione[245] ove confessa non aver tra i Protestanti veduto alcuna riformazione, bensì molte deformazioni: raro insinuarsi l'orrore e il rimorso dei delitti ove fu abolita la confessione: i Cattolici essere discordi e peccatori, ma pure ritengono il fondamento unico, che i Protestanti perdettero, cioè il Cristo uno, la Chiesa una. A Gregorio XV ch'era stato suo scolaro, scrisse: «Errai come un agnello smarrito; beatissimo padre, cercatemi, poichè i comandamenti di Dio e della Chiesa non dimenticai», e tornato in Italia, abjurò in concistoro di cardinali per ricuperare il vescovado. Ma il nuovo papa Urbano VIII accertossi che teneasi in corrispondenza con persone sospette, e che il suo ravvedimento non era sincero, sicchè come incostante e recidivo il fece chiudere in Castel Sant'Angelo, ove morì di settantasette anni l'8 ottobre 1623. Correva ancora il suo processo, onde fu deposto in terra sacra; ma da quello e dal trovatogli carteggio apparve come tenesse corrispondenza con eretici inglesi e tedeschi, e diffondesse un'altra eresia, di antica origine e di perenne durata, cioè che si possa salvarsi in qualunque setta cristiana; laonde il suo cadavere fu arso coll'opera della Repubblica Cristiana[246]. Mentre abitava in Inghilterra, il De Dominis fece stampare l'opera di frà Paolo Sarpi col titolo: _Istoria del Concilio Tridentino di Pietro Soave Polano, nella quale si scoprono gli artifizj della Corte di Roma per impedire che nè le verità de' dogmi si palesasse, nè la riforma del papato e della Chiesa si trattasse._ La dedicava a Giacomo re della Gran Bretagna, dicendo come, «dipartendosi d'Italia per ricoverarsi sotto l'augusto manto della sua clemenza», avesse raccolto varie composizioni de' più elevati spiriti di quella nobilissima provincia, che potessero venir grate a lui come vero difensore della vera cattolica fede. «Non mancano in Italia (soggiunge) ingegni vivaci, liberi in Dio, e dalla misera cattività coll'animo sciolti, i quali con occhio puro e limpido veggono gl'imbrogli ch'ivi si trappongono alle cose della santa religione; s'accorgono troppo delle frodi e inganni, co' quali, per mantenersi nelle grandezze temporali, la Corte romana opprime la vera dottrina cristiana, induce falsità e menzogne per articoli di fede, e l'armi già date dallo spirito di Cristo alla sua santa Chiesa perchè le servano a difesa e all'espugnazione delle eresie e abusi, converte all'oppressione di essa Chiesa, per farsela schiava sotto a' piedi». Segue meravigliandosi che una tale storia del Concilio sia «uscita dalle mani di persona nata ed educata sotto l'obbedienza del pontefice romano»: loda l'autore per erudizione, giudizio, integrità, rettissima intenzione, e che «sebbene non udiva volentieri le depressioni della Chiesa romana, abborriva quelli che gli abusi di essa come sante istituzioni difendessero»; e paragona questo libro a un Mosè, salvato dalle acque a cui l'autore lo destinava per riverenza al papato; Mosè che ajuterebbe i popoli a liberare da quel Faraone, che «con li ceppi anco di sì sregolato e fallace Concilio li tiene in cruda servitù oppressi». E qui svergognatamente mentendo, narra le sollecitudini de' papi a distruggere o rinserrare tutti i documenti relativi al Concilio. Fosse sincerità, o piuttosto una finta per causare mali incontri, frà Paolo Sarpi mostrossi addolorato di tal pubblicazione, e frà Fulgenzio ne movea questa querela al De Dominis da Venezia l'11 novembre 1619: «Reverendissimo signore. Io do a vossignoria reverendissima questo titolo, perchè, sebbene sia messo nel numero de' Protestanti, però sempre le resta nell'anima il carattere sacerdotale ed episcopale, di cui non teme voler spogliarsene. Il mio p. m. Paolo molto si lagna di tal suo eccesso, e moltissimo pure che, avendo a v. s. reverendissima prestato da leggere il suo manuscritto dell'istoria del Concilio Tridentino che guardava con tanta gelosia, ne abbia tirata una copia, e siasene poi abusato, non solo facendola stampare senza il di lui beneplacito, ma ponendole anche quel titolo impropriissimo e quella dedica terribile e scandalosa, e ciò per motivo d'interesse, non già per onorare l'autore modesto. Queste non sono le vie per acquistarsi credito, e il p. m. Paolo ed io non la credevamo tale, nemmeno nel momento che venne intesa la diserzione sua dalla chiesa di Spalatro, e fu letto successivamente il manifesto che sparse per l'Europa della sua condotta ed erronea maniera di pensare. Pregando il Signore che la illumini, mi dichiaro ecc.». Sia giudice il lettore sul tono di questa lettera: certo è che l'autografo d'essa storia, che noi esaminammo nella biblioteca Marciana, non iscatta d'un punto dallo stampato. Quando il protestante Courayer la tradusse in francese[247], il cardinale Tencin avventò una pastorale fortissima contro quest'opera, che giudica di vero protestante. Pio IV aveva proibito a qualunque persona sotto pena d'interdetto e scomunica di pubblicar commenti, annotazioni, glosse o qualsifosse interpretazione del Concilio di Trento, foss'anche per conferma di esso: chi bramasse chiarirne alcuna difficoltà ricorresse alla sede apostolica che si riservava di decidere le controversie e i dubbj[248]: a tal uopo avere istituito la Congregazione del Concilio, che interpretasse i punti di disciplina e riforma, riservando al papa quelli che concernono la fede. Sarebbe dunque frà Paolo già colpevole di disobbedienza, quand'anche non si fosse mostrato sempre contrariissimo alla santa sede. Che dunque a Roma egli dispiacesse possiam dubitarne? Già nel 1602 gli si era ricusato il vescovado di Nona, benchè raccomandato dalla Repubblica. Nelle istruzioni date al nunzio al tempo dell'assoluzione è detto: «A me pare poterle ricordare che convenga procedere con lenità; e che quel gran corpo voglia esser curato con mano paterna... Delle persone di frà Paolo e Giovanni Marsilio e degli altri seduttori, che passano sotto il nome di teologi, si è discorso con vostra signoria a voce; la quale doveria non aver difficoltà in ottenere che fossero consegnati al Sant'Officio, non che abbandonati dalla Repubblica, e privati dello stipendio che si è loro costituito con tanto scandalo del mondo». L'anno dopo che la _Storia del Concilio_ era stata pubblicata, mandavasi alla riconciliata Venezia un nunzio apostolico, nelle cui istruzioni del 1 giugno 1621 leggiamo: «Sotto il capo della santa Inquisizione pare che si possa ridurre la persona di frà Paolo servita, della quale vostra signoria ha piena cognizione. Io non le favellerò dei mali che faccia, nè delle pessime dottrine ed opinioni che sparge, e de' perniciosissimi consigli che apporta, tanto più rei e malvagi quanto più sono coperti dal manto della sua ipocrisia, e dalla falsa apparenza della mal creduta sua bontà, perchè il tutto è a lei manifesto; ma le dirò brevemente che nostro signore non ha lasciato di parlarne come si conviene a' signori ambasciadori, li quali, così in questo come nella materia del Sant'Officio hanno sfuggito gl'incontri delle paterne[249] esortazioni di sua santità, non coll'opporsi ma col negare il male; e però, quanto a frà Paolo, hanno risposto non essere stimato da loro, nè tenuto in credito nessuno appresso la Repubblica, ma starsene colà ritirato, nè doversene poter avere ombra o gelosia veruna, benchè si sappia pubblicamente il contrario. Vostra signoria potrà nondimeno osservare di presso i suoi andamenti, e ce ne farà la più vera relazione che potrà averne, perchè sua santità penserà a continuare gli ufficj od altro opportuno rimedio; e vostra signoria successivamente ci anderà proponendo quello che più riuscibile si potesse adoprare, almeno per levarlo di colà, e farlo ritirare altrove a viversi quietamente, reconciliandosi ad un'ora colla Chiesa. Ma finalmente non è da sperarne molto, e converrà aspettarne il rimedio da Dio, essendo tanto innanzi negli anni, che non può esser grandemente lontano dalla sua fine; e solamente si deve temere che non si lasci dietro degli scolari e degli scritti, e che, ancora morto, non continui ad essere alla Repubblica pernicioso». Che però in tempi, in cui l'assassinio politico era praticato universalmente e lodato; in cui lo stesso frà Paolo scrive, «Tali sono i costumi del nostro paese, che coloro che si trovano nel grado dove io ora sono non possono perdere la grazia di chi governa senza perdere anche la vita»[250], che in tempi tali siasi trovato chi attentasse alla vita di lui, non è meraviglia. Cinque volte dicono si rinnovasse il tentativo, ond'egli impetrò di farsi accompagnare per la città da un frate col fucile: altra scena che caratterizza i tempi. Ma una volta fu colpito da alcuni assassini. Principale di questi era un Poma, mercante fallito, che credeva lecito qualunque mezzo per salvare la religione, e che ad un amico scriveva: «Non è uomo del mondo cristiano che non avesse fatto quel ch'io, e Dio col tempo lo farà conoscere»; e volea stampare d'aver operato, non per istanza di chicchessia, ma per servizio di Dio. Frà Fulgenzio racconta che, fatto il colpo, essi ricoveraronsi in casa del nunzio; e vuolsi che frà Paolo, ricevuta la ferita, esclamasse: «Conosco lo stile della curia romana». Il giuoco di parole fece fortuna, e restò dell'assassinio incolpata Roma: forse come oggi, ne' frequenti assassinj de' campioni del cattolicismo, vogliam ravvisare la mano de' Protestanti. Ma il fuggire presso il nunzio potè non accadere che per profittare delle immunità, che la casa degli ambasciadori godeva: eppure dalle deposizioni de' gondolieri consta che ciò è falso. Gli assassini vantavansi di aver denari a josa, e invece a breve andare si trovarono nella miseria, poi vennero arrestati, e dove? in terra di papa; e il Poma, il Parrasio, prete Michele Vida finirono nelle carceri papali di Civitavecchia; uno fu decapitato a Perugia, dominio papale. Come spiegare questa contraddittoria condotta? domandansi coloro che presuppongono il delitto, e non se ne ricredono per quanto vi repugnino le conseguenze. Il papa manifesta altamente il suo rammarico per quel fatto? buttano la colpa sul cardinale Borghese, o, se altri manca, sui Gesuiti, capri emissarj[251]. A repulsare gli attacchi di frà Paolo, altri modi pensava Roma, e commise al gesuita romano Pallavicino Sforza (1607-67) di stendere un'altra storia del Concilio di Trento. Già molti aveano confutato frà Paolo, tra i quali Bernardino Florio arcivescovo di Zara in otto volumi, appoggiandosi a documenti, convinceva il Sarpi d'infedelità nell'usarne e nell'espor le quistioni e le decisioni: ma appena finito morì, e il lavoro inedito rimane nella biblioteca tridentina. Ora il Pallavicino ebbe aperti gli archivj più ricchi, cioè i romani, e a differenza di frà Paolo, indica continuamente la natura dei documenti e i titoli; cataloga trecensessantuno _errori di fatto_ del Sarpi, oltre infiniti altri (dic'egli) confutati di transenna. Quella di frà Paolo è la prima storia che si dirigesse di proposito alla denigrazione, applicata a tutti i fatti, che il narratore non pondera, ma accumula. Egli suppone sempre distinta la verità dalla probità, donde bassezze e ipocrisie, e maneggi dapertutto, e sottofini; mentre il Pallavicino ritrae caratteri nobili, salde persuasioni, generose resistenze. Così eleva gli animi e istruisce meglio gl'intelletti: ma il Sarpi ha i movimenti vivi e leggeri di chi assale e ferisce; l'altro, ridotto a schermirsi continuamente, attedia col sempre ribattere le opinioni del nemico. Il Sarpi mostra pochissima arte di composizione; esponendo cronologicamente, interrompe le materie, e lascerà a mezzo una discussione per dire che entrò il tal ambasciadore e con quali accoglienze; che si celebrò la tal festa, si spedì il tal corriere; e d'incondite digressioni trae occasione ora dalla legazia del Morone, ora dalla morte dei Guisa, or da quella del cardinale Seriprando o di frà Pietro Soto. Accorgeasi che il suo libro riuscirebbe nojoso, e tanto per difetto nelle forme, quanto per la natura della materia presto sarebbe dimenticato come le altre opere simili (Lib. III), ma non curando perpetuità nè diuturnità, bastavagli che l'opera facesse profitto ad alcuni. Pure egli con quella dettatura alla mano, quantunque scorretta di grammatica e di lingua, e col frizzo onde avviva la morta materia, colle mordacità che solleticano i maligni istinti, fa sorridere e alletta a continuar la lettura. Il Pallavicini appartiene alla scuola che dissero gesuitica, dalla frase lambiccata, dalla parola pretensiva: elabora il dettato come chi spera vivere per lo stile, e professa che esser accademico della Crusca lo lusingherebbe quanto l'esser cardinale. Quindi fa sentire incessantemente l'arte, rinvolge i pensieri nelle frasi e per istudio d'armonia casca talvolta nell'oscuro, spesso nell'indeterminato, e convince del quanto l'eleganza resti inferiore alla naturalezza. Nè l'uno nè l'altro hanno l'imparzialità di storici; e ai cercatori della verità riesce doloroso il trovarsi costretti a ricorrere a due fonti, entrambe sospette per opposta eccedenza. I papi proibirono la storia del Sarpi: i Veneziani quella del Pallavicino. Ma questi non dissimula le azioni biasimevoli della corte pontificia, e a chi ne lo appuntò rispondeva: «Lo storico non è panegirista; e lodando meno, loda assai più di qualunque panegirista»[252]. Il più vantato storico della odierna Germania, il protestante Ranke, riscontrò le asserzioni del Pallavicino coi documenti a' quali s'appoggia, e lo trovò di scrupolosa esattezza, benchè alcune volte pigliasse sbagli, e, come avviene nella polemica, eccedesse nel volere scusar tutto, perchè frà Paolo tutto accusava: dove non può negare, almeno affievolisce; dissimula qualche objezione, qualche documento; conchiude il Ranke che al Sarpi devono somma grazia i principi, giacchè rinfiancò il loro assolutismo, come ai nemici del cattolicismo affilò armi, più micidiali appunto perchè somministrate da un cattolico e frate. Dall'esempio di frà Paolo siamo chiariti quanto vadano collegati il dogma e l'attuazione esterna, e come s'illudano coloro che la Chiesa combattono a fidanza, protestando rispetto a quello; poichè egli rimase il corifeo del partito antiecclesiastico, non per l'accannimento, anzi per l'arte del dissimularlo, e, in abito da frate e col titolo di teologo aguzzar le armi più fine contro la Chiesa cattolica; s'anche non vogliasi asserire col Pallavicino che gl'insegnamenti di frà Paolo erano semi di ateismo, togliendo la certezza di qualunque religione[253]. Monsignor Fontanini lo dà come un tipo dell'ipocrito, perchè del carattere sacerdotale e dell'esemplarità «non volle servirsi ad altro fine che per guadagnarsi il concetto popolare di uomo dabbene, con disegno occulto di quindi poter seminare a man salva le sue dottrine, senza sospetto che fossero giudicate aliene dalla vera credenza». Ma se il Fontanini, per zelo religioso, può credersi nemicissimo di frà Paolo, uno che, per furore anticattolico, lo ammira, dicea testè che egli rimase nella Chiesa sino al fine come fosse un de' credenti, ma per ispiarla, per sorprenderne gli atti, per denunziarla al mondo[254]. Ufficio deplorabile! NOTE [201] Appare da Paolo Sarpi, e massime dalle sue lettere al Priuli, ambasciadore a Cesare. Egli ha un consulto «se l'eccelso Consiglio de' Dieci, esaminando i rei ecclesiastici, deva intervenir col vicario patriarcale»: sostiene il no. Nella lettera LXIX: «Alcuni monaci di Padova, avendo molte baronie, tutte possedute da loro, aveano formato una giurisdizione sopra li contadini, la quale gli è stata levata, con disgusto del papa. Roma sopporta ogni cosa, ma finalmente converrà ovvero rompersi, ovvero perder tutto. Il papa ha creduto far dispiacere non facendo cardinale alcun veneto; ma li buoni l'hanno per cosa di pubblico servizio». Nel 1865 furono, per opera del conte Papadopulo, stampate le _Leggi venete intorno agli ecclesiastici sino al secolo XVIII_. [202] Venezia 1670, cap. 116. Al tempo di Clemente VII, quando trattavasi di far guerra ai Turchi e ai Luterani, i Veneziani si opponeano: quanto ai primi perchè temevano eccitarli a riazioni: quanto agli altri perchè non si dessero a qualche passo disperato: onde preferivano sempre la convocazione del Concilio, e il nettare e purgare alla quieta gli animi dal funesto veleno (_Secreta 27 ottobre 1530 nell'Archivio di Venezia_). E passando a quei giorni don Pietro de la Queva per andar a Roma a sollecitare il Concilio, i signori veneziani gliene mostrarono grandissima compiacenza; perocchè «pochi sono tra essi, che, sul fatto della riforma del clero e del togliere l'asse ecclesiastico, non siano più luterani di Lutero stesso, dicendo pubblicamente che il papa, i prelati, i sacerdoti devono vivere delle sole decime». Sono parole di Rodrigo Nigno ambasciadore cesareo, nel leg. 1308 dei _manuscritti negozj di Stato_ nell'Archivio di Simanca. [203] Conosciamo una relazione che il vescovo, dappoi cardinale Bolognetti, dirigeva a Camillo Paleotto intorno alla nunziatura che, regnante Gregorio XIII, sostenne nel Veneto. Incaricato di farvi la visita apostolica, gravissime difficoltà incontrò per parte della Signoria, ma con modi insinuanti e prudenti riuscì a comporre le differenze. Gliene seppero mal grado alcuni curialisti, e nominatamente il cardinal Gallio segretario di Stato, che avrebbero voluto un procedere più risoluto: talchè fu richiamato. Egli si giustifica mostrando come colle cortesie, col rispetto, col temporeggiare s'ottenga ben più che colle violenze, principalmente verso principi cristiani; e come avesse conseguito veri vantaggi col sopprimere una scomunica, voluta da zelanti che poco bene servivano alla causa del papa. [204] _A Clemente VIII, ambasceria veneta straordinaria._ Pubblicato dal Fulin, per nozze, nel 1865. [205] _Statuti dell'Inquisizione di Stato._ Supplemento I, art. 3. [206] WICQUEFORT, _L'Ambassadeur_, p. 416. [207] «E se li detti doge e senato, per tre giorni dopo il fine dei ventiquattro giorni, sosterranno con animo indurato (il che Dio non voglia!) la detta scomunica, noi, aggravando la detta sentenza, da adesso parimenti siccome da allora sottoponiamo all'interdetto ecclesiastico la città di Venezia e l'altre città, pronunciandole e dichiarandole tutte poste a detto ecclesiastico interdetto; il quale durante, in detta città di Venezia e in qualsivoglia altra città, terre, castella e luoghi di detto dominio, e nelle loro chiese e luoghi pii e oratorj, ancorchè privati, e cappelle domestiche, non possano celebrarsi messe solenni e non solenni e altri divini officj, eccetto che nei casi dalla legge canonica permessi, e allora solamente nella chiesa e non altrove, e in quelle con tener ancora le porte chiuse e senza sonar campane, ed escludendo affatto gli scomunicati e gli interdetti; nè in quanto a questo possano di altra maniera suffragare qualunque indulti o privilegi apostolici concessi o che si concedessero per l'avvenire in particolare o in generale a qualsivoglia chiese tanto secolari, quanto regolari, ancorchè sieno esenti ed immediatamente alla sede apostolica soggette, e se bene sono di jus patronato, eziandio per fondazione e dotazione o per privilegio apostolico dell'istesso doge e senato... «Ed oltra di questo, priviamo e decretiamo che restino privati gli suddetti doge e senato di tutti i feudi e beni ecclesiastici se alcuno ne possede in qualunque modo, dalla romana e dalle nostre o altre chiese; e ancora di tutti e qualsivoglia privilegi e indulti, i quali in generale o in particolare sono stati forse loro concessi in qualsivoglia modo da' sommi pontefici nostri predecessori, di procedere in certi casi per delitti contro i cherici, e di conoscere con certa forma prescritta le cause loro. E niente di meno, se detti doge e senato persisteranno più lungamente pertinaci nella contumacia loro, riserviamo a noi e successori nostri pontefici romani nominatamente e specialmente la facoltà di aggravare e riaggravare più volte le censure e pene ecclesiastiche contro di essi e contro gli aderenti loro, e contro a quelli che nelle cose suddette in qualsivoglia modo gli favoriranno o daranno ajuto, consiglio o favore, e di dichiarare altre pene contro li stessi doge e senato, e di procedere secondo la disposizione dei sacri canoni ed altri rimedj opportuni; non ostante qualsivoglia costituzioni e ordinazioni apostoliche e privilegi, indulti e lettere apostoliche alli detti doge e senato, o qualsisia loro persone concessi in generale o in particolare, ed in ispecie disponenti che non possano essere interdetti, sospesi o scomunicati in virtù di lettere apostoliche, nelle quali non si faccia piena ed espressa menzione di parola in parola di tale indulto, ed altrimente sotto qualunque tenore e forme, e con qualsivoglia clausola eziandio deroganti alle derogatorie, ed altre più efficaci ed insolite e con irritanti ed altri decreti, ed in ispecie con facoltà di assolvere nei casi a noi ed alla sede apostolica riservati, a quelli in qualsivoglia modo, da qualunque sommi pontefici nostri predecessori, e da noi e dalla sede apostolica, in contrario delle cose sopradette, concesse, confermate ed approvate». [208] _Paolo V e la Repubblica veneta. Giornale quotidiano._ Vienna 1859. È un estratto, fatto forse per uso d'uffizio, degli atti passati in quel tempo, non già note giornaliere d'un testimonio, come parrebbe indicare il titolo; tace quel che non fa al suo intento, come si vede da quel che vi supplì l'editore Cornet. Nel giornale nè nei supplementi non v'è pur cenno dei tentativi di apostasia di cui parleremo. [209] Galileo Galilei da Venezia l'11 maggio 1606 scrive: «Jer sera furono mandati via li padri Gesuiti con due barche, le quali dovevano quella notte condurli fuori dello Stato. Sono partiti tutti con un Crocifisso attaccato al collo, e con una candeletta accesa in mano, e jeri dopo desinare furono serrati in casa, e messovi due bargelli alla guardia della porta, acciò nessuno entrasse o uscisse dal convento. Credo si saranno partiti anche da Padova e di tutto il resto dello Stato, con gran pianto e dolore di molte donne loro devote». Tutte le lettere de' residenti di quel tempo ragguagliano o di satire o di prediche o di discorsi tenuti da Gesuiti contro la Repubblica; de' loro sforzi per mettere un'Università a Gorizia, o a Ragusi, o a Castiglione delle Stiviere; finchè uscirono le ducali del 14 giugno 1606, che sbandivanli dallo Stato, del 18 agosto che proibivano ai sudditi di mandar figliuoli ai collegi de' Gesuiti, del 16 marzo 1612 che vietavano ogni corrispondenza con essi. [210] In una cronaca citata dal Cicogna, _Iscrizioni_, tom. V, pag. 556, leggesi al 1606: «Occorse in questi giorni che le reverende monache di San Bernardo di Murano, persuase dal suo cappellano, furono scoperte che osservavano l'interdetto del papa, e che non ascoltavano messa nè si confessavano e comunicavano, avendoli detto reverendo mostrato un giubileo che ha concesso il papa a chi osserverà l'interdetto, nè ascolterà messa, promettendogli un paradiso di delizie fatte a lor modo... Avendole prima persuase li suoi procuratori del monasterio e senatori loro parenti, et anco il vicario del suo vescovo, nè per questo avendole potute rimuover da questa loro opinione, furono immediate mandati li capitani del Consiglio dei Dieci, d'ordine del senato, a serrarle nel convento, ficando le finestre e porte de' fuori con buoni cadenazzi, con pena della vita a chi s'accostasse a detto monasterio, nè meno le soccorresse di cosa alcuna, tenendole del continuo guardie». [211] _Raccolta degli scritti usciti per le stampe di Venezia e di Roma e altri luoghi nella causa dell'interdetto._ Coira, per Paolo Marcello, 1607. [212] Il Grisellini, nella vita o piuttosto apologia di frà Paolo, dice che questo «dopo che fu eletto consultore, ad alcuna opera non diede mano giammai senza il motivo del pubblico interesse, cioè o per difendere il sovrano diritto del principato, o per autorizzare la santità delle sue ordinazioni», pag. 78. E anche d'altre opere dice sempre: «A norma delle pubbliche mire, venne dal nostro autore intrapresa»; p. 101, e _passim_. [213] _Opinione di frà Paolo come debba governarsi la Repubblica per avere il perpetuo dominio, ecc._ [214] _Mem. de Duplessis-Mornay_, X, 292. [215] FRA' FULGENZIO. — Nel lib. IV della _Letteratura veneziana_ del Foscarini è a vedere quanti nobili veneziani in quel tempo, oltre i prelati e i monaci, coltivassero le scienze sacre e la storia ecclesiastica e ne scrivessero. [216] Ricaviamo tali particolarità dalle _Memorie_ citate. Vedi pure _Blicke in die Zustände Venedigs zu Anfang des_ XVII _Jahrhunderts_, negli _Historische politische Blätter für das katholische Deutschland_. Monaco 1843; e nelle _Memorie storiche e letterarie della società tedesca di Königsberg_, G. MOHNICKE, _Versuche zu Anfang des_ XVII _Jahrhunderts etc._, cioè _Tentativi fatti al principio del secolo_ XVII _per introdur la Riforma a Venezia, con due lettere sinora inedite di Giovanni Diodati per illustrare la storia e il carattere di frà Paolo_. Queste lettere, che parlano d'una gita del Diodati a Venezia nel settembre 1608, furono date da un suo discendente, professore a Ginevra. Nella _Semaine religieuse_ del 1863 a Ginevra fu pubblicato dal signor Eugenio de Buddé una _Brève relation de mon voyage à Venise en septembre 1608_, di Giovanni Diodati. Vi fu sollecitato da amici di colà, e massime dall'ambasciatore d'Inghilterra e da un Biondi che gli scriveva l'11 aprile 1608: «Se V. S. è disposta a venire a Venezia, ve la prego ed esorto. Questa risoluzione sarà una consolazione per voi, un potente sostegno allo spirito, e produrrà frutto per alcuno e gloria a Dio... Aspettate qualche pericolo. Dite d'andar tutt'altrove che a Venezia. Se Roma lo sapesse, potrebbe venirne qualche incaglio e scandalo: e posso dirle che il papa è informato da tutte le parti. Rivestitevi del desiderio di compiere un'opera così alta: se lo fate, spero che i semi da voi gettati produrranno un albero sì grande, che tutti potranno prosperare alla sua ombra». Il Diodati v'andò in gran secreto, appena ebbe compita la traduzione della Bibbia, e inviatine alquanti esemplari. Un francese Papillon, frequentando molte case patrizie, v'aveva avuto grandi speranze di stabilirvi un'assemblea, senza però che si desse alcuna confessione o promessa. Frà Paolo era «la première roue instrumentale de cette sainte affaire», ma non voleva dichiararsi coi molti gentiluomini che dipendevano affatto da lui, «se contentant de jeter dans leurs âmes quelques semences de vérité par des avis familiers, et les sermons de son disciple Fulgentio, et de saper sécrétement la doctrine et l'autorité d'un pape, ce en quoi il a extrémement été utile». Gli altri che aveano desiderio di stabilire una chiesa, vedendo frà Paolo sì ben dissimulare, perdeano confidenza. Di frà Paolo loda l'immenso sapere: «Mais ce grand et incomparable savoir est detrempé en une si scrupuleuse prudence, et si peu échauffé et aiguisé de ferveur d'esprit, quoique accompagné d'une vie très-intègre et toute exemplaire, que je ne le juge capable de donner le coup de pétard et de faire l'ouverture». Frà Fulgenzio ha più zelo, e men timore e meno scrupoli politici, più forza di corpo e facondia e gioventù, e gran reputazione come predicatore, ma è contrappesato dalla tiepidezza di frà Paolo. Fa però molto coi discorsi e gli avvisi e i fremiti. Frà Paolo gli confessò più volte che ingannava se stesso, ma la necessità lo costringeva: altrimenti gli converrebbe spatriare, e così sarebbero divelte tutte le speranze, e rialzato il coraggio de' nobili, contrarj al bene. E del suo non operare adduceva tre ragioni. 1. che Dio non gli diede natura ardente quanto si vorrebbe a un tale tentativo: 2. che gl'Italiani non pendono a queste cose celesti; e non si può arrivarvi che lentamente: 3. che affidando a lui la repubblica gli affari più scabrosi, avea mezzo di scalzar l'autorità del papa e preparare i cuori, e rivolgere le deliberazioni verso il buon partito. Il Diodati però non disperava, primo perchè vide molti bene informati su assai punti, e disgustati degli abusi del papato, tanto che l'ultimo giubileo fu celebrato appena da un decimo della nobiltà: secondo, per la gran libertà di discorrere e di legger libri buoni, inclinando a giustificare e lodare il partito: le Bibbie se le strappan di mano l'un l'altro: l'inquisizione v'è legata. Avendo il re di Francia mosso lamento all'ambasciador veneto a Parigi perchè si lasciassero circolare ben 2000 Testamenti nuovi di fabbrica ugonota, quegli rispose non saperne nulla, ma Venezia è città libera, onde i libri vi sono venduti senza riserbo: terzo, l'ambizione di Roma che vorrebbe ricuperare di qua dei monti ciò che perdette di là, e mentre di là riceveva tesori che arricchivano l'Italia, or deve snervare questa colle sue esazioni. Venezia cerca impedirlo, e all'uopo smunge gli ecclesiastici che sangue succhiarono; onde perpetui scontenti e maliumori col papa. Per riuscire bisogna compor libri a posta, e principalmente opuscoli. A tal uopo egli, il Diodati, s'è messo a tradur in rima satire italiane. Inoltre spedire in buone case mercanti fiamminghi, che v'impareranno la lingua, e poi potranno venir buoni. Terzo trovar persone dotte, prudenti e mature, e stipendiarle perchè tengan occhio alle opportunità. In quarto luogo cercare che gli Stati di Fiandra domandino d'aver un fondaco come i Tedeschi, ed esercitarvi il loro culto in lingua francese. È poi necessario che qualche principe tedesco tenga agenti a Venezia, e questi abbiano ciascuno con sè qualche personaggio dotto da consultare, e che potrebbe dar consigli anche ai Veneziani ne' loro dissidj col papa. Tutto ciò è esposto in una lettera del 4 aprile 1608 al Du Plessis, raccomandandogli strettamente il secreto. Averlo a ciò sollecitato l'ambasciadore inglese, che con frà Paolo e frà Fulgenzio ha divisato d'erigere una chiesa secreta, adoprarvi il messale corretto, e intanto fondar la verità negli spiriti; a ciò sono comuni in Venezia il desiderio di saper i fondamenti di ciò che si crede, e la libertà di seguirne i mezzi particolari; cioè il volere e il potere. «Frà Paolo predica pubblicamente i principali e generali fondamenti della verità: questa quaresima ne ha scossi molti: è nel massimo favore, ma va cauto per non iscoprirsi, e così prepara gli spiriti colle sue massime irrefragabili. «Un gentiluomo veneziano che conobbe la verità in Francia, m'ha scritto che il desiderio d'istruzione è in molti, in tutti l'animosità contro la tirannia di Roma sul personale». Un signor Danquoy di Couvrelles nel 1609 scriveva altre particolarità sopra Venezia: «Vorrei sentiste come parlano franco i padri Paolo e Fulgenzio, che nulla meglio desiderano che di veder altri finir l'opera ch'essi hanno sbozzata». Della Bibbia del Diodati parlammo nella nota 11 del Discorso XXXVII. Se gli odierni accademici della Crusca l'ascrissero fra le opere classiche per lingua, fu per condiscendenza alle idee correnti. Vissuto a Ginevra, e sol per poco viaggiato in Italia, avvezzo al parlare e allo scrivere francese, nel quale tradusse la storia di frà Paolo, non poteva usare che la lingua letteraria, con affettazioni ed arcaismi; mentre il Martini, toscano, usò la viva e popolare. Nelle note il Diodati offre interpretazioni di calvinisti o di dottori protestanti: mentre il Martini pone le interpretazioni de' santi padri, quasi altro non facendo che tradurle in modo piano. [217] Le lettere del Sarpi pubblicaronsi a Ginevra colla data di Verona 1673, poi in calce alla _Storia arcana di frà Paolo_. Sono dirette a Girolamo Groslot signor Dell'Isola, amico del Casaubono, al medico Pietro Asselineau, a Francesco Castrino ugonotto, a Giacomo Gillot, cappellano e consigliere al parlamento di Parigi. Gregorio Leti, nella Vita di Cromwell, ne attribuisce a sè la pubblicazione. Alcuni ne hanno impugnato l'autenticità; altri le supposero interpolate. Questa seconda asserzione non potrebbe che provarsi coi particolari: esaminate le ragioni contrarie, io le credo autentiche; e gran peso mi fa questo passo del famoso Pietro Bayle, nella lettera al signor Sondré, 21 settembre 1671: _Frà Paolo a été un des plus grands hommes de son temps. On a imprimé ici ces lettres; mais on croit qu'on en arrétera l'impression, à cause que messieurs de Rome y verroient qu'il entretenait commerce avec ceux de notre réligion... et qu'ainsi ils recuseraient son témoignage touchant l'histoire du Concile, que nous leurs opposons. Ce fut une des raisons qui obligea monsieur Dallez à s'opposer à l'impression de ces mêmes lettres; quoique au reste il eut beaucoup de passion pour la gloire de frà Paul, qu'il avoit autrefois connu très-particulièrement à Venise lorsqu'il y conduisit les petits néveux de monsieur Duplessis-Mornay_. Non così credo autentiche le _Scelte lettere inedite_, stampate a Capolago il 1847, essendo di stile pieno di tropi, e girato in tutt'altro modo che quel di frà Paolo: o piuttosto sono di mani diverse. Un'altra edizione delle _Lettere di frà Paolo Sarpi_ fu fatta a Firenze il 1863, 2 vol. in-16º, per cura di F. L. Polidori, senza discerner le autentiche dalle altre, con prefazione di Filippo Perfetti, il quale si lagna che «i nemici della libertà religiosa incolpino il Sarpi d'aver insegnato a tôrre alla Chiesa la libertà, dando allo Stato illegittima autorità e arbitrio sopra di quella». Come si accordino questi due membri lo spieghi chi sa. Lo loda per lo stile ironico, e dice: «Non ha somiglianza a Lutero, non è uomo di misticismo e di sentimento, ma di ragione ferma e tetragona; nè tampoco rassomiglia a Calvino; mancagli l'audacia del paradosso e il furore della novità; nè il suo ingegno si appiglia alla critica minuziosa onde scaturiva il soccinianesimo. Insomma non era buono da farne un eresiarca; non saria stato sufficiente a trarre dietro a sè le turbe, ma valentissimo era nei consigli di pochi savj... E tanto difficile che Sarpi fosse un altro Lutero, quanto che Lutero avesse ambito alla porpora de' cardinali». [218] _Ep._ 358, p. 865. [219] _Ep._ 574. [220] Lettera 13 settembre 1611. [221] Chiesto dall'ambasciatore olandese di commendatizie, Duplessis-Mornay gli scriveva il 3 ottobre 1609: _Pour adresse, je ne la vous puis donner meilleure qu'au vénérable père Paulo, directeur des meilleurs affaires... auquel, avec le zèle de Dieu, vous trouverez une grande prudence conjoincte: mais il faut l'exciter à ce que l'une enfin emporte l'autre. Vous avez aussi le père Fulgenzio, qui n'est que feu; précheur admirable._ Mémoires, 393. Il Bayle in _Aarsens_, riferisce che frà Paolo imbattuto l'ambasciadore d'Olanda, gli disse che avea gran piacere di vedere il rappresentante di una repubblica, la quale teneva il papa per anticristo. Questo fatto venne addotto dal Pallavicino nella prima edizione della storia del Concilio, ma espunto nelle seguenti; segno che il conobbe falso. Vittorio Siri dice aver trovato negli archivj di Francia moltissime traccie del favore dato dal Sarpi agli Ugonotti, e massime ne' registri del nunzio Ubaldini, attentissimo a sventarne le trame, e che cercò aver gli originali delle lettere per imputarlo d'eretico avanti al senato veneto. [222] Essa è arditamente impugnata e da Voltaire e dal Daru come viltà indegna di Enrico IV: eppure è messa fuor di dubbio dalle Memorie di Mornay. Inoltre nel processo contro Antonio Foscarini (sospettato anch'egli di opinioni ereticali) è un carteggio di Pietro Contarini ambasciadore di Venezia in Francia, del 1615, ove scrive d'aver inteso dal nunzio pontifizio, che «vivendo il fu re, per le pratiche che teneva del continuo a Ginevra, aveva avuto avviso ed alcune lettere, che non mi espresse se fossero scritte da Venezia o dal signor Foscarini, con le quali si avea fatto venir costà (a Venezia) un ministro ugonotto: del che il re fin d'allora ne facesse avvertire la repubblica per l'ambasciatore M. di Champigny, considerandole il pregiudizio che poteva ricevere la religione cattolica dalle pratiche di simil gente in quella città, e che saputosi ciò da esso signor Foscarini, ne era stato grandemente conturbato». Vedi _Relazioni degli Stati Europei lette al senato di Francia_, pag. 405. Il Foscarini, condannato a morte pel noto sbaglio, in testamento lasciava «ducati cento al padre maestro Paolo (Sarpi) servita, perchè preghi il signor Dio». Il Sarpi saputolo, scrisse ai Dieci, che, «conoscendo esser in obbligo per conscientia et per fedeltà di non haver a fare con chi s'è reso indegno della gratia del prencipe nè mentre vive nè dopo la morte, ha stimato dover rifiutare il legato assolutamente». Un legato per pregare! e da uno che poco dopo fu dichiarato innocente! [223] Lettera XLIV al signor Dell'Isola. [224] Lettera LX allo stesso. Vedi pure le _Memorie di Mornay_, X, 386, 390, 443, 456, 516; e Courayer, nella vita di frà Paolo premessa alla sua traduzione della _Storia del Concilio di Trento_, pag. 66. [225] Lettera LI, 12 ottobre 1610. Anche pochi giorni prima dell'uccisione di Enrico IV, il Sarpi scriveva: _Nulli dubium quin, sicut Ecclesia verbo formata est, ita verbo rite reformetur. Attamen, sicuti magni morbi per contrarios curantur, sic in bello spes, nam extremorum morborum extrema remedia. Hoc mihi crede e propinquo res videnti. Non aliunde nostra salus provenire potest._ Op. di frà Paolo, VI, 79. Nella LIII lettera, compiangendo la morte di Sully, dice che l'amava «per la fermezza nella sua religione». Di Giacomo I scrive: «Se il re d'Inghilterra non fosse dottore, si potrebbe sperare qualche bene, e sarebbe un gran principio». Lettera LXXXVIII. [226] Lettera LXXXVIII, 29 marzo 1612 al Groslot. Di tutto ciò più distesamente vedasi nella _Storia arcana della vita di frà Paolo Sarpi, scritta da_ M. GIUSTO FONTANINI, _e documenti relativi_. Venezia 1803. È opera postuma, e l'editore arciprete Ferrario l'annunzia così: «Chiunque tu sia, che pigli a leggere questo libro, a me basta che abbi amore e zelo di religione, che abbi fedeltà ed attaccamento ai Governi. Buon cattolico e buon cittadino, questo libro ti piacerà. Esso leva una gran maschera, scopre un grand'impostore, palesa un grand'empio, ecc.» [227] Lettera 6 marzo 1611. _Memorie_, X, 169. Nelle _Lettere diplomatiche_ del Bentivoglio, ai 27 febbrajo 1619 abbiamo: «Per via di un ministro già ugonotto, che si è convertito poi alla religione, ho saputo ultimamente che, nel tempo dell'interdetto dei Veneziani, alcuni ministri eretici di Ginevra, di Berna e d'altre parti convicine pensarono di valersi di quell'occasione per ispargere in Venezia il veleno dell'eresia. Onde fra loro fu risoluto in particolare che si mandasse colà, sotto nome di mercante, un certo tale dei Diodati, italiano lucchese, che è ministro in Ginevra. Egli dunque v'andò in compagnia d'altri mercanti eretici, i quali, anch'essi consapevoli del disegno, avevano carico di doverlo ajutare. Giunto che fu in Venezia, esso Diodati trattò segretamente con diversi ed in particolare con frà Paolo, nel quale scoperse una grande alienazione dalla Corte di Roma, e sensi del tutto contrarj all'autorità della santa sede; ma nel resto non poteva comprendere ch'egli avesse alcuna inclinazione di voler abbracciare assolutamente l'eresia. Il detto Diodati, insieme con quei mercanti, oltre al parlare che fece, vi disseminò con molta segretezza un buon numero di libri eretici, particolarmente delle Bibbie tradotte in lingua italiana. Ciò fatto, egli se ne tornò poi a Ginevra, con isperanza che il veleno ch'egli avea sparso fosse per fare non piccolo progresso. Io, dopo aver inteso questo, dubitando che di quel veleno non vi resti ancora qualche corruzione, stimai di doverne parlare, come feci, al signor cardinale di Retz ed al signor di Pisins, e trovai che anch'essi avevano avuto l'istessa informazione per la medesima strada, e Pisins mi disse che si erano ricevute appunto lettere pochi dì sono dall'ambasciadore di questa maestà in Venezia, che avvisava che colà le cose passavano a qualche libertà pericolosa in questa materia di religione, per rispetto della licenza che si pigliavano quelle genti forestiere che sono state assoldate dalla repubblica, ed in particolare il loro capo. Dopo mi ha detto il medesimo Pisins, che con altre lettere più fresche dello stesso ambasciatore era inteso che questo disordine non fosse di quel pericolo che si era dubitato». [228] Allo Scaligero, _ep._ 480, 11 marzo 1607. _Magna Deo gratia, quod mediis Venetiis virum magnanimum, magnum illum Paulum excitavit, qui teterrimas sophistarum fraudes et paralogismos, quibus orbi christiano illuditur, palam faceret. Puto vidisse te opuscula hujus Pauli, meo judicio præstantissima, et dignissima quæ legantur a te. Lætaberis scio, et magno heroi votis favebis tuis._ Ep. 474 del 7 novembre 1606. Allo Scaligero, ep. 480, 11 marzo 1607. _Vidisti ne quæ Venetiis prodiere scripta a paucis mensibus? Ego, cum illa lego, spe nescio qua ducor futurum fortasse illic aliquando et literis sacris et meliori literaturæ locum. Mirum dictu quam multi tam brevi tempore animum ad scribendum applicuerint. Atqui nemo erat qui existimaret ex ea urbe unum aut alterum posse reperiri earum rerum intelligentem, quæ a doctrina lojolitica abhorrent tantopere. Exitum ejus controversiæ cum hæc scribebam, omnes μετέωροι in hac urbe expectabant. Deus ad gratum sibi finem omnia perducat._ Nell'ep. 484 del 18 marzo a Scipione Gentile: _O viros! o exactam earum rerum cognitionem; quas in illis oris nemini putabant plerique esse notas! multa legi.... omnia probavi et laudavi, sed inter omnes mirum dictu quantum judicio Paulus excellat, quem scimus virum esse doctissimum, vitæ innocentissimæ, juditii tenacissimi. Hujus si scripta legisti, ecquid de vestra Italia sperare incipis?_ E lo Scaligero rispondendogli d'aver tutto letto, soggiunge: _In illis auctoribus tres palmam obtinent: Paulus servita, Marsilius neapolitanus, Antonius Querinus patricius. Certe quomodocumque in amicitiam coeant illæ dure partes, nunquam coire poterunt in cicatricem illa vulnera, numquam stigmata deleri, quæ pontifex accepit._ Ep. 131 del 22 marzo 1607. [229] _Mémoires de Sully_, tom. III, pag. 27. [230] «Tutta Roma ragionava dell'interdetto e del protesto de' Veneti, ai quali davano torto... il cardinale Valier essere morto in poche ore a quanto dicevasi, di crepacuore». _Esposiz. di Roma_ nell'Arch. de' Frari. [231] Il Romanin, nella _Storia documentata di Venezia_, tom. VII, p. 44, adduce un passo tratto da una miscellanea conservata da Emanuele Cicogna, ove dice che il cardinale Baronio professava «esser del ministero di san Pietro tanto il pascer le pecore che l'ammazzarle e mangiarle; e tale ammazzamento non sia crudeltà ma atto pietoso, perchè, se perdono il corpo, salvano l'anima». È strano che così la pensasse il Baronio, generalmente lodato di mansuetudine; e che nella sua _Parenesis ad R. P. Monetam_ conchiude: «La Chiesa non odia nessuno; essa ci ammonisce cogli scritti e insinua colle parole di amar i nemici, non perseguita e odia che il peccato. Sant'Agostino a Massimino donatista ed eresiarca dà il titolo di dilettissimo... «Io vi amo tutti nelle viscere di Gesù Cristo, e prego per voi. L'ammonimento che vi mando siavi di correzione se l'accogliete; di protesta se lo ricusate». Non vi sarebbe dunque se non da imparare che bisogna andar cauti nell'accettare scritture di contemporanei, che dalle passioni contemporanee possono essere invelenite fino a repudiare ogni buon senso, come vediamo tuttodì. Ma nel caso nostro v'è di peggio. La nota da cui son tratte quelle parole sono poche pagine inserte in una miscellanea, dove un tale, incaricato d'informar la Repubblica sopra le opinioni manifestate nel concistoro, professa non aver potuto notare tutte le parole, e dopo alquanti giorni essergli scomparse dalla memoria a segno, da richiamarsele a stento. Or quelle del Baronio che adduce, sono: _Quod occisio non debet esset nisi ex summa charitate: quod occidit præcipit manducare; nempe per christianam charitatem in sua viscera recondere, in se ipsum unire, ut sint simul unum et idem in Christo._ Da questo simbolico uccidere e mangiare per carità cristiana, s'è potuto dedurre quella strana asserzione! [232] Nicolò Contarini, poi doge, grand'amico di frà Paolo, eletto storiografo pubblico, tirò la storia dal 1597 al 1603: ma il Consiglio dei Dieci dopo la sua morte ritirò il manuscritto, e parendo troppo vivo nelle quistioni con Roma, non lo lasciò pubblicare. Una buona _Historia dell'Escomunica_ fu fatta e non stampata dal senatore Antonio Querini, che la chiude con dodici ammaestramenti. Eccone alcuni: II. La guerra ove si tratta di religione, anche in maschera o apparenza, è sempre pericolosissima, perchè mette sue radici nelle parti più vitali dello Stato. III. Il pontefice in tutte le sue contese, per esorbitanti che siano, ha grandissimo avantaggio, avendo sempre molti principi temporali che lo favoriranno, e per acquistarsi merito con esso, e per opprimer gli Stati contrarj sotto titolo di zelo religioso. IV. Nessuna cosa può metter in maggior pericolo la libertà pubblica che il non aver buona intelligenza col pontefice. VI. La riuscita di questo negozio non deve dar norma nè esempio per regolar nell'avvenire le nostre azioni in simili accidenti; perciocchè, oltre il proverbio che non è deliberazione più pericolosa di quella che vien regolata coll'esempio, perchè basta un minimo accidente per rendere il successo differentissimo, non si avrà sempre un pontefice di animo così incostante e timoroso, nè un re di Spagna anzi retto che rettore dei suoi regni, ecc. VIII. Se la Repubblica non ha perduto di riputazione in queste controversie, perchè non ha abolito nè sospeso le leggi contenziose, ha però conceduto i due prigioni; e i due maggiori re del mondo hanno per lei dato parola al pontefice che non farebbe uso di dette leggi. [233] Bossuet, se pur è sua la _Difesa della Dichiarazione del clero gallicano_, volendo sostenere l'indipendenza dei principi della Chiesa, adduce che Paolo V non depose il doge e il Governo veneto, come avea fatto Gregorio VII con Arrigo IV; che il doge e il senato protestarono non esser la podestà de' principi sottomessa se non a Dio; che tutti i Veneziani obbedirono al doge e non badarono a decreti di Roma; che rimasero saldi gli editti e le leggi del senato, ancorchè concernessero beni e persone ecclesiastiche; fu tenuta per nulla la scomunica pronunciata col pretesto dell'immunità ecclesiastica, e il senato fu considerato ancora come cattolico benchè nè chiedesse perdono nè ottenesse l'assoluzione; che l'accordo si fece per mediazione della Francia e della Spagna, nè alcuno prese a difendere l'impegno di Paolo V, nè ad impugnar l'editto del senato: donde si deduce che, contro pontefici veementi ed esorbitanti si possono difendere i diritti regj senza ledere la religione. Si risponde, primo, che il caso di Arrigo IV era ben diverso da questo, dove non interveniva delitto che portasse la deposizione, nè disobbedienza minacciosa o professata eresia. Il senato non negava l'indiretta podestà del papa sul temporale, bensì contendea del fatto e della materia di tal podestà, e se ingiuste o no le leggi per cui Paolo V interdiceva Venezia; sul che non era avvenuta alcuna canonica definizione. Laonde il Donato dichiarava il breve di Paolo ingiusto, indebito, _nulloque juris ordine servato_, e perciò nullo; non mai perchè il papa non n'avesse diritto. Se, come le giudicava il senato, le leggi sue erano giuste e competenti, il papa avrebbe esercitato un potere diretto sopra uno Stato indipendente, il che eccedeva le sue attribuzioni, atteso che il potere spirituale del papa riguarda le cose temporali unicamente per ragione del peccato. Ecco perchè il senato vi si oppose, nè per questo Paolo V volle obbligarlo a ritrattarle. Che i Veneziani tutti obbedissero al Senato, sarebbe a provarsi: gli Ordini religiosi intanto soffersero piuttosto l'esiglio: quanto agli altri, il timore e la riverenza potè indurveli, come vediamo tuttodì sottoporsi i nostri a leggi evidentemente irreligiose dello Stato. La stessa persuasione del principe che esse leggi non fossero contrarie alla Chiesa, dovette entrare nei più. Nella riconciliazione poi dicemmo come si procedesse in modo che, nè da una parte apparisse ostinazione puntigliosa, nè dall'altra insubordinatezza. Che se Francia e Spagna avessero veduto nel senato veneto una rivolta contro al pontefice, un atto scismatico, si sarebbero elle interposte per un accordo? Eppure in questo si volle un atto di devozione. [234] MOROSINI, _Storia_, lib. 18, p. 699. Nel 1657 fu legalmente riconosciuta una comunità evangelica della Confessione Augustana, esente dalla giurisdizione del Sant'Offizio, e con diritti che durarono quanto la Repubblica, e furono confermati dai Governi successivi. Prima tenne cappella nel fondaco de' Turchi: dopo il 1812 esercitò libero culto in quella che già era scuola dell'Angelo Custode ai Santi Apostoli. V'è stabilito l'ordine presbiteriale. Il predicatore o pastore, dipendente dal concistoro di Vienna, è eletto a maggioranza di voti, e così gli anziani che presiedono all'amministrazione della Chiesa, del culto, delle limosine. Le spese sostengonsi con un'imposta ai capi famiglia. [235] Lettera LXV, 5 luglio 1611 e LV e XI, XII al signor dell'Isola. [236] I _Monita secreta_ si supposero scritti dallo Scioppio, ma pajono piuttosto di Girolamo Zaorowsky, polacco, espulso dalla Società il 1611; certo sono anteriori al 1613, in cui ne fu stampata una confutazione del padre Jacobo Gretzer. Del satirico Scoti nella _Monarchia solipsorum_, che è il libello più accannito contro i Gesuiti, non accenna i _Monita secreta_: eppure nel capo X tratta delle _Leges solipsorum_, e dice queste _in quinquagena volumina ingentia excrescere, abitura in infinita, nisi moderatio interest. Continent autem varia decreta, tum ad universam monarchiam spectantia, tum monarcarum_ (cioè i prevosti generali) _singularia rescripta, admirandarum plena industriarum et præceptionum circa singula genera rerum, numerum personarum, et quæ sub generibus sunt singularum_. E ne riconosce come fondamenti, 1º il venerar il loro prevosto generale più di qualsiasi persona; 2º l'affaticarsi per soggiogargli l'intero mondo. [237] Nelle lettere informa ogni tratto de' ripullulanti litigi di giurisdizione di Roma colle varie Potenze. Per es. nella LXV: «In Sicilia è occorso, che volendo il vicerè punire un prete non so per che delitto, egli si salvò in chiesa, e l'arcivescovo lo difendeva e per esser prete e per esser in chiesa. Le quali cose non ostanti, il vicerè lo fece levar di chiesa e impiccare immediato. L'arcivescovo pronunciò il vicerè scomunicato, e il vicerè fece piantar una forca innanzi la porta del vescovato, con un editto di pena del laccio a quelli ch'erano di fuora se entravano, e a quelli di dentro se uscivano fuora. Di questo è stato mandato corriere espresso a Roma, dove non hanno molto piacere che si parli di successi di questo genere; atteso che per queste cause di giurisdizione ecclesiastica pare che in tutti i luoghi nascano controversie, e che essi per tutto le perdono». Nella LXXIV: «Trattano gli Spagnuoli di fortificar Cisterna, ch'è un luogo confine tra il ducato di Milano e il Piemonte, e quello che importa, è feudo del vescovato di Pavia, onde dispiacerà e al duca e al papa. Questo lo sopporterà, e quello non può resistere». Nella LXXV: «Si è abboccato il duca di Savoja in Susa con monsignor Lesdiguières, e quel principe tratta continuamente con capitani di guerra. Che disegni egli possa avere, qua non è ancora penetrato, nè io posso pensar altro, salvo che voglia dare qualche gelosia a Spagna. È andata attorno una certa voce, che il suo primogenito voglia vestirsi cappuccino. Io non posso assicurare questo per vero: ma questo so ben certo, che sua altezza ha comandato alli Cappuccini, che nelli luoghi del suo dominio non tengano frati, se non sudditi suoi naturali. Ha ancora quel duca fatto spianare una rôcca nella terra di Vezza, feudo della chiesa d'Asti; nè per questo il pontefice fa quel tanto rumore, che s'avrebbe potuto credere. Li Spagnuoli hanno fatto quattro richieste al papa: una, che non si metta pensione in capo di Spagnuoli per Italiani; la seconda, che le cause anche in seconda instanza siano giudicate in Spagna; la terza, che il re abbia la nominazione di tutti i vescovati delli Stati suoi d'Italia; e la quarta, che, in luogo delle spoglie di Spagna, si statuisca un'intrata annuale ordinaria, e non si faccia più spoglie. Pareva che sopra le tre prime si fosse posto silenzio; nondimeno tornano in trattazione, e di Spagna si aspetta persona espressa, che viene per sollecitar l'espedizione, e di Roma mandarono in Spagna il padre Alagona gesuita, per mostrare che le dimande sono contra coscienza». «L'altro giorno è stato carcerato per il Sant'Officio l'abbate di Bois francese dell'ordine de' Celestini per ordine della regina, per esser quest'uomo sedizioso, e che dopo la morte del re abbia predicato pubblicamente cose in pregiudicio della religione: e quello che gli ha cagionata questa risoluzione, è stato per avere sparlato alla gagliarda de' Gesuiti, e detto pubblicamente ogni male. E volendo il consiglio e la regina farlo carcerare, fu deliberato a non venir a simile risoluzione, dubitando di qualche sollevamento, avendo quest'uomo gran seguito, ma con intenzione di mandarlo a trattar certo negozio per servizio della regina a Fiorenza: ed in questa corte l'hanno benissimo trappolato, e sì bene, che la passerà male, non avendo alcun appoggio, e malissimo veduto dall'ambasciatore di Francia; e li Gesuiti faranno ancor loro quanto potranno acciocchè non abbia più modo di sparlar di loro: perchè tra le altre cose si affatica a più potere a dare da intender alli Francesi in Parigi, che detti Gesuiti avevano cagionata la morte del re; del che persuasi quelli popoli, un giorno avrebbono potuto fare qualche segnalato risentimento contra di loro. Io pronostico, che questo pover'uomo debba correr la fortuna di frà Fulgenzio cordeliere, e prego Dio che gli abbia misericordia». Nella LXXVI: «Già diedi conto a vostra signoria della cattura dell'abbate di Bois successa in Roma. Debbo dirli di più cosa che allora non sapeva, che il pover'uomo, forse dubitando di quello che gli è avvenuto, non volse partir da Siena se non avesse prima un salvocondotto del pontefice; con quello se ne andò, e si credette esser sicuro; ma nè è il primo, nè sarà l'ultimo, che si fiderà di chi professa non esser obbligato a servar fede. La cattura si scusa dalla Corte con dire, che il salvocondotto pontificio non si cura dell'Inquisizione. Fu preso il dì 10, e il 24 fu impiccato pubblicamente in campo di Fiore; ma la mattina per tempo fu immediate levato dalla forca, e portato a sepellire, senza che si possa penètrare che cosa significhi questa mistura di pubblico e d'occulto. Certo è che l'ambasciadore del re ha parte in quella morte». «Altro non abbiamo in Italia di nuovo se non che il Piemonte è pieno di soldati, ma però con certezza che in Italia non debba esser nissuna novità, e che tra tanto quel paese si rovina. In Torino è avvenuto un accidente considerabile. Il vescovato d'Asti ha alcune terre, delle quali più volte è stata controversia tra il duca e gli ecclesiastici, pretendendo questi che la sopranità sia del papa, e il duca come conte pretendendo che debbano esser riconosciute da lui. Finalmente in questi tempi essendosi fatta una fortificazione e reparazione, il nuncio del pontefice ha fulminato una scomunica contra il presidente Galleani; però l'ha pubblicata solamente in scritto. Li ministri del duca veduto questo, hanno fatto una dichiarazione di aver il decreto del nuncio come nullo ed ingiusto, comandando che senza averli risposto si proceda all'esazione: e sono passati anco a usar queste parole, che non solamente il tentativo intrapreso dal nuncio è nullo, ma ancora quando venisse dal papa medesimo. Si aspetterà di vedere dove terminerà questo principio assai considerabile, e che un giorno sarà fatto dalla repubblica per Ceneda, massime che molte turbolenze sono pei confini». [238] Lettera LXIX dell'edizione Lemonnier, ma non mi sa di genuina. [239] _Ibid._ Lettera CXXVIII. L'edizione più completa ch'io conosco è «Opere di frà Paolo Sarpi servita teologo e consultore della serenissima repubblica di Venezia. In Helmstat, per Jacopo Mulleri 1765». Sono sei volumi in-4º cui se ne aggiungono due di supplemento, colla data vera di Verona, stamperia Moroni, con licenza de' superiori e privilegio, 1768. Il sesto tomo comprende un'amplissima vita, poi le sue lettere latine e italiane. Nelle lettere al Gillot lo loda immensamente de' suoi studj sul Concilio di Trento. Narra le cure che egli stesso prese onde radunar documenti su questo, ma che i Gesuiti con immensa attenzione tirano a sè gli atti che vi si riferiscono, levandoli di mano a chi li possiede, fin con minaccia dell'inferno. Lo esalta del difendere che fa le libertà gallicane; per lo che è dannato dai Gesuiti, le cui accuse colgono ogni uom dabbene e amator del giusto: dichiara d'aborrire più la superstizione che l'empietà; sempre ribatte l'eccessiva potenza degli ecclesiastici e del papa, che ormai non ha solo il _primato_, ma il _tuttato_; se in Italia alcuna libertà si tiene o si usurpa, è merito affatto della Francia, che insegnò a resistervi: ma gli scrittori nostrani non sono che compilatori (_consarcinatores_), che giudicano le opinioni dal numero, non dal peso. Loda smisuratamente il Barclay, ma se ne scosta in ciò, che egli crede che Chiesa e Stato siano due cose distinte, che devono sorreggersi e difendersi ciascuna coi mezzi proprj. «Arbitror ego Regnum et Ecclesiam duas republicas esse, constantes tamen ex iisdem hominibus; alteram prorsus cœlestem, alteram terrenam omnino; easque subesse propriis majestatibus, defendi armis et munitionibus propriis, nihil habere commune, neque unam alteri bellum ullo modo inferre posse. Cur enim arietari possent, in eodem loco non ambulantes?... Ambiguitas subest huic vocabulo _Ecclesiastica Potestas_: si enim ea intelligatur qua regnum Christi, regnum cœlorum administratur, ea nulli potestati subest, nulli imperat, ad aliam non potest arietari, præterquam ad satanicum, cum quo assidue illi bellum. Si vero qua disciplina clericorum regitur, ea non est potestas regni cœlorum; ea pars est reipublicæ» (pag. 9). In una lettera latina del 12 maggio 1609 di frà Paolo al Lescasserio, leggiamo: «Fulvio Sarcinario di Rieti uccise un suo concittadino nemico. I figli dell'ucciso, da Clemente VIII ottennero un breve ove dichiara che ad essi e a chichessia è lecito in buona coscienza e in qualunque luogo e per qualunque strada, sia giudiziale o comunque, procurar la morte dell'uccisore. Questo Breve fu divulgato con iscandalo di molti, e come avviene, vi s'aggiunse che gli uccisori avranno indulgenza plenaria; mentre nel Breve non è detto se non che questo può farsi in buona coscienza, e senza tema di irregolarità. Posso aver copia del Breve; è autentico in pubblico: ma non essendo del tenore che a costui fu riferito, soprassedo: se vorrai, tel manderò. Io non approvo che possa il pontefice, nella giurisdizione d'altro principe, fino ad autorizzare ad uccidere in buona coscienza: perocchè esso principe non potrebbe punir l'uccisore, il che vale quanto far il papa signore e principe supremo». [240] Trajano Boccalini da Roma scriveva a frà Paolo che era tenuto in conto di Lutero o Calvino; e le sue opere v'erano cercate dagli zelanti per darle al fuoco, mentre gli altri ne faceano ricerca colla lanterna di Diogene. GREGORIO LETI, _Bilancia politica_, Lett. XVII. _Cum ille frater Paulus calvinianæ hæresi, quam cucculatus favebat, per eorum dissidiorum occasionem aditum aliquem quærens, nullum invenerit, aut senatus inducere ausus sit, insidiosissimus licet, ad infringendam sedis apostolicæ majestatem. Bossuet, Defensio declar. cleri gallicani._ T. I, p. 2, lib. 8, c. 12. E nella _Histoire des variations_: «Sous un froc il cachait un cœur calviniste, et il travaillait sourdement à décréditer la messe, qu'il disait tous les jours». Il Courayer dice che, come Erasmo, era _catholique en gros et protestant en détail_. Calorosissimo sostenitore dell'autorità temporale de' papi fu ai dì nostri l'abate Gioberti. Sul bel principio del suo _Primato_ stabilisce che la debolezza degli spiriti italici viene dall'aver separato la nazionalità dal principio religioso: errore già balenato nel medioevo, più applicato al risorgimento, e nei tentativi _sconsigliati e spesso colpevoli_ di Crescenzio, Arnaldo, Cola Rienzi, Porcari, Baroncelli, come nell'_eroico sogno_ di Dante, e nella _folla di scrittori_ che tanto _nocquero allo spirito patrio, fra' quali Machiavello e Sarpi son principali_. Questi due scrittori, entrambi uffiziali civili di una repubblica, in ciò consentono che reputano il papa per un fuordopera della civiltà italiana, anzi per un impedimento, per non dir un flagello: ma in ciò si dividono, che l'uno aspira a ricomporre una Italia unita, forte e nazionale, ma animata dagli spiriti gentili, e fondata principalmente sul ferro, come ai tempi di Cammillo e di Scipione: l'altro (per quanto si può conghietturare il suo pensiero) par voglia una Italia cristiana, ma protestante, divulsa e al più confederata, come la Svizzera e l'Olanda, non informata da un principio unico, e signoreggiante le ambizioni parziali. Il primo ammira un modello antico e grande, ma pagano; il secondo vagheggia un esemplare coetaneo, ma acattolico e forestiero (p. 30). La Providenza suscitò contro i Ghibellini la sètta dei Guelfi, (p. 34). L'idea guelfa è in sè stessa giusta e santa, e io la tengo come la sola soluzione ragionevole dell'intricato problema agitato tante volte intorno all'essere nazionale degli Italiani. Essa è... praticamente la sola che si possa effettuare senza colpa e senza delirio (p. 35). E vedasi il seguito di tutta quell'opera, che, eliminandone la retorica, sarebbe utile a difondere. [241] Abbiamo _Frà Paolo Sarpi giustificato, dissertazioni epistolari di_ GIUSTO NAVE. Colonia 1752, che credonsi del veneziano Giuseppe Bergantini, e stampate a Lucca; come pure _Justification de frà Paolo Sarpi, ou lettres d'un prêtre italien à un magistrat français, etc._ Parigi 1811, che sono del genovese Eustachio Degola, in senso giansenistico. _Del genio di frà Paolo Sarpi in ogni facoltà scientifica e nelle dottrine ortodosse tendenti alla difesa dell'originario diritto de' sovrani ne' loro rispettivi dominj ad intento che colle leggi dell'ordine vi rifiorisca la pubblica prosperità._ Venezia 1785, due volumi s. n. d. ma è di Francesco Grisellini, e fu dilapidato dal Bianchi Giovini. L'autore dicea avere Bouschet raccolte le opere tutte di frà Paolo a Losanna, poi a Venezia, donde tre traduzioni francesi, ad Amsterdam, Londra, Ulma, e da Lebretin in tedesco. Costui è un ciarlatano: finge che un incendio gli abbia guaste molte carte: in fatto adulava ai papofobi del secolo passato, e fu premiato e impiegato a Milano. Agatopisto Cromaziano lo confutò nel lavoro _Della Malignità storica_. Fu poi stampata a Lugano una vita del Sarpi, che fu de' primi esercizj a cui si provò uno che dovea riuscire fra' più ribaldi pubblicisti dell'età e del paese nostro. Credo di costui mano anche la vita premessa all'edizione delle _Scelte lettere inedite_ del Sarpi (Capolago 1847), repugnante al buonsenso e alla creanza, e tutta ingiurie da taverna contro Roma e i preti in generale. Quattro sole pagine (dalla 108 alla 112) di queste _Lettere inedite_ contengono contro i Gesuiti più infamie e stolidezze che non sapesse diluirne il Gioberti in cinque grossi volumi. Perocchè, come se parlasse alla gente più ignorante del globo, quel brutale editore assicura essere «dottrina insegnata concordemente dai Gesuiti, approvata dai loro teologi e generali, che è lecito l'assassinar l'accusatore e il giudice, lecito il furto, il giuramento falso, la simonia; che l'onania, il procurato aborto, la bestemmia, la ribellione contro il principe, il contrabbando, l'omicidio, il suicidio, il parricidio, il regicidio, e mille altre abominazioni sono o giustificate o dichiarate lecite, od anche in certi casi obbligatorie; i precetti di Dio e della Chiesa non obbligano alcuno, la rivelazione, i profeti, i vangeli si possono credere e non credere; anzi son cose credibili sì ma non evidentemente vere...» Di mezzo alle quali gli sfugge la confessione che non conveniva abbattere la dominazione della Chiesa: «È vero che la politica romana si mostrava oscillante e malferma; pure era necessaria al contrappeso politico della penisola, contribuiva a conservare l'agonizzante indipendenza dei governi nazionali d'Italia. Lo Stato pontifizio era un governo nazionale, buono o cattivo che fosse, ma per quei tempi più buono che cattivo, e sotto cui i popoli viveano men peggio che altrove, massime che sotto il dominio de' forestieri; nè si sarebbe potuto abbatterlo senza far sorgere gravi disordini». Del Sarpi è annunziata una nuova vita, scritta da una signora inglese dopo che ebbe spogliato gli Archivj di Venezia. Contro le opinioni del Sarpi dicesi facesse una protesta l'Ordine dei Serviti ai quali apparteneva: certo molti di essi tolsero a confutarle. Principale fra essi fu Lelio Baglioni _De potestate atque immunitate ecclesiastica_; per la qual opera gli fu da Paolo V data la commissione di confutare il De Dominis, il che non potè fare per morte. Esso Baglioni mosse ogni pietra per far tornare frà Paolo alla verità, e alfine, come generale, lo citò a Roma, senza frutto. È pur notabile la _Difesa delle censure pubblicate da n. s. Paolo V nella causa delli signori Veneziani, fatta da alcuni teologi serviti in risposta alle considerazioni di frà Paolo e al trattato dell'interdetto_ (Perugia 1707). Il Sarpi aveva avuta molta mano nel compilare le costituzioni de' Serviti, e suo fu il capo _de judiciis_, molto lodato. Il rigore di cui lo imputammo era forse reso necessario dal disordine in cui era caduto quell'Ordine, prima che con vigorosa mano lo riformasse il generale Jacobo Tavanti. [242] È la definizione del Bellarmino, _De romano pontifice_, I, 3, e vedi la nota 40 al nostro Discorso XXX. [243] De Republica Ecclesiastica, L. I, c. 8, n. 13: e c. 12 n. 42: Lib. II, c. 1, n. 9. [244] Per la bizzarria del titolo menzioneremo _Daniel Lohetus, Sorex primus, oras chartarum primi libri de Republica Ecclesiastica archiepiscopi spalatensis corrodens, Leonardus Marius coloniensis in muscipula captus_. [245] _M. A. De Dominis arch. spalatensis, sui reditus ex Anglia consilium exponit._ Fu poi stampata dal padre Zaccaria nella raccolta delle ritrattazioni col titolo THEOTIMI EUPISTINI, _De doctis catholicis viris qui cl. Justino Febronio in scriptis suis retractandis ab anno_ 1580 _laudabili exemplo præiverunt_. Roma 1791. [246] È anche indicata col titolo _Papatus romanus, liber de origine, progressu atque extinctione ipsius_. Il processo del De Dominis è riferito dal Limbroch nella _Storia dell'Inquisizione_. Col De Dominis era fuggito in Inghilterra un Benedettino, che vi si fece protestante. Tornato con lui, si rimise cattolico, e faceagli da mastro di casa. Invaghitosi d'una vicina, ne uccise il marito, e fe sposar la druda a un servo del De Dominis. Ma quando il denaro gli venne meno, cominciò a uccidere e rubare. Stava allora in Roma il padre Bzovio domenicano polacco, che scrivea la continuazione del Baronio; colui entrò a forza nella camera di questo, e ucciso il servo, rubò quanto potè. Alfine scoperto, fu impiccato. NICIUS ERYTRAEUS, _Pinacoth_, I, p. 200. Del De Dominis si occupa spesso il carteggio del 1617 fra il cardinale Guido Bentivoglio e il cardinale Scipione Borghese, insistendo principalmente sul trovarsi quello mal provigionato dall'Inghilterra e perciò scontento. La lettera del Bentivoglio da Parigi, 11 aprile 1617, dice: «L'arcivescovo di Spalatro si trattiene tuttavia in casa dell'arcivescovo di Cantuaria (_Cantorbery_), dove gli viene proveduto quanto bisogna: ma di provisione di denari non s'intende che sinora egli abbia più di novecento scudi. Egli sollecita l'impressione della sua opera. Il suo senso però in materia di religione non piace del tutto, perchè non è del tutto conforme al senso anglicano» _La nunziatura di Francia del cardinale Guido Bentivoglio_ ecc. Firenze 1863. E al 25 aprile: «In Inghilterra corre voce che il detto arcivescovo sia uomo molto carnale, e che spezialmente abbia avuto a fare con una sua propria nipote: del che mi ha detto il conte di Scarnafigi, che la regina parlò a lui medesimo». E al 9 maggio: «L'arcivescovo di Spalatro va stampando la sua opera, ed è già finito di stampare il primo libro. Il re ha deputato uno dei più eminenti fra loro in dottrina a rivedere di mano in mano quello che si va mettendo alle stampe. Egli si trattiene tuttavia in casa dell'arcivescovo di Cantorbery, e vien custodito affinchè non sia ammazzato, come egli mostra di temere. Il re gli ha conferito ultimamente il decanato di Windsor, che vale tremila scudi». Al 27 maggio il Borghese gli scriveva da Roma: «D'Inghilterra s'intende che quel De Dominis vada stampando quell'empia sua opera, e che saranno tre libri. L'imperatore ha già dato ordine in Germania che non corrano e siano proibiti, e l'istesso si spera che farà sua maestà cristianissima». Al 27 settembre: «In Inghilterra si mira a far che la sua opera sia piuttosto di scismatico che di eretico, per la maggior speranza che si ha di facilitare qui fra cattolici e altrove lo scisma, piuttostochè l'eresia aperta». Il 25 ottobre 1617 narra le premure da lui fatte col cancelliere e il guardasigilli perchè i libri _De Republica Ecclesiastica_ non fossero posti in vendita. Il guardasigilli propose che la Sorbona facesse una censura dell'opera per venire a un'espressa proibizione, «sebben qui la libertà è tanto grande, e sì grande l'ardire degli Ugonotti, che non si può sperare quel frutto che si dovrebbe da così fatte diligenze». Il 22 novembre il cardinale Borghese lo avvisa che, «sebbene il libro è pessimo e tutto pieno d'eresie gravissime e di odio e veleno contro la santa sede... ciò non ostante, per la gravità e importanza del negozio, il quale sarà facilmente fomentato dal re d'Inghilterra e da' suoi ministri, sua santità gli raccomanda stia vigilantissimo e procuri di scoprire e sapere tutto quello che s'anderà facendo». Il 5 dicembre il Bentivoglio annunziava che la Sorbona s'è risoluta di fare una severa censura d'esso libro. L'8 dicembre il cardinale Borghese da Roma fa noto essersi proibita «l'opera _De Republica Ecclesiastica_, che il già arcivescovo di Spalatro promise di dare in luce in un suo libretto che stampò con l'occasione della sua andata in Inghilterra: poichè si vide chiaramente dal contenuto dell'istesso libretto, che la suddetta opera era tutta piena d'eresie, e di odio e veleno contro questa santa sede. E ora, essendo usciti in luce i primi quattro libri, s'è trovato che sono pessimi, e s'è già dato ordine di rinnovare la proibizione». Il 17 gennajo 1618, il Bentivoglio da Parigi annunzia la censura fattane dalla facoltà teologica di Parigi; e come questa fosse criticata per aver censurato solo alcune proposizioni, e non tant'altre che più lo meritavano; ma la Sorbona non avea voluto toccare i punti concernenti la potestà temporale, per evitare cozzi col parlamento. Al 31 poi manda una predica italiana _fatta_ dal De Dominis _nella cappella delli Mercieri in Londra_, stampato in-16º, ch'è una rarità bibliografica, e che attesta quanto poco valesse quell'apostata, e come ci fosse una chiesa italiana acattolica in Londra. Il 20 giugno annunziava un nuovo libro italiano di esso, che dev'essere _Gli scogli del cristiano naufragio_. Al 18 luglio informa che M. De l'Aubépine, vescovo d'Orleans, piglia l'impresa di confutare il De Dominis, «e benchè qui non si usi molto a scrivere in latino, egli potrà essere ajutato facilmente». Non so se l'Aubépine abbia fatto questa particolar confutazione: bensì scrisse opere di gran pregio, e nominatamente sull'antica disciplina della Chiesa. [247] Nella prefazione è detto: «Tutta la fermezza della fede cattolica sta nei Gesuiti: e però non v'è cosa più efficace onde scassinarla che scassinare il loro credito. Rovinando questi si rovina Roma; e se Roma si perde, la religione si riformerà da se stessa, cioè diventerà protestante». Amsterdam 1751. [248] Bolla _Benedictus Deus_, 7 kal. febbr. 1563. [249] Monsignor Jacobo Altoviti patriarca d'Antiochia, stato più di sette anni nunzio apostolico in Venezia, lasciò manuscritte varie relazioni su quel paese, ove tra altre cose dice che, sul Sant'Uffizio, è «inesplicabile l'ombra che prende questa Repubblica, e indicibili essere i sospetti che ciascuno della medesima concepisce, che noi a Roma vogliamo, per questo verso del Sant'Uffizio, entrare nel loro governo... Chi sta sull'essere tenuto buon repubblicista, studia il capitolare di frà Paolo per bene istruirsi» (pag. 275). Soggiunge poi, che il senato rispettava il corso de' tribunali del Sant'Uffizio, quando fosse stato informato dall'ambasciatore di Roma, che, per assicurazioni dirette del papa, le cause in essi trattate appartenessero veramente alla disciplina religiosa (pag. 276). I missionarj allevati nel collegio di _Propaganda fide_ soleano capitare a Venezia, per quindi imbarcarsi alle loro missioni. «Suggerii, dice, alla Sagra Congregazione di fare nella nunziatura, come fummi promesso, quattro stanze, affinchè, capitando a Venezia questi missionarj, in pubblici alberghi non vi smarrissero quella buona educazione che avevano appresa nel collegio di _Propaganda fide_, come per lo più accadeva; e vi si davano a siffatti divertimenti, che non trovavano poi la strada di andarsene alle loro missioni» (pag. 281). [250] Lettera CIC dell'edizione di Firenze. [251] Secondo i documenti prodotti testè da Rawdon Brown nel _Venitian Calendar_, sir Enrico Wolto, ambasciatore inglese, narrava al doge Donato che il feritore di frà Paolo fu uno scozzese, che frequentava l'ambasciata d'Inghilterra, e passava col nome di Giovanni Fiorentino figlio di Paolo. [252] Lettera 2 marzo 1658 a Gian Luca Durazzo. «Chi legge la storia esattissima del Pallavicino, attonito della libertà dei Padri, saria talor tentato di appellarla licenza; ma è tale la saldezza di forza organica, che la Chiesa mai non teme rimostranze». TAPPARELLI, _Saggio teoretico di diritto naturale_, n. CXXVII. E il De Maistre diceva che ai papi non si deve se non la verità. [253] _Vita di Alessandro VII._ [254] QUINET, _Les révolutions d'Italie_. DISCORSO XLVII. I GRIGIONI. LA VALTELLINA. SACRO MACELLO. Nella parte orientale della Svizzera i Grigioni abitano il pendio settentrionale delle Alpi Leponzie e Retiche, dalle sorgenti dell'Hinterrheim fino all'Ortlerspitz che divide l'Italia dal Tirolo. Suppongonsi discendenti dagli Etruschi, che, incalzati dai Galli, in quelle romantiche valli rifuggissero secento anni avanti Cristo, sotto la condotta di Reto, donde il nome di Rezia. Ad essi mescolaronsi Romani che eranvi posti in colonie militari per custodire quei passi verso l'Alemagna, o che vi si ricoverarono allo sfasciarsi dell'Impero, e vi lasciarono dialetti somigliantissimi al latino. Tali sono il romancio e il ladino; curiosità filologiche, che coll'idioma italico hanno identiche le radici e le forme grammaticali, miste con tedesco, o forse con celtico e con osco raseno, come di preferenza sosterrebbe il Conradi. Traggasene dunque l'origine dagli Etruschi o dai Romani, stanno in gran parentela con noi italiani, tuttochè le loro sorti corressero diverse dalle nostre dopo caduto l'Impero romano. Come gli altri paesi elvetici, questi devono la civiltà a' monaci, che in quelle solitudini cercando pace, vi piantarono romitorj e conventi, i quali divennero nuclei di mercati, di villaggi, di città. Vi serbò preminenza Coira, il cui nome (_Curia_) indica come originasse da un tribunale romano ivi collocato. Il primo vescovo ne fu istituito da sant'Ambrogio, onde è il più antico della Svizzera, com'era dei più ricchi. Quando san Colombano, venuto dall'Irlanda, a Bobbio fra gli Appennini fondava un monastero, divenuto poi famosissimo e subito operoso contro all'eresia ariana, alla rilassatezza de' monaci italiani e agli ultimi aneliti dell'idolatria, Sigeberto suo compagno varcò quel monte che fu poi detto San Gotardo: arrivato alle sorgenti del Reno, si fabbrica un capannone fra quegli alpigiani ancora idolatri; col segno della croce arresta l'ascia che un di costoro dirigeagli al capo; converte Placido, signore di Truns, il quale, resosi frate, dota co' suoi beni il monastero di Dissentis, piantato sul piovente settentrionale della val Calanca, allo schermo di selve inviolate. Quivi i Benedettini fiorirono, e crebbero di dominj, tra cui contavano anche la val Orsera, e il loro abate fu principe del sacro romano impero, e capo della lega Grigia. Coltivarono anche gli studj umani, e raccolsero libri e manuscritti, che andarono dispersi quando i Francesi incendiarono la badia nel 1799. Gli abitanti, non infiacchiti dalla civiltà e difesi dalla povertà, viventi in capanne sospese alle nude roccie, poc'a poco si sottrassero alle prepotenze de' signorotti, che di castelli coronavano le vette, donde come l'aquila piombavano alla preda: e sostenuti dal clero, costituironsi in governo libero, ove ciascun Comune restava sovrano, uniti però in tre leghe; la Caddea (_Ca-de-Dio_), la Grigia, le Dieci Dritture; che confederaronsi poi per la difesa comune nel 1471, sotto il nome di Grigioni. Le leghe son eguali fra loro: e portano un solo voto ciascuna, benchè una sia molto più estesa di territorio e conti maggior numero di Comuni. L'annua Dieta si avvicenda fra Coira, Ilanz e Davos. Nei casi di Stato e nei pericoli della repubblica, i Comuni spiegano i loro stendardi, e in qualche luogo piantano lo _Straffgericht_, tribunale straordinario, che giudica colle forme eccezionali e spicciative, che sogliono imporre i terrori plebei. Appartiene alla lega Caddea l'Engaddina (_En-co-de-Inn_), valle dell'Inn, una delle più belle della Svizzera, lunga diciannove ore, dove un novemila abitanti, divisi in piccoli villaggi, vedono a rigidi e lunghi inverni succedere estati deliziose. È parallela alla Valtellina, verso la quale apre varj passi difficili, e principali quello della val di Poschiavo che riesce a Tirano, e quello della val Bregaglia che sbocca a Chiavenna. I Grigioni, operosi e in povero paese, sciamavano a prestare servigi nelle città d'Italia e di Germania, e a farsi soldati di forestieri: nel secolo XVI armavano da cinquantamila uomini, di cui diecimila metteano a soldo di Francia, cinquemila di Venezia, guadagnando di bei denari, e purgandosi così (dice il Lavizzari) la repubblica di que' torbidi umori che la potrebbero sconvolgere. Coira era il punto di riunione di quelli che anche dal resto della Svizzera e dalla Germania scendeano a militare in Italia; onde facilmente vi si sparse la Riforma, derivata non si sa bene se da Lutero o da Zuinglio. Giovanni Comander, arciprete di quella cattedrale, Enrico Spreiter, Giovanni Blasius, Andrea Fabritz, Filippo Gallizio Salatz[255] ne furono i primi apostoli, e ben presto la ampliarono nelle Dieci Dritture; pochissimo nella Lega Grigia; nella Lega Caddea prosperò attorno a Coira, indi nell'Engaddina, principalmente per opera d'Italiani. I Riformati si valsero della lingua romancia, che allora acquistò vita e fiore: Travers in essa tradusse il catechismo di Comander, primo libro romancio che si stampasse a Poschiavo nel 1552; il Gallizio voltò nel dialetto della Bassa Engaddina il _Pater_, il _Credo_, il decalogo; Benvenuto Campell, molti capitoli della Genesi dall'ebraico, il simbolo di sant'Atanasio, e salmi e canzoni da chiesa e un catechismo proprio; Biveron tradusse il Nuovo Testamento nel 1560. Ai Riformati si mescolarono Antitrinitarj; Tommaso Münzer, che a Zurigo predicava nel 1522 il ribattezzamento, vi lanciò le dottrine anabattiste: ma avendo esse in Germania eccitato la guerra de' paesani contro i possidenti, qui furono repressi col tribunale straordinario. Poi alla dieta di Ilantz del 1526 fu stabilito fosse libero professare la religione cattolica o l'evangelica; i ministri non insegnassero se non ciò ch'è contenuto nella Bibbia: ciascuna parrocchia scegliesse i proprj pastori; non si ricevessero frati nuovi nei monasteri, nè si mandasse denaro a Roma per annate o dispense o qualsiasi titolo. Questo rimase sempre lo statuto religioso dei Grigioni; i Riformati non ebbero vescovi, ma concistorj, sotto al sinodo nazionale che s'accoglieva ogni mese di giugno. Il vescovo di Coira, ch'era come il principe del paese, rimase cattolico in una città di religione riformata, talmente che nel suo castello, cioè nella parte elevata della città, dov'egli esercitava la giurisdizione, verun cattolico si trovava, eccetto il suo clero; e i beni che aveva copiosissimi perdè, a tal punto che Enrico II di Francia per mantenimento gli assegnò un'abbazia in Picardia. Da lui dipendeva il clero cattolico, diviso in quattro capitoli. Paolo Ziegler vescovo, irato per quegli statuti che il privavano d'ogni potere esterno, si ritira a Firstenburg, e maneggia la rinunzia a favore del cardinal De Medici che fu poi Pio IV. N'era mediatore l'abate di San Lucio Teodoro Schlegel suo vicario, caldo campione de' Cattolici alla dieta d'Ilanz: scoperta l'intelligenza, egli fu dato al carnefice nel 1529. Queste persecuzioni nascevano da basse passioni, anzichè da fervor religioso; avvegnachè del 15 marzo 1530 abbiamo lettera di Valentino Tschudi, che scrive a Zuinglio: «Vedo insinuarsi la trascuranza di Dio, lo sprezzo dei magistrati, la violazione de' giudizj, la vita licenziosa; esacerbati gli animi da rancori, l'equità vien meno, s'estingue la carità, e mentre ognuno cerca soddisfare alla volontà propria, purchè s'innalzi quel ch'egli desidera non bada a qual danno si corre. Popolo così accannitamente diviso, che altro deve aspettare se non desolazione?» E Giacomo Bedroto a Giovanni Gast: «Il mondo si riempie con paradossi, asserzioni, incriminazioni, recriminazioni, apologie, antapologie; sotto pretesto di cercare o di asserir la verità, niuna cosa va naufraga peggio di questa»[256]. È parallela all'Engaddina, lo dicemmo, la Valtellina, valle italiana solcata dal fiume Adda, che, nascendo dal monte Braulio, ergentesi verso il Tirolo, scorre per ottanta miglia da levante a ponente fin al lago di Como, fra due schiere di monti che la separano dal Veneto a mezzodì, a settentrione da' Grigioni. Sondrio n'è il luogo principale, poi Morbegno e Tirano, capi di tre terzieri. All'estremità nord-est formava contado distinto il territorio di Bormio; presso al lago di Como diramasi l'altro contado di Chiavenna, antichissimo passo del commercio colla Germania, che dalla val del Liro o di San Giacomo varca lo Spluga, dalla val della Mera la Malogia o il Septimer, per raggiungere il paese de' Grigioni. La comodità e l'utile dei passi facea da questi desiderare di acquistare la Valtellina; più volte il tentarono, e finalmente, con que' pretesti che son buoni quando sostenuti dalle armi, la occuparono nel 1521, sottraendola al ducato di Milano. Nella pace di Jante l'avean essi ricevuta come alleata, ma presto l'ebber ridotta serva, non partecipe ai diritti della sovranità: le Leghe mandavanle magistrati, che all'incanto compravano dai comizj i posti di governator della valle o di podestà de' terzieri e delle contee, poi o subappaltavano questo loro uffizio a qualche nativo, oppure industriavansi a cavarne profitto col rivendere la giustizia in paese, di cui non aveano nè conoscenza nè amore. Appena si sparsero le nuove opinioni in Italia, a chi per queste era perseguitato sembrarono comodo rifugio la Valtellina e le terre confinanti della Rezia, interamente o a metà italiane. Già il 12 aprile 1529 il Comander scrive al Vadiano che un profugo d'Italia s'era ricoverato in Valtellina, e non credendovisi sicuro, passò nella Pregalia, poi in un Comune dell'Engaddina, dove sin allora non si era diffuso il vangelo. Non è detto chi fosse, ma supponiamo Bartolomeo Maturo di Cremona, da altri indicato come il primo che evangelizzasse l'Engaddina. Costui, stomacato principalmente dai miracoli che vedeva attribuirsi da' suoi frati a non so qual Madonna, fuggì, e fermatosi a Vicosoprano nell'Engaddina, vi mutò il culto, e vi si trattenne fino al 47. Ma volendo la libertà del credere, ai simboli nuovi preferiva le personali opinioni; e non molto erudito, pare bevesse le credenze di Camillo Renato che facea da maestro privato in Valtellina, e pendeva agli Antitrinitarj. Dietro al Maturo[257] vennero Agostino Mainardi, l'Ochino, Pietro Martire, Francesco Calabrese, Gerolamo da Milano, più tardi il Curione e lo Stancario. Bevers fu riformato da Pietro Parisotto. Giulio da Milano, sfuggito dalle prigioni di Venezia, fu pregato di stabilirsi a Poschiavo, donde scorreva predicando i vicini paesi dell'Engaddina non solo, ma della Valtellina, massime Tirano e Teglio[258]: vi durò ben trent'anni, finchè morì vecchissimo nel 1571, e alla sua morte quei di Brusio si tolsero un pastore loro proprio; e così i riformati di Tirano. A Poschiavo gli succedette Cesare Gaffori piacentino, ch'era stato guardiano dei Francescani. Nella Pregalia la riforma era favorita dalla famiglia Prevosti: e predicata dal Vergerio, vescovo apostata su cui versa il nostro Discorso XXVII, scribacchiatore d'opuscoli, ove mai non si eleva alle idee che allora dividevano il mondo delle intelligenze, ma solo sfoga i rancori suoi colla cinica violenza d'un linguaggio triviale[259]. Per opera di lui, nell'aprile 1551, tutte le immagini vennero abbattute in San Gaudenzio di Casaccia, e disperse le ossa del santo patrono. Dopo di esso furonvi pastori Leonardo eremitano, Guido Tognetta, Bartolomeo Silvio, Domenico Genovese, Giovan Battista da Vicenza, Tommaso Casella, Giovanni Planta di Samaden, Giovanni di Lonigo, Simone di Valle, Lucio Planta di Samaden, Nicola carmelitano, Nicola eremitano: nel 1598 vi predicava Giovanni Antonio Cortese da Brescia che col fratello Giovan Francesco avea riformato Solio. A Solio duravano cattolici potenti, pure il 1553 furono abbattute le immagini, e vi ministrò Lattanzio da Bergamo, poi messer Antonio Florio, indi Giovanni Marzio di Siena. A Castasegna Gerolamo Ferlito siciliano, poi Agostino da Venezia, Giovan Battista da Vicenza che vi morì, Antonio da Macerata, Giovanni La Marra e Giovanni Planta di Samaden. A Bondio, Gerolamo Torriano di Cremona, Antonio Bottafogo, Giovanni Beccaria di Locarno, Armenio napolitano, Natale da Vicenza che vi morì, Giovanni La Marra, Giovan Battista carmelita. Questi nomi, di cui molti abbiamo già incontrati nei discorsi precedenti, bastano a chiarire che principalmente a italiani è dovuto l'aver susseminato il mal seme nell'Engaddina e nella Pregalia: e più adopraronsi, ma con minore frutto nella Valtellina. Sgomentato dai pericoli di questa, già il vescovo di Como v'avea mandato inquisitore un tale Scrofeo; ma avviluppato negli affari politici di Francia, badò a questa, più che a salvar le credenze. A Chiavenna sopratutto le truppe grigioni, acquartierate durante la guerra mossa dal Medeghino castellano di Musso, diffondeano gli errori proprj o almeno il disprezzo delle cose sante, ed erano favoriti da Ercole Salis, colonnello elvetico, e da Paolo Pestalozza suo parente. Nè pochi aveva adescati la novità, fra cui Paolo Masseranzi, il capitano Malacrida e un Alfiere. Li contrariava il clero cattolico, e sovratutto Cesare de Berli parroco di Samòlaco, appoggiato anche dall'essersi sparso che la Madonna apparisse a una fanciulla, predicendole disastri per Chiavenna se non se ne estirpasse la zizania luterana. Proruppe allora lo sdegno contro gli eretici, si ordinarono digiuni e processioni, raddoppiaronsi i voti che quelli repudiavano: ma presto si scoperse l'apparizione essere impostura d'uno, che perciò fu decapitato ed arso nel 1531. Se stiamo alle memorie d'acattolici, anche altri preti e frati vennero condannati per colpe sudicie; come a vicenda gli acattolici erano imputati d'incendj alle chiese e d'altre colpe. Non si costuma così da tutti i partiti e in tutti i tempi? Chiavenna e tutta la Valtellina erano di comodissimo rifugio a quei che fuggivano d'Italia, sì per la vicinanza, sì perchè continuavano a godervi il clima e la lingua della patria, insieme colla libertà di culto. Camillo Renato siciliano, al novembre 1542 scriveva da Tirano al Bullinger ringraziandolo delle premure che si prendeva per quelli che fuoruscivano d'Italia; perseverasse, in modo che quanti di là migravano per amor del Vangelo scorgessero un porto sicuro fra gli Svizzeri e i Tedeschi: e interpone gli uffizj di Celio Curione, per riceverne lettere. Nel 1546 già una chiesa erasi formata a Caspàno, terra della bassa Valtellina che diceasi la cuna di quella nobiltà; e la favorivano Bartolomeo Parravicini e suo fratello Rafaele, uom dotto e pio, di famiglia numerosa. Ma ecco una mattina si trovò spezzato un crocifisso; onde i Cattolici a levar rumore contro una religione che neppur Cristo risparmiava; non voler più soffrire che gli eretici compissero i loro riti nella chiesa comune; il pretore dovette far arrestare il ministro, che alla tortura confessatosi complice e consigliere del fatto, ebbe una multa e bando perpetuo dalle tre leghe. Giunto però a Chiavenna, egli protestò contro la violenza usatagli, asserendosi innocente, e citò a Coira il pretore, ignoriamo con qual esito. Dissero poi che il fatto non fosse altro che monelleria d'un figliuolo di Rodolfo Parravicini tredicenne, il quale confessossene reo. Bei sotterfugi, che rivedemmo all'età nostra. Il De Porta stampò un lungo consulto di ministri evangelici al comizio di Ilantz sopra quanto tornerebbe spediente per costringere all'obbedienza religiosa i Valtellinesi, Chiavennaschi e Bormini, e per isvellerne le tante «superstizioni ed empj errori»: e decidevano mandarvi predicanti, sbandirne i frati, e massime i Cappuccini, e le confraternite di disciplini; impedire ogni ingerenza del vescovo di Como, e porre un maestro di scuola riformato per ciascun terziere. Nel 1544 alla Dieta di Davos Ercole Salis avea fatto decretare che ogni abitante di Chiavenna e della Valtellina e de' contorni, che giungesse alla cognizione evangelica, avesse diritto di tenere insegnamento pubblico e privato; chi per causa di religione fuggisse dalla patria, in qualunque luogo delle Leghe trovasse sicurezza e libero esercizio del culto. Quanto i Salis favorivano i novatori, tanto li contrariavano i Planta, loro emuli politici; e il prevaler dell'una o dell'altra famiglia variava i provvedimenti. Così nel 1551 Antonio Planta governatore della Valtellina escluse i predicanti, sicchè Ulisse Martinengo scriveva al Bullinger, l'ultimo agosto di quell'anno: «Qui si disputa, e poichè la legge esclude i banditi per delitto o gli omicidi, vogliono cacciati noi pure come banditi; forse non potrò restare nelle Tre Leghe, talmente il diavolo imperversa contro di me». Ma ai 18 aprile 1557, il Bullinger da Samaden a Federico Salis: «Nella Valtellina, nei contadi di Chiavenna e di Bormio molta fatica si durò, pure vinse la verità, poichè furono espulsi i monaci forestieri, e assegnati tempj agli Evangelici, dove col decoro conveniente predicar il Vangelo. «In alcun luogo, come a Sondrio sul monte di Rogoledo, fu ordinato che, ove molti aderiscono al Vangelo, si erga una chiesa dalle fondamenta, se non abbiasi altrove dove congregarsi. Scoperto che alcuni, con denari forestieri e favori, procuravano contrariar il Vangelo, li multammo, e togliemmo giù da ogni voglia di nuocere. In somma, io ed i miei colleghi adopriamo attenti per agevolar la via al Vangelo». A ciò industriavansi moltissimo il Vergerio con prediche, lettere, opuscoli; ed Agostino Mainardi piemontese. Questi fece un _Trattato dell'unica perfetta soddisfazione di Cristo, nel qual si dichiara, e manifestamente per la parola di Dio si pruova che sol Cristo ha soddisfatto per gli peccati del mondo, nè quanto a Dio c'è altra soddisfazione che la sua o sia per la colpa o sia per la pena_ (1551, 18 pagine in-8º), dove si lamenta che «oggidì alcuni, che fanno professione di predicar Cristo, sotto pretesto di tal nome scorrono in orribili bestemmie, pubblicamente ed in pulpito innanzi agli popoli predicando apertamente, e come dir si suole a piena bocca, e per essere meglio intesi spesso replicando il medesimo, dicono che alla salute nostra non basta la soddisfazione, la quale ha fatta Cristo per noi, ma è necessario di altra soddisfazione per gli peccati nostri che quella di Cristo». Egli passava pel campione di questa dottrina, e l'Ochino essendo imputato d'averne sostenuta una diversa e diffusala in Valtellina, affrettavasi a dichiarar la sua fede ad esso Mainardi[260]. Il qual Mainardi credesi pure autore dell'opuscolo dell'_Anatomia della messa_, che comparve prima in italiano come lavoro di Antonio Adamo, e per esortazione del marchese di Vico fu tradotto in francese e a lui dedicato, indi in latino nel 1561 con tanti errori tipografici, che l'editore attribuisce a Satana l'avervene fatti scorrere più del centuplo di quei che sogliano (BAYLE). I rifuggiti d'Italia cercavano, come abbiam troppo ripetuto, piuttosto libertà di credenze personali che professar le nuove; frati e preti apostati i più, mossi da odio contro di Roma e de' loro superiori, e desiderosi di sfrenarsi, riuscivano spesso irrequieti e accattabrighe, in modo che moltiplicavansi dissensi religiosi, e formossi una mistura incondita d'elementi biblici tedeschi, e di razionali italiani. Primi ad apostolare dottrine ariane e antitrinitarie furono frà Francesco di Calabria parroco di Vettis e frà Girolamo da Milano parroco di Livigno. E dicevano, il dogma della trinità quale si insegna implicare contraddizione e assurdo: dell'immortalità dell'anima dubitavano, nè che essa continui attiva dopo morte, o rimanga sopita fin al giorno del giudizio, quando sarebbero dannati da Dio coloro che colla negligenza e la disobbedienza l'avessero demeritato; riguardo alla redenzione diceano che noi fummo salvati non tanto per la morte di Cristo, quanto per grazia del Padre; la giustizia di Cristo non può imputarsi ad alcuno, ma ciascuno sarà giudicato al tribunal divino secondo le opere proprie: nessuno esser corrotto dal peccato in modo, che non gli rimanga libero arbitrio al vero bene; la concupiscenza non doversi noverar fra i peccati; i sacramenti esser solo esternazioni della professione cristiana e segni commemorativi della morte di Cristo; il battesimo non doversi conferire a bambini, ma nell'età della discrezione. Formulare però il costoro simbolo sarebbe difficile, perocchè ora da essi, ora da altri usciva ogni tratto qualcosa di nuovo; chi pretendea si conservasse l'_Ave Maria_, chi nell'eucaristia non volea si pronunziasse _Hoc est corpus meum_, o vi s'adoprasse pane azimo; che per padrini al battesimo non si scegliessero cattolici, come faceasi spesso: la taccia d'ignorante e superstizioso era in pronto per chiunque li contraddicesse. Combinata una disputa a Süs nell'Engaddina nel 1544, vi comparvero tutti i predicanti, Andrea Schmid, Corrado Jeklin, l'Altieri, e alla lor testa Pietro Bardo Pretonio parroco di Tusis, e il Salutz; e dopo due giornate di dibattimenti, il frate calabrese fu escluso dalla Rezia e dal Tirolo, e si divisarono i modi per isbarbicare gli errori di esso. Il Tiziano, che diffondea dottrine di quel sapore a Coira, fu carcerato, e il popolo a furia lo volea morto. Il Salutz s'adoperò da un lato per mitigargli i giudici, dall'altro per convertirlo, ma interrogato egli avviluppavasi in parole, evitando di precisare le sue credenze: finalmente si ritrattò, e fu condannato ad esser condotto per la città flagellandolo, poi bandito per sempre dall'Elvezia (1554): primo esempio di castigo corporale per eresia tra i Riformati di quel paese. Per corregger Camillo Renato, che a Chiavenna sparnazzava siffatte dottrine, il Mainardi, nel 1547, stese una confessione propria, che fu la prima pubblicatasi ne' Grigioni. Non la possediamo, ma si può raccoglierla da un libro italiano che nel 1561 Pietro Leoni, seguace di Camillo, stampò a Milano, adducendo le ragioni per cui non avea voluto sottoscriverla. In essa il Mainardi condannava gli errori degli Anabattisti, e chi facea che l'anima, morta col corpo, col corpo resuscitasse al finale giudizio; il negare che all'uomo resti alcun lume naturale onde conoscer ciò che deve fare od evitare: che Cristo abbia avuto carne di peccato o concupiscenza; che la fede giustificante abbia duopo di conferma; che Cristo non fece veruna promessa nell'istituir la Cena; che il battesimo e la Cena sieno semplici segni del Cristiano, ed espressioni del passato, non del futuro; che il battesimo sia succeduto alla circoncisione, nè con questa abbia veruna somiglianza. Non par dunque che Camillo Renato seguisse i Soccini, anzi Lelio Soccino potè aver imparato da esso mentre stette a Chiavenna. Certamente Camillo ascondeva accortamente le sue opinioni; se non potesse altro, dicea d'averle sostenute soltanto per esercizio logico; scrisse un libro _Contro il battesimo che ricevemmo sotto il segno del papa e dell'anticristo_, sostenendo nol si dovesse conferire se non a chi conosceva il vangelo; e più straniava in fatto dell'eucaristia. Lo sorreggeano Francesco Negro e Francesco Stancario, i quali teneano dogmi ancora differenti, che fecero approvare dal Comander col ridurli a poche parole dove la quistione era dissimulata. Su tenore somigliante insegnavano Aurelio Sittarca, succeduto al Vergerio nella cura di Vicosoprano, Girolamo Torriano a Piuro, Michelangelo Florio a Soglio, Pier Leone in Chiavenna. Natogli un figlio, il Negri lo presentò al Mainardi perchè lo battezzasse nella sua fede. Questi rispose lo battezzerebbe nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, nella fede della Chiesa di Cristo. Sì, no: ne nasce litigio, e il Vergerio presume conciliarli, se non altro conchiudendo ch'erano quistioni di lana caprina, ed anzichè disputare per queste, conveniva cercar la riforma della vita. Il Bullinger, il Blasio ed altri s'industriarono a toglier via uno scisma così dannoso; infine il sinodo impose silenzio a Camillo. Non per questo egli tacque: il Mainardi dovette recarsi nel 1558 a Zurigo a far approvare la sua confessione; poi tediato voleva andarsene in Inghilterra, dove era invitato dall'Ochino. Fra le varie lettere del Mainardi, che serbansi nel Museo Elvetico, scegliamo quest'una al Bullinger del 15 maggio 1549. «Ricevetti la tua con due decadi di sermoni, regalo più prezioso che oro e gemme. Le occupazioni non mel permisero ancora, ma li leggerò, e li declamerò dal pulpito, non potendo che esser eccellente quanto viene da te. Io son sì piccolo, da non avere cosa a mandarti, se non tale che ti affligga. Giocondissimo m'arrivò quanto scrivi della Sassonia, della Pomerania ecc. D'alcune cose avevo sentore, ma a stento vi prestavo fede: tante ai dì nostri se ne spacciano! Sopratutto gratissimo mi fu l'udire che in Inghilterra prevalse la nostra e vostra opinione sulla Cena, onde speriamo ciò succeda anche altrove. Della Chiesa nostra non ti posso dir nulla che ti rechi piacere; il lator di questa te ne informerà. Gli autori dello scisma sono anabattisti; e un di costoro che aderivano a Camillo, in presenza di molti, trovandosi alla mensa d'un nobile dov'era anche Pietro Paolo Vergerio, chiaramente confessò d'aver testè preso il battesimo, e così esser divenuto un altro uomo, cioè innovato e riempito dello spirito di Dio; col battesimo aver rinunziato al papa o a quanto avea trovato sotto il papato, perchè quel battesimo non era di Cristo ma dell'anticristo e del diavolo[261]; e ch'io sia un lupo e un seduttore. Camillo, lor corifeo e piloto, non va così precipitoso a confessar all'aperta; è più prudente, non perchè non sia peggiore, ma perchè teme di manifestarsi: del resto bisogna stiano avvolti nel medesimo errore quelli che son tanto amici. Io non so quello che farò; son chiamato in Inghilterra: qui nessun m'ajuta, e resto solo a premer il torchio. Perdonami, o Signore, giacchè ciò conviene al solo Cristo, solo di lui voglio esser detto. Diriga il Signore i miei passi: io non so quel che mi fare. Odo che Camillo ti scrive; tu rispondigli secondo la tua prudenza: egli è peste della Chiesa e grande eretico. Dicono si prepari a lasciar Chiavenna: possa altrove divenir migliore! Così portasse seco la sua peste! ma temo ci lasci le reliquie. «Questa ti è consegnata da Baldassare Altieri, uomo esimio e di singolare ingegno: dàgli ascolto, poichè io non ti posso scriver ogni cosa in tanta fretta. Egli ti aprirà i suoi concetti. Tu, uom di tanta prudenza, se vedrai che il fatto suo sia da promuovere a gloria di Cristo, giovagli di consiglio e di favore. Io, quanto possa capire col mio piccolo ingegno, stimo che i voti suoi giovino sommamente ad estender il vangelo di Cristo. Ma ai capi non sarà facile corrispondere a' suoi desiderj. Sta bene in Cristo Gesù Signor Nostro, e prega per me». Si prese il partito di radunare un nuovo sinodo: quattro pastori, eletti dal concistoro, nel dicembre 1549 vennero a Chiavenna e ospitati in casa di Francesco Pestalozza, tennero lunghe dispute, ove si finì col proibire a Camillo d'insegnare o predicare in privato nè in pubblico; e si stanziarono ventuna conclusioni: dietro le quali Camillo fu scomunicato il 6 luglio 1550. Camillo stese una professione di fede, che in fondo è mera parafrasi in versi esametri di ciascun articolo del _Credo_, diretta a Federico Salis, dissimulando i punti sui quali deviava[262]; scrisse anche _Errori, inezie, scandali di Agostino Mainardi dal 1535 e dopo_, ove lo accusava di cenventicinque errori. In altre scritture ribatte le credenze luterane. In quell'occasione i predicanti offrirono di venire a dibattimento anche col capitolo cattolico di Chiavenna, che non credette dover accettare la sfida. I dissidenti pensarono poi togliere di mezzo queste discordie nel sinodo nel 1553 per cura del Travers, del Bullinger e d'altri, combinando una Confessione retica, secondo aveano determinato nell'adunanza di Chiavenna, e metter così un freno agli Italiani liberi pensatori. Comincia essa colla professione dei tre simboli ecumenici, poi de' meriti di Cristo, e della sola potenza di santificazione della fede; rigetta che Dio sia la causa del male: la carne di Cristo è in cielo, pure egli sta presente nella Chiesa; il battesimo fu sostituito alla circoncisione, e il ribattesimo è da fuggire in ogni caso. Ogni anno due sinodi si terranno, dove l'adunanza comincerà dalla preghiera in ginocchio; il ministro o il seniore leggerà il 119 salmo in latino o in tedesco; verrà dietro la profession di fede; indi, scelti il presidente, due assessori e il cancelliere, si comincerà a trattar gli affari. Son festive le domeniche, natale, pasqua, pentecoste; e in ognuna si reciterà il _pater_, il simbolo, i dieci comandamenti. Il battesimo si dà in chiesa, escludendo il sale, il crisma, la saliva, e colla liturgia di Zurigo o di Coira; i padrini non occorre siano conosciuti per fedeli, purchè scelti dal numero dei comunicanti; senza cognizione del padre e consenso del magistrato nessun parroco può battezzar un bambino. Per la comunione si può adoprar pane non lievito; nè mai la si farà in casa. I matrimonj si celebrano in pubblico; vietato il divorzio. Nessuno deve abbandonare la propria comunità. La scomunica esclude uno per sempre dalla Cena, se indubitabili segni di emenda nol facciano riammettere. Tale Confessione fu tenuta dalla Chiesa retica, e si firmava dai ministri; benchè, quando fu pubblicata nel 1556 la Confessione elvetica, questa venisse adottata dai Grigioni. Ma i profughi italiani non vi si voleano acconciare; il Vergerio, trovandola in molti punti dissona dalle credenze sue, negò sottoscriverla, e ricordandosi d'essere vescovo, domandava d'essere eletto visitatore della Rezia e della Valtellina, ripromettendosi di riconciliare i dissidenti. Di ciò il Salutz lo beffava, come si desse soverchia importanza: «Il cielo non cascherà se anche costui nol sorregge colle sue spalle. In luogo di diffonder il vangelo, esso ne divenne un ostacolo, giacchè i predicanti litigano fra loro, invece di unirsi tutti contro de' Cappuccini». I Cappuccini di fatti in Valtellina opponevansi agli eretici, come i Domenicani stanziati in Morbegno, donde si diffondeano a predicare; e principalmente frate Angelo da Cremona a Teglio eccitò il popolo in modo, che prese a sassi Paolo Gaddi ed altri venuti da Poschiavo, e ne nacque una baruffa, dove andarono di mezzo molti borghesi, che parteggiavano pel Gaddi. Premeva ai Grigioni d'assicurare la condizione degli Evangelici in Valtellina, massime dacchè come capo della chiesa retica in Coira al Comander era succeduto il Fabrizio. I predicanti v'erano sempre considerati come persone private, maestri nelle case particolari: fin il Mainardi a Chiavenna non era sostenuto che da Ercole Salis ed alquanti altri, e in un salotto di questo predicava; doveansi osservar tutte le feste antiche, massime quando uscisse commissario qualche cattolico. Allora si decretò che gli Evangelici non fossero obbligati ad altre feste che alle prescritte dal sinodo; a loro si attribuisse un terzo delle entrate della chiesa di San Lorenzo di Chiavenna; non più frati novizj ne' chiostri: ad ogni predicante si assegnassero quaranta corone l'anno, desumendole dalle entrate in Valtellina del vescovo di Coira e dell'abate di Sant'Abondio di Como; dove fossero più chiese, una dovesse cedersi agli Evangelici. Incaricato d'eseguire tal decreto, Federico Salis fu festeggiato dagli Evangelici; e nominato commissario in Chiavenna, s'adoprò caldamente a diffonderne le credenze. Allora Giovanni Schenardo, giurisperito di Morbegno, sporse una supplica al granconsiglio retico contro di questi predicanti, che disertati da Agostino e da Benedetto, sollecitan unicamente il vantaggio proprio, non quello di Cristo. Il vero evangelico s'attiene a san Paolo, che proibisce di far nulla per litigio, non rivendicar neppur le cose proprie, sopportare le frodi, le ingiurie: esso vantava di non riuscir di peso ad alcuno; costoro invece, eccoli retribuiti lautamente. Che se non vogliono imitar Paolo, che imitava Cristo, almeno lo stipendio chieggano da quelli per cui militano, non da quelli a cui contrariano. Ma questi disertori servono al ventre, non a Cristo, desiderando tutt'altra vita che quella degli apostoli, i quali la passarono in fatica, in travagli, in vigilie e fame e freddo e nudità. O come si dicono Evangelici se detestano una vita cui seguirono tanti Padri del deserto, fra vigilie, digiuni, cilizj? Evangelici come sono questi che si sfratano, mentre Cristo proclamò beati quei che si mutilano pel regno de' cieli, e Paolo preferisce il celibato alle nozze? Cristo e gli apostoli fecero miracoli, pei quali fu creduta la loro dottrina; i santi, i pontefici o per miracoli o per la pazienza de' mali si segnalarono; questi avveniticci non operano miracoli, fuggono l'austerità della vita; sicchè non meritano fede. È poi ingiusto ed illegale il rivolgere ad una religione ciò che era destinato ad una opposta; i suffragi pei defunti devonsi rispettare quanto le leggi e i testamenti; togliere ciò che altri possiede per giusto acquisto o per usucapione è iniquità. E conchiudeva si abrogassero quelle leggi, o almeno si sottoponessero al suffragio universale dei Valtellinesi. Gli fu dato ascolto come si suole dai prepotenti; e il decreto, benchè in Morbegno incontrasse qualche opposizione violenta, fu eseguito, e assunto l'inventario dei beni ecclesiastici in Valtellina. Il cavalier Quadrio, medico dell'imperatore Ferdinando, destinò la sua casa in Ponte per istabilirvi una scuola di Gesuiti: l'imperatore ne prese tale impegno, che nella dieta di Ratisbona del 1558 ne parlò amicalmente al borgomastro di Coira, e il Canisio provinciale dei Gesuiti mandò lo spagnuolo Bobadilla con dodici compagni ad aprirvi il collegio. Se ne sbigottirono i Riformati; Fabrizio vi si oppose di tutta forza, e ottenne una decisione della dieta del 1561 contro quella scuola. Agostino Mainardi moriva nel 1563 l'ultimo di luglio, e Ulisse Martinengo scriveva al Fabrizio: «La mattina, convocati i fratelli, tenne un discorso eccellente, la cui somma è che persistessimo in quella dottrina ch'egli per venti anni avea predicata; dottrina sicurissima e saluberrima, perchè appoggiata alla pura parola di Dio. Al domani lo portarono sulle proprie spalle gli anziani della chiesa con gran mestizia; perocchè talmente a tutti era caro, che neppur gli avversarj trovavano di che rimproverarlo». Per succedergli si invitò il bergamasco Zanchi; bello ingegno, che volentieri accettò per sottrarsi alle molestie che a Strasburgo davangli i Luterani. Ma nè qui ebbe pace, mancandogli la forza di carattere necessaria a tenere in freno i migrati. Simone Fiorillo napoletano, che nell'intervallo aveva supplito al Mainardi, or pretendeva precedenza sopra lo Zanchi, e rimestava le idee di Camillo. S'aggiunse nel 1564 la peste, che in poche settimane uccise centotto persone, talchè il sermone si faceva all'aria aperta, e ciascuno portava un ampolla di vino da bever alla santa Cena per evitare il contagio. I preti cattolici mostravano il solito eroismo nell'assister i malati: ma neppure i ministri evangelici abbandonarono il posto, eccetto il Torriano di Piuro. Quando poi sopraggiunsero il Biandrata e l'Alciato, spargendo nuovi errori sulla Trinità, lo Zanchi lasciolli fare: ma dopo quattro anni se n'andò. E prima fermossi a Piuro, dove sposò una Lumaga, poi ad Eidelberga succedette a Zaccaria Orsino. In Chiavenna fu pastore Scipione Lentulo, già barba dei Valdesi in Val d'Angrogna, poi ministro a Montagna sopra Sondrio; donde scriveva al professore Wolf a Zurigo il 19 ottobre 1566: «Quasi ogni giorno devo combattere con Italiani, e benchè italiano io pure, non mi dorrà dire che ad essi nessuna religione piace, dacchè cominciò a spiacere la papistica». E informava il Bullinger qualmente egli s'applicasse agli scritti teologici di lui e di Calvino, che aveva udito a Ginevra; mentre fu nell'Angrogna, trovavasi gravato di tanti affari, da bastargli appena tempo di leggere la Bibbia. A Chiavenna dovendo predicare cinque giorni per settimana, non gli avanzava tempo di leggere opere estese come quelle di Lutero (3 giugno 1575). Tobia Eglino di Zurigo, uno de' pochi discepoli del nostro Giordano Bruno, del quale parla con rispetto in una dedica a Giovanni Salis, era venuto pastore di San Martino di Coira e amministratore del concistoro retico. A lui descrivendo lo stato della chiesa di Chiavenna, il Lentulo fa motto d'un Salomone di Piuro fabbro ferrajo, già da dieci anni scomunicato per ariano, che qualunque occasione gli si presenti, professa di non credere che Cristo sia Dio, sebbene concepito di Spirito Santo. Un Ludovico Fiero bolognese, per la stessa ragione scomunicato, reduce testè dalla Moravia, viepiù ostenta il suo delirio: un Enrico ferrajo non fu ancora mandato via, benchè egli lo abbia denunziato al pretore come scelleratissimo anabattista: un Alessio trentino, infame anabattista: un Jacobo veneziano, ex-prete, che non va mai nè al sermone nè alla Cena, nè si piace che di conversare con eretici; vi sta pure un costui nipote o piuttosto figlio, dichiarato dalla nostra Chiesa empio e scellerato, e della Chiesa si ride. «Da tre anni (egli continua) qui migrò un Pietro, che si dice romano benchè si capisca spagnuolo, che fece retta confessione da principio, ma poi si scoperse anabattista, e porta attorno, e dà a leggere come oracoli i libri di Giorgio Siculo. Conta fra costoro Francesco di Bagnacavallo, che prima buon cristiano, dopo alcun tempo d'assenza tornò, asserendo che Cristo non è Dio per natura, ma per grazia. Aggiungiamo Giovanni da Modena, sozzo uomo il quale a tutti ricanta che i rigenerati non possono peccare. Che dirò di quelli che non vonno firmar la Confessione retica, nè esser interrogati sulla loro fede dai Ministri? anzi vituperano tutto il governo ecclesiastico e la disciplina? E v'è poco lontano chi a questi impostori favorisce, e li sorregga come attaccatissimi fratelli. Fate dunque, o fratelli, che dagli illustrissimi signori si mandi al pretor nostro di cacciar tutti costoro dal territorio di Chiavenna» (7 novembre 1569). E nuove insistenze faceva il maggio seguente, all'avvicinarsi del sinodo. Già lo Zanchi aveva pregato il Bullinger a non ammettere verun profugo se non facesse la sua professione sulla natura di Dio, sul peccato originale, sulla soddisfazione di Cristo, sul futuro stato delle anime: chè altrimenti, se Spagna aveva prodotto la gallina, Italia schiuderebbe le ova, e già sentivasi il pigolio. L'Eglino di fatti espose il pericolo che dagli Anabattisti derivava alla chiesa e di Coira e di Chiavenna, onde fu decretato che ognuno dovesse professarsi o cattolico o della Confessione retica, se no sarebbe cacciato (27 giugno 1570), e aver licenza di predicare dal vescovo di Como o dal concistoro retico. Ne levarono rumor grande i dissenzienti, e massime il Torriano ministro a Piuro, e altri della Pregalia e della Valtellina, appareggiando quel decreto all'Inquisizione romana: scrissero contro di esso Bartolomeo Silvio, ministro a Traona, e Marcello Squarcialupo medico; e il Lentulo vi oppose una _Responsio ortodoxa pro edicto ill. D. D. trium fœderum Rhæticæ adversus hæreticos et alios ecclesiarum ræthicarum perturbatores promulgata, in qua de magistratus aucthoritate et officio in coercendis hæreticis ex verbo Dei disputatur_. Alessandro Citolino, profugo dall'Italia fra' Grigioni poi in Inghilterra, sotto lo stemma retico ch'era dipinto sul muro, come si suole colà, avea posto questi versi: _Fortia signa simul connectunt armipotentes_ _Tergeminos populos sociali fœdere junctos_ _Solamen profugis. Felices vivite semper._ Lo Squarcialupo li cancellò, e vi sostituì: _Est liber Christus et Rhætia, liber et hospes:_ _Este procul vulpes: dura catena vale._ Eglino gli replicò: _Est liber Christus et Rhætia, liber et hospes_ _Sed grave servitium prodit ab hæreticis_ _Calcatur Christus, non hospes ab hospite tutus:_ _Rhæte, volens liber vivere, pelle lupos:_ allusione al cognome di quel dottore. Il Torriano, Camillo, Silvio sottoscrissero la formola; disposti a violarla, e sicuri d'andarne impuniti per denaro; ma il decreto fu applicato a un Cristoforo, maestro a Sondrio; e i martirologi degli Anabattisti riboccano di vittime di quelle persecuzioni. Questo punto del diritto di perseguitar gli eretici venne discusso acremente nel sinodo di Coira il giugno 1571: Tobia Eglino sosteneva il sì: lo contraddiceva Giovanni Gantner anabattista. Vi si presentarono i nostri italiani: il Torriano, che a Piuro accoglieva alla comunione quelli che il Lentulo scomunicava a Chiavenna; Nicola Camulio, denarosissimo mercante, che a Piuro stessa gli ospitava; Lelio Soccino, un Sadoleto, _omnes perversi homines_ (dice il processo verbale) circondati da quantità d'amici, e patrocinati dal medico Bellino, che ne garantiva la sicurezza. Il padre Giulio da Milano, curato della chiesa di Poschiavo, recò lettere del Camulio al Torriano, intercette da nostri, dove i ministri evangelici chiamava vecchie e nuove volpi, nuovi Farisei, uomini di sangue, papi anticristiani, carnefici; deplorava l'esiglio dell'Ochino e la sua cacciata da Zurigo, e proponeva il modo di metterlo in sicurezza a Piuro; dava a Camillo Soccini il titolo di probo e santo e resistente ai nuovi Farisei: aspettava il Betti e il Dario eretici; lodava la lunga consuetudine colla scuola senese, e deplorava la morte del Castalion, gran cristiano[263]. Il Camulio si scusò come mal pratico delle sottigliezze teologiche; aver largheggiato coi rifuggiti per compassione; pure sosteneva che nessuno vorrebbe subir pene contro la propria coscienza; laonde se pensano così, non si potea forzarli; che del resto disputavasi di materie non essenziali alla salute, come è il cercare, se il magistrato possa punir gli eretici. Ma gli fecero tali minaccie, che svenne; e tutti questi italiani furono colpiti di censura; pure colle blandizie ottennero di rimanere in paese, e fin ne' loro benefizj. Mino Celsi di Siena, nel 1572 scriveva: «Tre anni fa essendo sfuggito dalle mani dell'anticristo, e stanco del lungo viaggio e de' superati pericoli come a un porto approdando alle Alpi retiche, credevo (come tra' fratelli nostri italiani si crede) che le chiese, le quali giustamente chiamiam riformate, fossero legate d'indissolubile consenso e unità di dottrina: e invece con somma afflizione d'animo trovai che, sebben tutte consentano che il papa è vero anticristo, che la messa sorpassa qualunque peggior idolatria antica, che gli uomini sono giustificati non dalle proprie opere ma dalla fede in Cristo, che il purgatorio è una bottega del papato, che i sacramenti son due, non sette, e altri articoli pii e santi, in molt'altri discordano. E poichè ognuno ritien la sua fede per vera e ortodossa, ove ammettasi la persecuzione degli eretici è forza che ognuno perseguiti l'altro, e col ferro, col fuoco, coll'acqua si tolgano di mezzo, nè più sia fine ai supplizj». Viepiù s'infervorò poi la disputa intorno alla predestinazione; e l'Alciato e il Biandrata, che ritornavano nella Valtellina a confermar i loro concredenti, ne furono sbanditi; Fabrizio Pestalozza, che professava le stesse opinioni ariane, fu obbligato disdirle nel 1595, gli altri o si convertirono o tacquero. Dopo la credulità, l'altro male che cruccia i rivoluzionarj è la paura. In conseguenza domandano persecuzioni e processi, e se con questi legalmente non riescono a trovar rei e punirli, imputano di connivenza i magistrati. Bucinavasi che i Domenicani di Morbegno spiassero tutto, per tutto denunziare al Sant'Uffizio: perciò arrestavansi ai confini, e ripeteasi che ne' loro cappucci si fossero trovate carte compromettenti, le quali poi nel processo più non comparivano. Agostino Mainardi, lodato di moderazione, mandava al famoso Fabrizio: «Devo scrivervi sebben controvoglia, e quanto posso vi prego di tener a mente quel che scrivo, ma la lettera non mostrare ad alcuno, perchè di materia odiosa. L'altrjeri il commissario arrestò Vincenzo Stampa di Chiavenna, nemicissimo agli Evangelici. Era amico di quel ribaldo Domenicano, che fu assolto e rimandato impune dal podestà di Tirano. Vincenzo sapeva tutti i secreti di esso, e una volta disse struggevasi di lavar le braccia nel sangue de' Luterani. I più credono mandi spia all'Inquisizione di quanto qui si fa. Io ve ne voglio avvertito, affinchè con questi signori facciate che non se la campi. Scriverò anche al commissario acciocchè lo _sforzi_ a confessar la verità, manifestare le macchinazioni contro i fedeli di Cristo, i consigli de' profeti di Baal, cioè i Domenicani, e degli altri che son nemici non solo al vangelo, ma a' nostri signori. Quest'è l'unico corifeo da cui potrà risapersi tutto, meglio che da qualunque altro si sia; tengasi dunque in carcere, nè si lasci sfuggire. Credo che, se venga _forzato_ a dir la verità contro i Domenicani, ne dirà di tali, che giustamente verran cacciati dai signori... Ripeto che ciò scrivo malvolentieri, perchè non vorrei nuocer a nessuno»[264]. Poco poi si lagnava perchè il pretore non volesse proferir sentenze se non dopo udito il consiglio de' signori Grigioni. E Tobia Eglino al Bullinger: «Questo è ben certo che molti frati emissarj girano a Chiavenna, a Piuro e nelle vicinanze, pagati dall'oro pontifizio, per fiutare quel che risolvano i Grigioni, e assalendo un a uno, o per forza, o per timore, o per premj, svolgere dalla vera religione. Se mai infuriò l'Inquisizione spagnuola, gli è adesso. Quasi nessun mercante è più sicuro a Milano, dove i sospetti vengono con atroce crudeltà uccisi, o mandati alle galere, o tenuti in prigionia domestica se nobili. Testè un Giacomo Serravallense veneto, che professò il vangelo a Chiavenna, e andava per affari in Italia, fu preso a Crema, e tra molti strapazzi e colle mani avvinte al tergo a guisa d'un gran birbante, fu condotto a Venezia, e quivi condannato alla galera, o _dicono altri_ precipitato in mare. Simile beccheria e peggio a Bologna, dandosi egual morte, eguali catene, eguali torture a grandi e ad infimi. A Piuro capitò un frate, e fidato nella benevolenza degli abitanti papisti e nella liberalità del pontefice, scrisse lettere proditorie, per le quali, d'accordo coi migliori del luogo, avesse podestà d'incrudelire contro i predicanti e gli Evangelici. Volle recarle a Roma acciocchè il papa vedesse le facoltà attribuitegli, e profondesse denaro per corromper altri. Ma non volendo firmar la lettera i consoli del luogo, la cosa venne manifestata dal curato del paese, e il monaco incarcerato e punito di ducento coronati» (29 dicembre 1567). E si credeva! Ma l'accusa era stata data; se i due spioni fuggirono n'avea colpa il pretore, vendereccio; su di essi accumulavansi tutte le infamie possibili; a forza di ripeterle faceansi indubitate, e si spediva al senato di Milano a portar lamenti e pretendere soddisfazione: ma questo e il governatore chiedevano le prove, o assicuravano esser affare dell'Inquisizione; sporgevansi querele alla dieta, e questa era compra dall'oro di Roma, dalle baje de' frati, dalle decorazioni cavalleresche. Non son gli argomenti che si ripetono anche adesso? Non vogliam però dire che i Cattolici non s'adoprassero per salvar la Valtellina dall'eresia; e poichè, secondo il diritto comune d'allora, l'eretico era un nemico pubblico, si ricorreva a tutti gli spedienti che il diritto di guerra consente, fino a staggire le merci che capitassero in Lombardia appartenenti ad eretici, e coglier le loro persone qualora fosse possibile, e vietare severamente il darvi albergo[265]. Più si teneva occhio ai preti e frati apostati, procurando coglierli e consegnarli al Sant'Uffizio. Tra questi era Francesco Cellario, della Chiarella, figlio di Galeazzo, già minore osservante. Inquisito dal Sant'Uffizio a Pavia, ne era stato dimesso il 1 maggio 1557 con imporgli solo alcune penitenze. Ma presto fu denunziato di tenere e difonder libri ereticali, nutrire opinioni fallaci e predicarle; onde messo in prigione, confessò d'aver lodato pubblicamente il Bucero, il Calvino, l'Ochino ed altri di quella risma. Riuscito a fuggire, ricoverossi fra' Grigioni: prese moglie; e insegnava non darsi purgatorio, non esser sacramento il matrimonio, nè vietato ai preti; il corpo di Cristo trovarsi nell'eucaristia soltanto idealmente; a Dio solo doversi far la confessione de' peccati; non venerare le immagini dei santi; Pietro non essere stato superiore agli apostoli, nè il papa ai vescovi. Non contento di predicar a Morbegno, qualche volta spingevasi secretamente fino a Mantova, sicchè furono tesi agguati per coglierlo. Era andato al sinodo di Zutz nell'alta Engaddina il 1568; ed essendo intercetto dalle nevi il passo della Bernina, ritornò per Chiavenna, attraversando quel lembo del Pian di Colico che spetta al Milanese. Quivi l'appostavano; e côlto al passo dell'Adda, fu inviato a Piacenza, donde il duca Ottavio Farnese si fece un onore di spedirlo a Roma, e quivi processato, come apostato e relapso fu dato al braccio secolare il 20 maggio 1569. I Grigioni strepitarono come di violato diritto pubblico, mandaron note all'Albuquerque governator di Milano e ai principali Stati d'Italia, ma si rispose ch'era nelle autorità del papa l'arrestar gli eretici. Essi allora pubblicarono una taglia sopra l'inquisitore frà Pietro Angelo da Cremona, premiando chi prendesse lui o alcun suo compagno, e il consegnasse. Più tardi Lorenzo Soncini, che predicava a Chiavenna, fu côlto al modo stesso, e mandato all'Inquisizione. Anche i vescovi di Coira vegliavano alla preservazione del cattolicismo. Essendosi in quella cattedra preferito Tommaso Planta ad Andrea Salis, si esacerbarono le ire fra le due famiglie rivali, e imputavasi il Planta di mangiar grasso anche in giorni di digiuno, non dir la messa, e andare zoppo nella fede come ne' piedi. Le accuse furono portate all'Inquisizione, e frà Michele Ghislieri lo processò; egli giustificossi, e d'allora raddoppiò di zelo, e in conseguenza fu odiato dagli Evangelici, coi quali durò in continua lotta. Era il tempo che spingevasi meglio il Concilio di Trento, e nel 1561 fu mandato ne' Grigioni Bernardino Bianchi prevosto di Santa Maria della Scala di Milano, col nobile milanese Giovanni Angelo Rizzi segretario regio, che alla dieta di Coira querelaronsi perchè in Valtellina e a Chiavenna si ricettassero i profughi, senza esaminarne i costumi e la condotta, bastando si mostrassero nemici della fede cattolica: si obbligassero i fedeli a spartire coi ministri ereticali i benefizj, ajutandoli così a sparger interpretazioni del vangelo contrarie a quelle de' Padri e de' Concilj ecumenici; invece si costringessero i predicatori cattolici a dare sicurtà pei loro atti: si fosse vietato di eriger chiese e conventi, e riprovato il Quadrio perchè fondò il collegio dei Gesuiti a Ponte: a Poschiavo si tollerasse la stamperia Landolfi, ostilissima alla sede romana[266]; si impedisse al vescovo di Como di esercitar la sua giurisdizione, e fin di esigere i suoi livelli e canoni; si fosse ordinato che tutte le parrocchie scegliesser il curato a loro beneplacito, senza chiedere bolla o approvazione da Roma; e allorchè di Roma giunga alcun breve non si pubblicasse senza consentimento delle tre Leghe. Eccitossi l'indignazione popolare contro questi messi, quasi attentassero alla libertà, e Pier Paolo Vergerio venne apposta dal Wurtenberg per contrariarli. Adunata la Dieta, vi si diedero risposte evasive; dalla stamperia di Poschiavo non si lascerebbero uscire libri contro la santa sede nè ingiurie al papa: non si contenderebbe al vescovo di Como quel che gli apparteneva; nulla esservi d'ingiusto in ciò ch'erasi disposto sul convento di Morbegno e il collegio di Ponte: l'istanza del Bianchi perchè si spedissero legati al Concilio di Trento ebbe il no, con gran trionfo del Vergerio. Anzi nel 1583 adunati a Chiavenna, i capi della repubblica sancirono che, dov'erano tre famiglie riformate, si tenesse un ministro a spese comuni, e questo potesse usar le chiese «fabbricate dagli avi per uso de' posteri». Abbiamo già accennato quanto san Carlo Borromeo s'affaticasse a sostenere la causa cattolica fra i Grigioni e in Valtellina; vi spediva catechismi; cercava ne fossero rimossi gli apostati, e vi si aprissero scuole cattoliche; ma poco potè trarre a riva: anzi fu rinnovato l'ordine che non predicasse se non chi approvato dal sinodo[267]. Il Volpi vescovo di Como, che era stato spedito alla Dieta di Baden per patrocinare davanti ai signori Svizzeri gl'interessi de' Cattolici, invitò il cardinale Borromeo a visitare la Valtellina. In fatto egli, trovandosi nella Valcamonica, varcò i Zapelli d'Aprica, e venne in atto di pellegrino al celebre santuario della madonna di Tirano «per infiammare (scrive egli) quanto potessi gli ortodossi di questa valle; poichè giacciono dall'intollerabile giogo degli eretici quasi oppressi, e gran pericolo reca di contagione il quotidiano convivere coi nemici della nostra fede. Ivi predicai per dare qualche consolazione a quel popolo, che ardentemente bramava udire la mia voce, e volentieri lo feci, con facoltà del vescovo di Como». Lo stesso santo fiancheggiò vigorosamente il Pusterla arciprete di Sondrio nell'opporsi al collegio che voleva istituirsi in quel paese sotto la direzione di Rafaello, figlio di Tobia Eglino: ne seguì una vera sollevazione, e molti furono processati e sbanditi, fra cui il Pusterla stesso, ma il collegio non si potè aprire. San Carlo ottenne dai Cantoni svizzeri cattolici che inviassero deputati alla dieta de' Grigioni per tutelare gli affari dei Valtellinesi ortodossi. Dopo il viaggio nella Mesolcina che descrivemmo (vol. III pag. 91) avrebbe bramato scendere in Valtellina, ma non l'ottenne[268]. Dicemmo che, quando la costituzione corra pericolo, i Grigioni erigono un tribunale speciale (_Straffgericht_) di giudici scelti dalle comunità, con poteri dittatorj. Allora lo piantarono per iscoprire e castigare coloro che aveano favorito la venuta del Borromeo, al quale attribuivano sottofini politici; tanto più che era nipote di quel Gian Giacomo Medeghino, che viva guerra avea fatto a' Grigioni, e tentato toglier loro la Valtellina. A quel tribunale Girolamo Burgo mesolcino confessò alla tortura aver dal Borromeo ricevuto denari e grano da distribuire ai fautori, nominò i complici, e tutto quel che si volle. Certo è bene che al Borromeo i Valtellinesi recapitavano i lamenti contro gli abusi dei loro padroni e che trattarono di ribellarsi coll'ajuto dei governatori di Milano, non mai rassegnati alla perdita di quell'importante valle. Don Ferrante Gonzaga governatore aveva intrigato all'uopo fin col vescovo Vergerio[269], sebbene invano; e una lettera del Borromeo del 1584 ci fa chiari che la cosa fu anche più tardi discussa, e ch'egli la favoriva siccome propizia alla religione, e ne trattava coll'ambasciador di Francia, e teneasi presso que' confini per accorrere ad ogni moto; pur protestando «non voler tenere, per ajutar que' popoli, altra via che la spirituale»[270]. Di quel tempo un Rinaldo Tettone, ricco negoziante milanese, avea mal condotto i suoi affari, e come uomo che nulla aveva più da perdere, si pose a capo d'una banda di bravacci, mestiero che allora non disonorava se non chi non riuscisse. Dal fare preso ardimento al fare, meditò invadere la Valtellina, e metterla a sacco; e per mantellare la ribalderia, come si suole, avrà sparso di andarvi a rialzare la santa religione cattolica, ed operar d'accordo col governatore Terranova, col cardinal Borromeo, con papa Gregorio. S'avviò di fatto, ma il Parravicino governatore di Como non permise che quella ciurma entrasse in città, e a forza lo respinse colle armi cittadine, mandando al supplizio quanti colse de' costui seguaci. Ita al vento l'impresa, il governatore di Milano se ne fece nuovo affatto, ed il Tettone fu cacciato in galera[271]. I Grigioni ne fecer un capo grosso, e molta gente inquisirono, senza verificare d'alcuno la colpa: ma il cardinale tennero in memoria di fazioso e brigante. Era questi morto l'anno avanti nell'atto, dice il Calandrino, di metter fuori il scelleratissimo suo parto[272]; la lettera addotta lo mostra innocente di maneggi, ma conscio: e il Ripamonti e il Ballarino[273] fanno testimonianza che colla Spagna assecondava la trama: e il suo nome restò formidabile agli eterodossi, e da quel punto chi ad essi opponevasi diceanlo appartener alla Lega Borromea, come ai dì nostri dicesi della Congrega, de' Gesuitanti, de' Paolotti: e campioni n'erano il padre Giovanni Odescalchi vescovo d'Alessandria, e Giovan Pietro Negri domenicano. Nè i dissidenti cessavano di sorreggere i proprj religionarj e sfavorire i Cattolici; negli statuti di Valtellina stampati il 1549 furono intrusi alcuni a favor di quelli: al giubileo del 1575 si pose ogni possibile incaglio: nel 1585 trovandosi a Chiavenna unite le bandiere de' Grigioni, sancirono di nuovo intera libertà di religione, il che allora come altre volte, significò persecuzione della cattolica: non voleano ricevere frati esteri, nè manco per la predicazione quaresimale; e sopratutto non soffrivano si pregasse per l'estirpazione delle eresie, quando non si dichiarasse non intendersi quelle professate dai signori Reti; non potendo comportare che si facesser orazioni contro i proprj signori. Ai predicanti riformati si assegnavano soldi[274]: le rendite della prepositura di Sant'Orsola di Teglio già da anni eransi applicate a mantener il predicante di colà, sorrettovi dalla famiglia Guicciardi. Natane opposizione, e mescolatisi i partiti, si pretese che l'onorevolissimo cittadino Tommaso Planta fosse guadagnato dall'oro spagnuolo, e fattogli processo, venne condannato a morte. Broccardo Borrone di Busseto parmigiano, studiando in Padova conobbe gli scritti di Calvino, e ne fu pervertito; venne in Valtellina il 1592, e mediante il favore di Andrea Ruinelli, medico e professore ne' Grigioni, fu fatto predicante e maestro a Traona, donde il 1596 passò cancelliere del commissario Giovanni Planta in Chiavenna. Accusato d'esser fuggito d'Italia non per religione, ma per turpitudini commesse, d'aver più volte esternato il desiderio di tornare cattolico se il papa gli perdonasse, al qual fine cercherebbe ridurre in mano dell'Inquisizione alcuni predicanti, fu messo alla tortura rigorosa: e non confessando, fu dimesso pagando cencinquanta coronati per le spese di processo: poi la Dieta lo bandì da tutto il paese, perchè temeasi meditasse vendetta. Nel suo breve soggiorno nella Rezia, erasi egli giovato del suo posto per raccogliere curiose notizie: perocchè nel 1601 un Giorgio Pini di Traona scrisse da Roma che vi si trovava il Borrone, e che avea fatto un libro ove descriveva il paese e gli abitanti: subito si cercò un tal libro, poi si pose una taglia sulla costui testa, ma non si trovò chi la volesse guadagnare. In realtà, per aver denaro, egli avea steso un libello, dal quale scegliamo solo alcuna cosa di quel che concerne i paesi italiani, de' quali dice: «Attorno al lago di Como son le parrocchie cattoliche, di Novato, Campo, Samolago, Gardona, dove non c'è eretici, talmente prevalse l'esempio dei vicini. Cattolica è tutta la val San Giacomo, per la quale si passa a Coira, sempre fra cattolici. Il contado di Chiavenna ha quindici parrocchie, tutte con preti cattolici; ministri eretici sono a Chiavenna, Piuro, Pontilio, Mese, tutti apostati dall'Italia. De' cinquemila abitanti, ottocento son eretici; e mille capaci dell'armi, fra cui al più cento eretici. Non sarebbe difficile purgar il paese dall'eresia, non mancandovi gente di cuore, che aspetta l'occasione. «Allo sbocco dell'Adda vedonsi gli avanzi d'una torre, dove Gian Giacomo Medeghino avea posto campo per impedire che i Grigioni v'entrassero; e converebbe rialzarla. «Nella Valtellina ha 65 parrocchie, ciascuna col suo curato, ma vorrebber essere visitate, essendovi di molti contumaci e profughi dall'Italia senza dimissoria. Non c'è verun luogo tutto eretico, bensì alcuno ove neppure un eretico; e i ministri son appena dodici, tutti apostati italiani, i quali se si allettassero, credo che in breve la valle sarebbe risciaquata dal calvinismo. De' venticinquemila abitanti appena un decimo abbracciarono la Riforma: scrivonsi quattromila alla milizia, tra cui ottocento eretici. Ma è da confessare che cogli eretici stanno i principali e più ricchi, non solo di Valtellina ma di tutti i Grigioni. I natii aborrono i dominanti, e all'occasione se ne disferebbero. Nè difficil sarebbe il redimerli, tanto più che nella Rezia non potrebbe entrare per soccorso alcuno de' confederati se non per passi angustissimi che stan in mano de' Cattolici; mentre ai Cattolici italiani e tedeschi son aperti i varchi». Qui descrive la politica e la miseria de' Grigioni, poi vien a informare de' pastori evangelici di Valtellina. «Nicola da Milano, già francescano, tre anni fa recossi a Chiavenna, ove predica il catechismo ereticale; menò povera donna, de' cui costumi è disgustato, e n'ebbe figli che fatica ad allevare. Nè si loda della sua chiesa perchè gli fu preferito Ottaviano Mei lucchese. Con tali scontentezze, parmi che potrebbe guadagnarsi a promesse. «Questo Mei, benchè nato e educato nell'eresia, è giovane, celibe, di buona casa, dotto in latino, greco, ebraico e nelle buone arti, facondo; e con largo promettere potrebbe trarsi alla Chiesa nostra; oppure coglierlo presso il lago, ove si diletta della pesca. «Michele Acrutiense, già pievano nella Rezia, poi apostata e ministro a Piuro: di sessanta anni, abbastanza dotto, ma povero, con chiesa piccola e sottili proventi; cuculato perchè sposò una giovinetta. «Tommaso Capella genovese carmelita, or ministro a Poncila, sui quarantacinque anni, con moglie sterile e sgraziata: egli dotto, ma audace, ambizioso, pieno di sè, ricco; non credo deponesse l'amor dell'Italia; ma non soffrirebbe mai di tornare in convento. «Giovanni Marzio da Siena, già da trent'anni apostato, or predica a Solio in Val Bregaglia, ha moglie una veneziana smonacata, da cui ebbe due belle figliuole, or da marito; stampò qualche cosa contro la Chiesa, e fu avvocato degli eretici nella disputa di Piuro. Crederei vano ogni tentativo con lui. «Da un anno venne dal ducato di Spoleto Ferdinando di Umbria; subito sposò una giovinetta, colla quale vive in bizze; e non dubito cederebbe a lusinghe. «Marziano Ponchiera, già prete, or predicante a Vicosoprano, gran parlatore, gran bevitore, di sessant'anni sposò una giovinetta, per la quale è martellato da gelosia. Una volta volea rimpatriare, e si spinse fin a Milano, poi diè la volta indietro. È povero in canna, poichè la rendita d'un anno mangia in un mese». Detto di Rafaele Eglino e Gabriele Gerber, segue di Giovanni Luca calabrese, conventuale, or ministro a Dubino, di ventitre anni e di molta erudizione, sposò una poveretta di che presto si pentirà. Se non si può colle dolci, potrebbe farsi rapire da un pajo di armati, essendo la sua chiesa vicinissima al lago. Nè altro partito che di rapirlo propone per Luca Donato Poliziano, già francescano, ora a Traona, con trentacinque anni e tre figliuoli. «Ercole Poggio bolognese, predicante a Morbegno, ambizioso e mezzo fatuo, ha moglie un'altra Santippe, colla quale se la passa bene benchè sessagenario, nè saprebbe staccarsene. «Da un anno fissossi a Caspano un frate, che dicono piacentino e dottore in teologia; sposò una di Chiavenna, e non ne ho altra conoscenza. «Scipione Calandrino di Lucca, ministro a Sondrio, è il più pericoloso, e molti libri tradotti dal greco e dal latino invia e diffonde in Italia; ha cinquant'anni, moglie nobile, e nobile vantasi egli stesso; senza figli; gode gran credito presso gli eretici. «Cesare Gaffori piacentino, già cappuccino, or ministro a Poschiavo, di quarantacinque anni; con moglie e tre figli; parlatore, versatissimo nella Scrittura, stampò contro il Bellarmino. «Marco Eugenio Bonacino milanese e Alfonso Montedolio piacentino dianzi a mia persuasione andarono nel Tirolo, aspettando il salvocondotto per ricondursi in Italia. «Altri ve n'ha che con promesse e ragioni potrebbero trarsi alla Chiesa romana. Ogn'anno i ministri si radunan al sinodo: e per arrivarvi devono traversare un angusto passo vicino al lago di Como, ch'è di giurisdizione milanese. Si potrebber facilmente cogliere al varco»[275]. Fin qui il Borrone non è che una bassa spia; ma non manca d'arguzia ove morde i vizj de' Grigioni, nel che del resto va daccordo cogli storici, anche nazionali. La religione li divideva, li divedeva la politica: non badando alla patria, ma a donativi, pensioni, collane, decorazioni, favorivano chi questa Potenza, chi quella; divisi in due fazioni, una devota a Spagna ed ai Cattolici, l'altra a Francia ed agli Evangelici; capo di quella era Rodolfo Planta, di questa Ercole Salis, le due famiglie primarie delle Leghe. Il grosso dei Grigioni essendosi sottratto al cattolicismo, aveva in uggia l'Austria e la Spagna, e guardava l'amicizia dei Francesi come fondamento di libertà; sicchè prevalsero i Salis, e venne rinnovata con Enrico IV una lega di offesa e difesa, nella quale non facevasi eccezione veruna a favore del milanese. Con questo ducato i Grigioni nel 1603 aveano stretto una convenzione di buona vicinanza, per la quale il commercio non troverebbe impedimento; essi non consentirebbero il passo ad esercito che venisse contro il milanese; questo in compenso dirigerebbe il transito delle merci pel paese delle Leghe. All'udire dunque della nuova convenzione coi Francesi, gran lamento alzò il conte di Fuentes, il più memorabile fra i governatori spagnuoli di Milano, umore guerresco, che nel cuor della pace teneva numerosissimo esercito, e operava colle prepotenze d'un governo militare. Egli mandò minacciando i Grigioni di trattarli da nemici, e a nulla approdando colle parole, si pose a fabbricare un fortalizio, detto dal suo nome, appunto là dove la Valtellina e il Chiavennasco confluiscono al lago di Como: sicchè dominando que' passi, poteva impedire alla Rezia i viveri ed il commercio, come chiuder l'adito ad ogni esercito che di là venisse. Quella striscia di territorio spettava in fatto al milanese, ma il duca Francesco II Sforza avea stipulato coi Grigioni non si porrebbe veruna fortificazione in quel giro. Ne mossero dunque reclamo i Grigioni, ma il Fuentes, non che badarvi, finì e presidiò il forte, e coll'adunare genti e navi all'estremo del lago di Como, confermò la voce che volesse ricuperare la Valtellina al ducato di Milano[276]. Queste pratiche davano l'ultimo tuffo alla Valtellina: le Leghe vi crebbero guarnigioni; ad ogni ombra davano corpo; e subillate e sostenute dai novatori, lieti che i loro religionarj crescessero in autorità, disponevano come donni e padroni, e arrogatasi la nomina degli ufficiali, mandavano magistrati di più che bassa mano, i quali soperchiavano, non curando d'esser amati, purchè temuti. Nuovi editti vietavano le indulgenze e i giubilei, tacciavano di superstizioso il culto del paese, cassavano le dispense curiali, berteggiavano i decreti pontifizj; cacciaronsi i Gesuiti, abolendo le donazioni lor fatte; processaronsi i miracoli di san Luigi; turbavasi la giurisdizione col forzare i curati a celebrare matrimonj in gradi vietati, escludere buoni sacerdoti forestieri, obbligare tutti alle prediche degli eretici: delle quali ascoltate prima per celia, poi per curiosità, poi talvolta sul serio, l'ornamento più consueto erano rampogne contro l'avito culto, e il purgatorio e l'astinenza dalle carni: dietro al che la ciurma non mancava di rubare ostensorj e sparpagliare le particole, sfregiar tabernacoli, fare smacchi a' sacerdoti nelle processioni del Sacramento, e in quei devoti riti della settimana santa, che l'intimo dell'animo commovono a patetica devozione. Sotto la protezione dei signori, che dicevano «Credi quel che ti piace, ma fa quel ch'io ti comando», ogni tratto qualche nuovo cattolico disertava, anche preti e curati: ed essendo ordinato che, ove fossero più di tre famiglie riformate, convenisse accomodarle di ministro e di chiesa a spese comuni, i Cattolici vedeansi costretti a mantenere i predicanti co' benefizj ecclesiastici: e non compatendo la religione loro che i preti evangelizzassero dalla bigoncia dond'era sceso dianzi il ministro calvinista, conveniva si provvedessero di nuove chiese. Credendo ciascuna parte essere in possesso della verità, e l'avversaria trovarsi nell'eresia, lo zelo esacerbava gli odj da fratello a fratello, tirandosi al peggio che si facesse. Il conte Scipione Gámbara bresciano, per aver ucciso un suo cugino era fuggito a franchigia in Tirano, ed ivi tenevasi attorno una masnada di bravi. Entrò sospetto nei Grigioni ch'egli volesse dar mano a stabilire l'Inquisizione, e sbrattare la valle dai Protestanti: onde, côltolo, e coi metodi consueti, convintolo di tramare col cardinale Sfondrato e coll'inquisitore Montesanto, fu decapitato a Teglio; il suo complice Lazzaroni di Tirano squartato vivo, e le spese del processo caricate alla valle. Peggio avvenne quando Ulisse de' Parravicini Capello di Traona, che, reo di molto sangue, campava la vita sul bergamasco, osò una notte ricomparire con venti sicarj in patria, e trucidare i magistrati. L'atroce fatto seppe di ribellione ai Grigioni, e ne colsero pretesto a spicciolare altri Cattolici. La certezza d'esser in odio al pubblico faceva prendere provisioni, che lo rendevano implacabile. Qualche buon ordinamento veniva talora[277], ma di corto cadeva nell'obblio, e non rimanevano che la persecuzione, impolitica non meno che empia, e un'opposizione non sempre generosa. Morto il parroco della Chiesa in val Malenco e sepolto il tempio di colà da una frana, un Tommaso paesano adoprò caldamente per indurre que' montanari a valersi del ministro evangelico, spacciando che la parola di Cristo predicata da questo varrebbe assai meglio che la messa dei papisti, che orazioni recitate in una lingua non intesa, che preti le cui dicerie riboccan di baje, di idolatria il culto. Ma Tommaso Sassi pastore distolse i terrazzani dal cambiar religione. In Caspoggio della valle stessa, mentre i mariti estivavano sui pascoli montani, le donne seppero che i Riformati intendevano sepellire in San Rocco un loro bambino allora morto, col che avrebbero preteso d'acquistare possessione di quella chiesa. Munitesi di sassi, aspettano il funebre convoglio, e come s'avvicina, schiamazzando alla donnesca, lo tempestano di pietre. In Sondrio il governatore accingevasi ad entrare per viva forza nella chiesa cattolica, e ridurla al nuovo rito; ma un Bertolino, uomo all'antica, commise a Giangiacomo, suo figliuolo di gran cuore, che colla daga alla mano l'impedisse. Come il governatore glie ne mosse querela, Bertolino menosselo a casa, e gli improvvisò una lieta merenda: fra la quale presentossi Giangiacomo, sempre accinto della sua daga, e con un fiasco del miglior vino, che cominciò a mescere in giro alla ragunata: e fatti comparire quindici garzoni in tutto punto d'armi, «Ecco (disse) e me e questi pronti pel governatore e per la repubblica fino all'ultimo sangue, solo che non ci si tocchi la religione». Altri fatterelli rinnovavansi ogni giorno, e non sempre risolveansi in riso quando i reciproci rancori faceano pronti a correre ai risentimenti. In Sondrio degli abitanti un terzo erasi sviato dall'ovile romano; così molte delle contrade vicine; e le miste usavano due preti[278]. Dal 1520 al 1563 v'era stato intruso come arciprete Bartolomeo Salis, che contemporaneamente era arciprete di Berbenno e di Tresivio e curato di Montagna, e in nessun luogo risedeva, lasciando il gregge a pascoli infetti: de' benefizj valevasi per dotare nipoti; portò anche le armi; il che tutto agevolava la diffusione dell'eresia. Di quel tempo venne a predicarvi un frate, in aspetto di somma dottrina e pietà; e il popolo, che da gran tempo non udiva più prediche, accorse alle sue: ma ben presto egli si scoperse eretico. Se ne levò tumulto, ed egli rifuggì ai Mossini in casa i Mignardini, donde seguitava a sermonar ai nuovi convertiti. L'arciprete Salis non se ne dava pensiero, tutto blandizie verso i Grigioni nella speranza di esser assunto vescovo di Coira. E vi fu assunto, onde rinunziava i tanti benefizj in Valtellina: ma poichè l'elezione non fu confermata, si trovò sprovisto, e morì poveramente in Albosaggia. Ben altrimenti si era comportato Nicolò Pusterla, ma con sei zelanti Cattolici rapito in prigione, colà vollero dire fosse avvelenato dal governatore. Gli succedette Nicolò Rusca, nato in Bedano terra del luganese, da Giovanni Antonio e Daria Quadrio. Avea studiato a Pavia: indi nel collegio Elvetico di Milano, ove a san Carlo ne parve sì bene, che postagli sul capo la mano, «Figliuol mio (gli disse) combatti buona guerra, compi la tua carriera; per te è riposta una corona di giustizia, che ti renderà in quel giorno il giudice giusto». Fatto arciprete di Sondrio, mostrò lo zelo del buon pastore che offre l'anima per le pecorelle. Dotto di greco e d'ebraico, non che di latino; versato nella storia ecclesiastica e nella teologia, spesso agitava le correnti controversie sia in dispute coi dissidenti, sia nelle prediche dove, tutto lume della somma verità, in prima ribatteva l'errore, poi stabiliva la dottrina vera; ma nè usava egli, nè soffriva in altri le invettive e le ingiurie. Trovata la chiesa sproveduta di arredi, disusata di funzioni, muta di canti, egli rinnova tutto, introduce preghiere e processioni, ricupera i disusati beni, ripristina la disciplina delle monache; ottiene che i Cappuccini possano confessare. Si oppone alle pretendenze de' novatori, i quali, oltre esigere dal capitolo la provvigione di trenta zecchini pel ministro evangelico, volevano ch'egli cedesse porzione del suo giardino per farsene il cimitero: proibivano le processioni del _Corpus Domini_ e del venerdì santo, e il suon delle campane come pubblico insulto ai magistrati dissidenti. Simone Cabasso curato di Tirano predicava incessantemente contro Calvino, onde fu accusato e condannato. Egli si appella, e dal pretore vengono invitati Antonio Andreossi ministro di Tirano, Cesare Gaffori di Poschiavo, Antonio Mejo di Teglio, Scipione Calandrino di Sondrio, Nicola Cheselio di Montagna, perchè tengano un colloquio sopra la fede, e principalmente sopra Calvino. Da questo e da sè repulsarono la taccia di eretici, mostrando (e il Calandrino principalmente) che quel dottore non avea deviato mai dalla Chiesa quanto alla divinità di Cristo e alla sua eccellenza come mediatore, anzi l'aver egli perseguitato gli Unitarj e scritto contro Valentino Gentile. Non bastando il primo, si venne a un secondo colloquio il 1 marzo 1596; poi ad un terzo il 7 agosto; dopo il quale gli oratori grigioni sentenziarono che il Cabasso aveva calunniato, e perciò pagasse centrentadue coronati. Fra' Cattolici primeggiavano, oltre questo di Tirano, il parroco di Mazzo e Nicolò Rusca, il quale del colloquio diede a stampa una relazione (1598 Como, pel Frova). Questa parendo aliena dal vero e calunniosa quanto alle persecuzioni che gli ecclesiastici soffrivano in Valtellina, i signori Grigioni permisero ai ministri di rispondervi, come fecero con uno scritto latino, il cui titolo suona, «Della disputa di Tirano fra i papisti e i ministri del verbo di Dio nella Rezia, tenuta gli anni 1595 e 96, quattro parti, dove accuratamente e solidamente si tratta della persona e dell'officio di Gesù Cristo mediatore secondo le due nature; e si vendicano le parole di Calvino sopra la natura divina di Cristo dalle calunnie dei papisti valtellinesi; risolvonsi i sofismi del Bellarmino, e scopronsi gli errori de' Monoteliti, de' Nestoriani, degli Ariani, e d'altri; oltre la storia esattissima di quella disputa: l'indice delle calunnie dei parroci di Valtellina; la risposta ai ripetuti costoro sofismi. Autori Cesare Gaffori, Ottaviano Mej, e gli altri ministri della parola di Dio nella Rezia, or primamente stampati, e non solo degni di lettura, ma giovevoli a chiunque ama la verità» (Basilea, per Waldkirch 1602 in-4º). Nel 1596 Giovanni Marzio di Siena, pastore a Solio, avea stampato un libro italiano della Messa, che molto si divulgò. L'_Apologia della Messa_, che frà Giovanni Paolo Nazari cremonese domenicano vi oppose, fu giudicata vittoriosissima dai Cattolici, ridicola dagli altri. Si stabilì una disputa a Piuro, che fu fatta il gennajo e maggio 1597, presenti gli arcipreti di Chiavenna e di Sondrio, il Calandrino, il Marzio, il Mej, il quale fu trasferito allora dalla chiesa di Teglio a quella di Chiavenna per succedere al Lentulo. _Martello degli eretici_, quale veniva chiamato si mostrò singolarmente il Rusca allorquando i Riformati ottennero di istituire a Sondrio un collegio, del quale il rettore e tre dei cinque professori fossero calvinisti. Fin dal 1563 erasene divisato, poi aperto nel 1584 accettandovi cattolici e no; ma nessun cattolico andandovi, cadde. Quando si volle rinnovarlo, il Rusca, senza guardare in faccia nè ai Salis che lo proponevano, nè al re d'Inghilterra che dicevasi somministrar il denaro[279], attraversò questa impresa, e riuscì a sventarla, ed unire anzi un'accademia che propagasse le cattoliche dottrine. Nel 1614 l'Archinti vescovo di Como per seicento fiorini comprava la licenza di visitar la Valtellina, il che da venticinque anni era proibito, e ne mandò relazione a Paolo V. Dopo estreme lodi al paese, si consola che, in quell'esecranda libertà di vivere e dire quanto a ciascuno piace, appena tremila persone abbiano adottato la Riforma, e i popoli accorreano festosi e piangenti ad accompagnarlo. A Tirano trova da cencinquanta eretici, _vil plebe_. I cattolici di Poschiavo e Brusio tengonsi incontaminati, benchè mescolati ai Calvinisti. In Sondrio questi erano potenti per numero e ricchezza, sicchè a fatica egli vi ottenne accesso. Un terzo de' Chiavennaschi aveva abbracciato l'errore, fra cui i meglio stanti, e dalla Bregalia i Riformati minacciavano assalirlo in armi. Quando esso Archinti tenne un sinodo nel 1618, il podestà di Traona pubblicò per editto terribili pene contro qualunque ecclesiastico spedisse lettere o uscisse dalla valle: cento scudi di multa o tre tratti di corda a chi conoscendolo nol denunziasse. Perpetuo e vivo contraddittore de' loro disegni com'era il Rusca, gli acattolici miravano a torselo d'in su gli occhi. Dapprima Giovanni Corno da Castromuro, capitano della valle, lo condannò in grave multa perchè avesse rimproverato un giovane suo popolano d'aver assistito a un sermone dei Calvinisti. I Sondriesi presero le armi, e si fu ad un pelo di far sangue: onde il capitano denunziò l'affare a Coira; dove il Rusca fu assolto, ed il capitano ammonito. Vivo contraddittore gli era il molte volte nominato Calandrino, del quale nell'archivio di Zurigo conservasi un autografo, ove racconta «la lunga e costante persecuzione» dei Valtellinesi contro degli Evangelici e massime dei ministri, gli assassinj tentati, specialmente sopra di lui, imputandone chiaramente il Rusca, benchè non lo nomini. In fatto a questo apposero d'aver fatto trame con un Ciapino di Ponte per ammazzare o tradurre all'Inquisizione esso Calandrino. Il Ciapino fu messo a morte dopo orride torture, nelle quali disse aver avuto consiglio dal Rusca, cui perciò fu aperto processo. Egli ricoverò a Como; poi giustificatosi, tornò più glorioso, aggiungendosi alla virtù il lustro della persecuzione. Tanto più bramavano i nemici suoi di metterlo per la mala via, e la fortuna vi mandò tempo. Tra le brighe di Potenze straniere, ne' Grigioni pigliavano il sopravento i predicanti, e intendendosela con Zurigo, Berna e Ginevra, non cessavano di gridare doversi far nello Stato una sola religione; essere violate le costituzioni pei bocconi stranieri; bisognare qualche efficace provedimento per rintegrare la libertà, riformare il governo, e simili frasi, che sempre titillano le orecchie della plebe. Fidati nel favore di questa, sotto Gaspare Alessi di Gamogaso, da Ginevra venuto predicante a Sondrio, e destinato rettore del seminario, accozzarono un loro concilio, prima a Chiavenna presso Ercole Salis, uomo per servigi ed ingegno in gran nome, poi a Berguns, paese romancio alle falde pittoresche dell'Albula. Ivi dichiararono la fazione spagnuola funesta alla Rezia ed alla religione, micidiale l'alleanza di Francia, buona quella sola di Venezia: gridarono contro gli Austriaci, e che v'erano maneggi per quelli, e che il governatore di Milano sparnazzava denari per la Valtellina, e che per reprimerli si doveva stabilire il tribunale inquisitorio, il quale correggesse la costituzione, venuta omai in gran punto. Il popolo gli ascolta: Ercole Salis se ne fa capo: l'Engaddina e la Bregalia levansi in arme: i castelli dei Planta fautori degli Ispani son diroccati: uomini malfattori entrano a forza in Coira, e dispersi o carcerati come ribelli i preti e persone di gran bontà, conduconsi a Tusis, paese romancio a piè del fertile Heinzenberg fra il Reno posteriore e la formidabile Nolla: ed ivi stanziando le venticinque bandiere con un migliajo e mezzo di soldati, proclamano tredici capitoli per conservare la libertà, e piantano lo _Straffgericht_, aggiungendovi un consiglio di predicanti (1618). Accintisi a rintegrare la libertà politica col solito modo di togliere ogni libertà legale, una furia d'accusatori sbuca addosso a quanti erano sospetti. Le prime sette sentenze furono pubblicate da' giudici stessi con prefazione apologetica; e subito tradotte in italiano, francese, olandese, vennero dapertutto esecrate per atrocità. Giambattista Prevosti detto Zambra, di settantaquattro anni e podagroso, quasi avesse favorito l'erezione del forte di Fuentes fu decapitato: una taglia su Rodolfo e Pompeo Planta, Lucio da Monte, Giovanni Antonio Gioverio, il Castelberg abate di Dissentis, e se possano cogliersi vengano fatti in quarti: Daniele Planta, nipote dei predetti, Antonio Ruinello, Pietro Leone di Cernetz, Teodosio Prevosti della Bregalia, Giuseppe Stampa e suo figlio Antonio, Agostino Traversi e il padre Felice di Bivio, all'esiglio per tutta la vita; per quattro anni Andrea Jennio console di Coira, Antonio Molina e Gianpaolo interprete del re di Francia, Andrea Stoppani prete di Ardetz; tolti i beni e la mitra a Giovanni Flug vescovo di Coira, e ucciso se sia côlto: multata di ventimila fiorini la città di Coira, come ispanizzante; il pastore di essa Giorgio Salutz escluso dal sinodo; e tacendo varj multati, dannato a morte in contumacia il capitano Giovanni De' Giorgi; fra i Valtellinesi, Anton Maria e Giovanni Maria Parravicini e Giovanni Francesco Schenardi a morte; a quattro anni di esiglio Nicola Merlo di Sondrio e Giovanni Cilichino parroco di Lanzada, perchè avea sonato a martello quando fu arrestato il Rusca: al cavaliere Giacomo Robustello e ad Antonio Besta bando per un anno e mille zecchini: due anni e seimila zecchini a Francesco Venosta; minor pena a Giovanni Battista Schenardi e Francesco Paravicino d'Ardenno, che settagenario e infermiccio non potendo esser alzato sulla corda, ebbe serrati i pollici in un torchietto; ma stette saldo a negare. Il dottore Antonio Federici di Valcamonica, mutatosi per opinioni religiose in Valtellina, ove prese moglie a Teglio e si fe protestante, diede voce che Biagio Piatti, cattolico infervorato di questo paese, avesse subornato un fratello di lui ed altri della Valcamonica, perchè venissero e uccidessero i Protestanti di Boalzo mentre assistevano alla predica. Il Piatti fu arrestato con supposti complici; e messo alla tortura, confessò quanto si volle e fu decapitato: intanto che un fratello di esso uccideva Paolo Besta che aveva recato l'ordine dell'arresto: mandaronsi uffiziali che cacciassero di Valtellina gli oratori quaresimali, assistessero i pretori nell'applicare gli editti de' signori, istituissero processi di maestà. Marc'Antonio Alba di Casal Monferrato, predicante di Malenco, a capo di quaranta satelliti, la notte del 22 giugno avea côlto il Rusca nella sua arcipretura, e per l'alpestre via di Malenco e dell'Engaddina lo strascinò a Tusis. Nel primo furore i Sondriesi per far rappresaglia si voltarono addosso a Gaspare Alessio predicante, ma s'era ridotto in salvo: diressero una deputazione a implorare per l'arciprete, e non fu ricevuta: i Cantoni cattolici e Lugano sua patria mandarono Gian Pietro Morosini a perorarne la causa; ma il tribunale gli rinnovò l'accusa dell'attentato contro il Calandrino; poi di avere subornato il popolo a non ubbidire alle Tre Leghe: cercato tornar al cattolicesimo i Riformati, tenuto carteggio col vescovo e con altri; esortato in confessione a non prender servizio contro il re cattolico; aver istituita la confraternita del Sacramento, che sotto le devote cappe portava micidiali armi. Invano gli avvocati suoi lo scolpavano: aver operato bensì che si mitigassero i decreti pregiudizievoli alla cattolica religione, non però tramato mai contro il governo: col Calandrino non aggrezze, ma aver usato cortesie, visitandolo talora, e prestandogli anche libri. Qual pro delle difese quando già è prestabilita la condanna? Il ben vissuto vecchio, disfatto di forze e di carne, fu messo alla tortura due volte, e con tanta atrocità, che nel calarlo fu trovato morto. I furibondi, fra i dileggi plebei, fecero trascinare a coda di cavallo l'onorato cadavere a seppellir sotto le forche, mentre egli dal luogo, ove si eterna la mercede ai servi buoni e fedeli, pregava perdono ai nemici, pietà pe' suoi[280]. Ciò avveniva il 4 settembre 1618; e quel giorno fu segnalato da un gravissimo disastro naturale, la distruzione del bello e ricco borgo di Piuro, sepolto da una frana con tutti gli abitanti. Pensate se si mancò di vedervi un'immediata punizione del Cielo. Poco poi il tribunale a Coira cassò gli atti di quel di Tusis, ma i morti non tornano più. Il popolo dal terrore alla pietà, poi allo sdegno passò; e prima parlottar segreto, poi aperte querele, e venire pel più leggero appicco a parole, a sassi e coltelli. Avendo voluto i Grigioni impiantare una chiesa evangelica in Boalzo e Bianzone, s'opposero di forza i Cattolici; e per vendetta di Biagio Piatti, ammazzarono un Riformato di Tirano, maltrattarono il predicante di Brusio, _primizie de' martiri_[281]. Anche al Calandrino, mentre predicava a Mello, una banda s'avventò, e lo ferì gravemente[282]. Anzi avendo i predicanti, dopo la pasqua, tenuto la solita loro accolta in Tirano, i terrieri in armi s'erano rimpiattati al ponte della Tresenda per trucidarli; ma essi ne sentirono a tempo per ripararsi. Così i signori vivevano timorosi e tremendi; nei sudditi covava un'irosa speranza, e fra il silenzio della paura udivasi quel sordo rumore dello sdegno di Dio che si appressa. I colpiti dal tribunale di Tusis empirono di lamenti il mondo, e più la Svizzera e la Lombardia, e com'è stile de' profughi, trescavano per introdur armi straniere nella Valtellina non solo, ma nella Rezia. Dal duca di Feria, nuovo governatore del milanese, e dal Gueffier ambasciadore di Francia ricevevano subdoli incentivi: cercavano muover l'irresolutezza delle Corti d'Austria e di Spagna; al papa inviarono non una sola volta, ed esso li confortava ad una pazienza che pareva omai intempestiva ai fuorusciti, i quali, gridando giunta al colmo l'oppressione della patria, confortavano i Valtellinesi a levarsi una volta per la causa santa. Che i Riformati si fossero giurati a trucidar i Cattolici, e ridurre alla nuova religione la valle, scrittori cattolici lo affermano; e che il governatore di Sondrio si fosse lasciato sfuggire di bocca, non andrebbe molto che sarebbero tutti d'una fede. Nelle suppliche sporte dal clero e dal popolo di Valtellina al re cattolico ed al cristianissimo si asserisce questa congiura; possibile ardissero mentire così sfrontatamente in faccia a quelle corone? Parrebbe anzi che alle suppliche ne unissero le prove[283]. Ma perchè, mentre si conservarono esse suppliche, perì il documento? come, fra tanti fasci di carte, che ad altri ed a me non parve fatica rovistare, questa non si rinvenne? Ben si ragiona di qualche lettera, ma vaga e d'incerto autore e scoperta miracolosamente, e che, piuttosto d'acquistar fede a questa congiura, la fa credere uno spediente, consueto anch'oggi, quello d'accusare la parte che soccombette, coprendo l'atrocità colla calunnia, e ammantando di difesa il misfatto. Era tempo di rivoluzioni; e se queste non misurano mai i mezzi, allora ancor meno, quando la discordia religiosa aveva abituato ai delitti: la Francia, dopo il macello della notte di san Bartolomeo, erasi agitata fra guerre terribili, che appena allora avevano posa: l'Olanda scotevasi sanguinosamente dal giogo della Spagna in nome della religione: in nome di questa la Boemia rompeva guerra all'imperatore: tutta Germania era sossopra per quella che poi si chiamò guerra dei trent'anni. Quanto l'esempio ecciti la passione della guerra, delle stragi, delle rivolte non fa mestieri ch'io 'l dica; nè dovette essere allora inefficace sui Valtellinesi. Giacomo Robustelli di Grossotto, parente dei Planta perseguitati, perseguitato egli stesso, nobile, agiato, d'animo gagliardo, e di quell'ambizione che de' sagrifizj altrui sa fare vantaggio proprio, servendo nell'armi, era da Carlo Emanuele di Savoja stato fatto cavaliere dei santi Maurizio e Lazzaro e molt'aura si era acquistato tra' suoi coll'affabilità e la splendidezza, sicchè parve opportuno centro alle trame per liberare la patria. Accozzati nella propria casa a Grossotto alcuni Valtellinesi di maggior recapito e di spiriti più vivi, ai quali pareva lodevole il far libera la patria, o utile il comandarla, o santo il purgarla dalla eresia, esclamavano essersi sofferto abbastanza: dai padri nostri ne fu lasciata una patria da amare, un patrimonio da difendere, leggi da conservare. E la patria e i beni e le leggi e, che più monta, la fede, ci hanno codesti stranieri tolto o contaminato. Chetare le speranze in Dio è lodevole quando cresca stimolo alle forze, non quando sia pretesto a cessar dalle opere. Centomila cattolici, quanti ne abitano dalle fonti del Liro a quelle dell'Adda, elevano un voto solo; ducento milioni di cattolici in tutto il mondo aspettano da noi esempio, e ci preparano applausi e soccorsi. Noi dunque concorde volere; noi sdegno generoso; noi magnanime speranze: noi armi giuste perchè necessarie, formidabili perchè impugnate per la patria e per gli altari. Il papa ci benedice: Spagna ci appoggia: la discordia de' Grigioni ci favorisce. Se l'occasione fugga, chi più la raggiungerà? Torna meglio morire una volta, che tremar sempre la morte. Cadremo colle armi alla mano? il mondo ci compassionerà, ci ammirerà come martiri, come eroi. Sopravviveremo alla ben condotta impresa? quanto sarà dolce nei tardi nostri anni dire ai figliuoli: Noi pugnammo per la patria e per la fede: se liberi, se cattolici voi siete, è merito nostro. Così prevalendo i consigli esagerati, giurarono ridurre le vendette ad un colpo, e fare a pezzi quanti eretici natii o stranieri respirassero nella valle. Il capitano Giovanni Guicciardi di Ponte, spedito per amicare il cardinale Federico Borromeo, il duca di Feria[284] e gli altri magnati del governo milanese, ne ottenne tremila doppie[285] con cui assoldò esuli e gente d'ogni risma pel primo sforzo. Traverso alle penose incertezze che dividono una fiera risoluzione dal suo attuamento, ed a quei casi che sempre vi si interpongono, venne la terribile alba del 19 luglio 1620, quando a Tirano cominciossi a scannare e fucilare, e ben sessanta persone vennero in diversa foggia tolte dal mondo, fra cui tre donne; le altre ed i fanciulli perdonati se abbracciassero la cattolica fede. Il Robustelli, entrato a Brusio in val di Poschiavo, schioppettò da trenta riformati, poi mise fuoco al paese; falò, diceva egli, per la ricuperata libertà di religione[286]. Guai se il popolo comincia a gustare il sangue! I Venosta, i Quadri, i Besta, i Torelli, i Parravicini scannavano intorno a Teglio, a Ponte, in Val Malenco, a Sondrio; sopratutto infierivano coi predicanti e i rifuggiti. Bortolo Marlianici, Giovan Battista Mallery di Anversa, Marcantonio Alba predicante in Malenco perdettero la vita; l'Alessio campò con Giorgio Jenatz predicante di Berbenno ed altri. Francesco Carlini vicentino, da frate mutato in predicator calvinista, fu mandato all'Inquisizione ove abjurò: Paola Beretta, ottagenaria già monaca, inviata anch'essa a quel tribunale, resistette e fu arsa viva. Anna di Liba da Schio vicentino, fu trucidata con un bambino alla mammella: altre donne ancora e nella florida e nella cadente età, furono passate per le spade. Giovan Antonio Gallo di Gardone, fabbricatore di schioppi, per due giorni si difese, poi côlto nella fuga, venne attaccato a un albero e preso a fucilate. Andrea Parravicini da Caspano, preso dopo molti giorni, fu messo fra due cataste di legna e minacciato del fuoco se non abjurasse: durando costante, fu arso vivo: e si videro spiriti celesti aleggiargli intorno a raccoglierne lo spirito[287]. Nè fu questo il solo prodigio, onde le due parti pretesero che il Cielo ad evidenti segni mostrasse a ciascuna il suo favore. Ignobili affetti presero il velo della religione; contadini e servi piombarono sui loro padroni, i debitori su cui dovevano, i drudi sui cauti mariti. Poi per molti giorni, come bracchi entrati sulla traccia, mettevansi fuori all'inchiesta i villani con forche e picche e moschetti e crocifissi tutt'insieme. Non moveali religione, bensì quel furore che accompagna le fazioni, iniquamente incitato da fanatici capi, che pretessevano a questi orrori il nome del Dio della pace, il sostener una religione, che deve essere propagata con armi incolpate, colla santità degli esempj, coll'efficacia della parola e della grazia, col morire non coll'uccidere. Fanatici frati e sacerdoti, l'arciprete Parravicini di Sondrio aizzavano la moltitudine. Battista Novaglia a Villa tre di sua mano ne scannò: frate Ignazio da Gandino venne a posta da Edolo: il Piatti curato di Teglio attaccò il dottor Federici di Valcamonica _e fatto il segno della croce quale portava nella mano sinestra e una spada nella destra, ammazzò detto dottor calvino con altri seguaci_[288]: il domenicano Alberto Pandolfi da Soncino, parroco delle Fusine, con uno spadone a due mani guidava il suo gregge a trucidare i fratelli di quel Cristo, che aveva detto _non ucciderai_. Molti per forza si apersero il varco e fuggirono; alcuni giunsero a Zurigo, dove ebbero chiesa particolare, e rimane la nota delle persone che vi si salvarono, cioè una di Tirano, due di Teglio, sedici di Sondrio, fra cui padovani e vicentini, sei dai monti vicini, fra cui Marta vicentina, due di Berbenno; di Caspano e Traona novantatre, fra' quali un Sadoleto; una di Mello, quattro di Dubino. Vincenzo di Bartolomeo Paravicini di Caspano fu ministro di quella chiesa, alla quale si aggregarono i profughi di Val di Monastero; approvata dal senato, ottenne d'adoprar la lingua italiana finchè al senato paresse: nelle sole domeniche tenessero prediche in italiano, e in ore diverse dalle tedesche; i sacramenti e la benedizione del matrimonio non si facessero che nelle ordinarie congregazioni tedesche; le preci si formassero e recitassero secondo il rito zuricano. Poi nel decembre 1621 ottennero di ricever la Cena da ministri esuli di Valtellina e Chiavenna; di tenere due sermoni la settimana, ma non, come domandavano, di elegger due anziani valtellinesi e due chiavennaschi per assister i poveri, nè d'avere un custode proprio della chiesa: raccomandavasi di acquistar l'uso del tedesco, come pare facessero, giacchè dopo tre anni la chiesa italiana vi cessò. Degli uccisi l'appunto non si può dire; essendo chi li scema e chi d'assai li cresce oltre i seicento: poche decine erano grigioni, gli altri indigeni o rifuggiti d'Italia, il che mostra come tanto meno fosse necessaria la strage. Ma di tempo in tempo gettasi tra' popoli un furore simile alle epidemie, durante il quale ogni riparo di ragione, ogni consiglio di prudenza esce indarno: quasi per una adamantina fatalità bisogna che si compia il reato, che si colmi la misura, che trovi chi l'ecciti prima, l'applauda poi, per lasciar in appresso il pentimento quando dalla colpa e dal delirio germogliano inevitabili la miseria, l'oppressione, il tristo disinganno e il tardivo pentire. Ma sulle prime non si ebbe che l'esultanza del trionfo e le congratulazioni di popoli e principi, come poi di storici[289]. I Valtellinesi, scancellate le impronte della retica dominazione, si diedero un governo provvisorio, e cominciarono a far decreti: pigliare al fisco i beni de' Grigioni, restituire la patria agli sbanditi, i possessi alle chiese, i conventi alle monache, chiamare il vescovo a far la visita, e frati a predicare e confessare: accettare il calendario gregoriano, la bolla in _Cœna Domini_, il concilio di Trento, l'Inquisizione contro gli eretici; levare il seminario acattolico e le ossa di eretici dai cimiteri; e prometteano soffrir tutto, anzichè tornare alla scossa dominazione. Il contado di Bormio era stato immune dalla strage: ma per essere _quella santa risoluzione a Dio dedicata_[290], anch'esso venne a quel che chiamavasi il partito santo, il partito di Dio. Quei di Poschiavo non aveano preso parte al macello, ma più tardi vedendo non potere altrimenti liberarsi dai Protestanti, meditarono scannarli: e Claudio Dabene, cameriere del Robustelli, fiero di lingua e di mano, entratovi uccise quanti potè sorprendere: del che domandato in giudizio, fu sostenuto a Tirano, ma ben presto dimesso. Leggo nello Sprecher e nel Quadrio che il curato fosse complice dell'assassinio; ma più volentieri credo al cronista Merlo, il quale racconta che esso curato Beccaria aprisse il presbitero per ricoverarvi gli eretici cercati a morte. I Valtellinesi in generale ragunata sortirono al grado di capitano della valle e governatore Giacomo Robustelli, con ducento scudi il mese «per aver cominciato l'impresa di nostra libertà con sue gravi spese e danno»: suo luogotenente il Guicciardi; e sentendo imminente il pericolo, sfondarono i ponti, bastionarono borgate, steccarono accessi, fecer uomini, armi, denaro; mandarono ambasciadori ai Cantoni Svizzeri, al nunzio apostolico in Lucerna, al papa, all'arciduca Leopoldo d'Austria, e lettere a tutti i popoli cattolici, per loro mentosto giustificazione che vanto. Più tenevano raccomandati al duca di Feria i soccorsi che diceano promessi: ma mentre gli altri governi temeano da questo sangue la prevalenza di Spagna, il duca spagnuolo stava colle mani giunte o non volesse far manifesto d'aver intesa coi Valtellinesi in quel che la coscienza riconosceva per gran misfatto, o attendere finchè avessero dato segno di valore, prova di fermezza, speranza di esito prospero, e mostrato se dovesse il mondo chiamarli ribelli od eroi. I Grigioni, che in Chiavenna stavano in grosso numero, come intesero la strage, ebbero tempo di pararsi in difesa, e farsi dai natii giurar fedeltà; onde quel contado rimase immacolato di sangue. Il governo grigione, si affrettò alla vendetta, e chiesto l'ajuto de' confederati, tremila uomini spedì per la Spluga a Chiavenna e per Chiavenna in Valtellina[291], e schivando o sperdendo le opposizioni, grossi ed impetuosi voltarono sopra Sondrio, dove altri giungevano da val Malenco. Fuggiti i natii, essi v'entrarono, uccisero due infermi trovati, e n'ebbero i mirallegro da alcune donne, le quali, salvatesi col fingersi cattoliche, ora gettavano a' loro piedi i rosarj e gli scapolari, di che s'erano fatto scudo. Ho sempre creduto il più inutile uffizio della storia il divisare per minuto i casi delle guerre; tanto, mutati i nomi, è uniforme questa scienza de' figli di Caino: dapertutto invasioni e fughe, incendj di paesi, racquisti, vittorie, sconfitte alterne, furti, violamenti, sangue, lacrime, terrore, desolazioni dei vincitori non men che dei vinti; e la forsennata umanità applaudire a chi più versa sangue. Lasciando dunque le particolarità al vulgo degli storici, e cogliendo i sommi capi, diremo come il Feria, veduto che ai Grigioni davano soccorso e i Cantoni protestanti e la repubblica di Venezia, in modo che la guerra minacciava i confini della Lombardia, mandò giù la visiera, gravò il Milanese in novecenmila lire, ottenne che Madrid dichiarasse la valle sotto la protezione reale, e bandì guerra ai Riformati. Paolo papa offrì ottantamila scudi d'oro, bramoso di mettere una barriera all'eresia; i predicatori in Milano esortavano i fedeli all'impresa che denotavano col titolo così spesso e stranamente abusato di crociata. Tutta Europa si mise in ragionamenti di politica per quell'angolo d'Italia, piccolo sì, ma che per la sua postura faceva gola a troppi potentati. Imperocchè la Valtellina, come dicemmo, dall'estremità occidentale tocca il Milanese, dall'opposta il Tirolo; gli altri due lati confinano il meridionale coi Veneziani, l'opposto coi Grigioni; ed è noto che allora un ramo austriaco imperava in Germania, un altro nella Spagna, nel Nuovo Mondo e in tanta parte d'Asia; possessi nella cui immensità andavano smarriti il Milanese e il Napoletano. Cadeva la Valtellina alla Spagna? ecco aperto e spedito un passo, onde tragittare qualunque esercito dalla Germania in Italia, assentissero o no gli Svizzeri ed i Grigioni. Che se in tal modo si fossero dato mano i dominj austriaci dalla Rezia fino alla Dalmazia, avrebbero tolto in mezzo la Venezia e gli altri Stati italiani, impedendo a questi i soccorsi esterni, e rendendosi arbitri della penisola. Il papa sperava in quel torbido pescare grandezza alla Chiesa od ai nipoti: la Francia, come sempre, agognava di surrogar la sua alla potenza austriaca. Dall'altra parte i Riformati della Rezia, di Svizzera, di Germania, d'Olanda, fin d'Inghilterra sostenevano gli antichi dominatori, loro correligionarj; i predicanti in ogni paese narravano con esagerazione l'assassinio, chiedendone vendetta, a nome non solo della fede, ma dell'umanità. Non è dunque meraviglia se per la Valtellina si travagliassero tanti Stati con tutto lo sforzo dell'imperio e dell'autorità. I Grigioni, respinti sulle prime, calarono più grossi e accanniti sopra Bormio; ed unendo cupidigia e crudeltà al fanatismo religioso, piacevansi profanare quanto i Cattolici avevano in venerazione; nella marcia vestire piviali, tunicelle e cotte; sfregiare e bersagliare le immagini devote; illaidire i lavacri battesimali ed il sacro pane; coi crismi ungersi gli stivali; mutilare sacerdoti, menar danze nelle chiese al profanato suono degli organi, usare a desco i calici e le patene. Poi grossa e brava battaglia a Tirano l'11 settembre 1620, durò otto ore, finchè i Valtellinesi ebbero la migliore; più di duemila fra Grigioni ed ajuti si dissero periti chi di ferro, chi nell'Adda, e fra essi il colonnello Florio Sprecher e Nicola da Myler, capo degli ausiliarj bernesi, che in sul partire per la guerra, toccando i bicchieri co' suoi amici, avea promesso di riportar loro tante chierche di papisti, quante anella contava una sua lunga collana d'oro. Ucciso lui, quella collana fu mandata in trofeo al governatore Feria. La vittoria, anzichè al valor confidente di chi combatte per la patria e per la religione volle ascriversi a prodigio, asserendo che la statua dell'arcangelo Michele posta versatile sul pinacolo del santuario della Madonna, per quanto durò la pugna, contro ai Grigioni si tenesse rivolta, benchè contrario spirasse il vento, minacciosamente vibrando la spada. Il Feria fece stampare tal prodigio, e mandollo a Madrid insieme con un'immagine dei santi Gervaso e Protaso, che sulla facciata della chiesa di Bormio, fatta bersaglio delle fucilate, n'era rimasta illesa. La vernata chiuse di nevi e ghiacci i passi: onde sostando il pericolo, si venne in quel secondo stadio delle insurrezioni, dove gl'intriganti sottentrano ai convinti. Agitavasi il destino della valle da politici, da giureconsulti, da teologi; e mentre tanti ponevano in campo ragioni sopra di essa, la Valtellina mandava al papa, ai re, alle repubbliche, affinchè la conservassero indipendente. Più che i soccorsi e la diplomazia a gran vantaggio di essa tornavano i lunghi odj civili delle Tre Leghe, ove Cattolici e Riformati, Salis e Planta si contrastavano fieramente, men per fede e patria che pei raggiri di Spagna e di Francia. A maneggi e ad armi soprastettero in fine i Cattolici, ed il Feria usò questa sbattuta a pro della sua corona, lasciando i fiacchi nelle peste, e conchiudendo in Milano una perpetua lega (1621 6 febbrajo), a condizione che la Valtellina tornasse ai Grigioni con buoni patti, e i Grigioni concedessero libero passo alle truppe spagnuole. Veneziani e Francesi sbigottironsi di questo incremento della Spagna, onde s'accingeano a rialzare i Grigioni, e restituire loro la valle in piena signoria. I potentati e Gregorio XV, succeduto papa e subillato da persone gelose dell'austriaca potenza, scrissero al re di Spagna, quasi fosse turbatore della comune pace, e supplicandolo perchè rendesse le cose di Valtellina in punto di comune soddisfazione. E l'imbelle Filippo IV, per non aver aria d'invadere l'altrui, nè soperchiare la libertà italiana, stabilì in Madrid che la valle ritornasse ai Grigioni nell'antico assetto di cose, demoliti i forti, levati i presidj, perdonata la ribellione: il re di Francia, gli Svizzeri e i Vallesiani stessero mallevadori pei Grigioni. Ne fremettero gl'insorgenti, gridandosi traditi da chi gli aveva mossi, e l'accordo non ebbe luogo perchè gli Svizzeri ricusarono farsi garanti. Si fu dunque di nuovo sulle armi; dodicimila Grigioni irrompono nel Bormiese, saccheggiando da barbari e fanatici. Ma il governatore Feria erasi accontato coll'arciduca Leopoldo, e mentre questi invadeva i retici confini, egli veniva su per la Valtellina, accolto a stendardi sciorinati, a saluti di trombe, d'artiglierie, di campane, acclamato il protettore, il liberatore. All'ancipite pericolo i Grigioni eransi ricoverati in casa, e gli Spagnuoli inseguendoli, aveano messo il fuoco a Bormio, di settecento case sol tredici lasciando illese; tanto e amici e nemici parevano in gara di far male. Anche da Chiavenna snidolli il Feria, e gli incalzò per la val del Reno e per la Bregalia. Il generale Baldiron con diecimila Austriaci occupa l'Engaddina e Coira stessa; d'ogni parte cacciati gli eretici, presa vendetta delle antiche ingiurie, respinti i Salis; e dopo scene compassionevoli di assassinj fraterni, le Dritture furono staccate dalla Rezia e poste a dominio austriaco. Tal frutto coglieano delle loro dissensioni. I Grigioni ai cenni del vincitore stipularono in Milano una perpetua confederazione colla Spagna, concedendo passo libero alle truppe di questa; quanto alla Valtellina, godesse piena ed assoluta libertà civile e religiosa, pagando il tributo di venticinquemila scudi: acattolici non vi potessero dimorare, e dentro sei anni dovessero vendere quanto vi possedevano: l'arciduca manderebbe alla valle un commissario per rendere la giustizia. Chiavenna, sgombrata dagli Spagnuoli, fu ceduta ai Grigioni: ma poichè questi non mandavano ufficiali che tenessero ragione, si provide d'un governo suo proprio. Così parevano rassettate le cose: ma gli emuli dell'Austria, che contavano come perdita ogni guadagno di essa, e quelli che sempre in lei videro la più pericolosa nemica dell'italiana libertà, mal soffrivano acquistasse alla cheta un passo così ambito all'Italia; mentre dalla Rezia poteva, per l'Alsazia e pel Palatinato del Reno, conquista sua recente, spedire qualunque esercito nelle Fiandre ove la guerra imperversava. I principi italiani ne tremavano per la propria indipendenza: al duca di Savoja rincresceva che più non fosse mestieri ricorrere a lui per ottenere un passaggio ch'e' sapea farsi pagare: ai Veneziani il vedersi rapito il frutto di un'alleanza comprata a peso di zecchini: tutti gridavano contro gli Spagnuoli quasi, col titolo di religione, insidiassero gli altrui possedimenti. Col vezzo antico degli Italiani di ricorrere alla Francia ne' loro frangenti, e dei Francesi di professarsi tutori delle italiche libertà, questi con Savoja e Venezia, formarono una lega contro casa d'Austria per sostenere il trattato di Madrid, e rimettere i Grigioni in possesso della Valtellina. Il re di Spagna, per non crescersi altri nemici, calò ad un di mezzo, cioè di consegnare i forti della valle al papa, il quale dovesse custodirli con genti proprie, ma a spese della Spagna, finchè le due corone vi prendessero un partito decisivo. Orazio Lodovisi duca di Fiano, nipote di Gregorio XV, occupò i forti co' Papalini, cioè con una mano di banditi e di ribaldi, il 29 maggio 1623. Ne seppe assai male al _partito santo_, che vedeva prepararsi lo sdrucciolo per restituire la Valtellina, salvo il decoro della Spagna; ma misero chi non ha dal canto suo che la ragione, e commise le proprie sorti a fede di re e a maneggi di diplomazia! Sapeva pur male ai Veneziani che ingrossassero o il re o il papa, il quale lasciava trapelare l'idea di costituirne un principato ai suoi parenti. Ma successo Urbano VIII, propenso alla Francia, in Avignone si combinò lega tra Francia, Inghilterra, Danimarca, Venezia, Olanda, Savoja ed i principi di Germania a danno della Spagna e dell'imperatore, singolarmente per costringerli a restituire il Palatinato del Reno e la Valtellina[292]. Una consulta di teologi aveva proferito che il papa non poteva in coscienza rimettere i Cattolici sotto eretici, con urgente pericolo delle anime; ma il re cristianissimo gli intimò che o demolisse i forti della valle, o li restituisse alla Spagna, affinchè egli potesse, senza offesa delle sante chiavi, entrare armatamano in quel paese, per richiamare a libertà i Grigioni, e sottrarli dal giogo austriaco. I Grigioni si trovavano all'ultimo tuffo. Gli Austriaci vi avevano perseguitato i Riformati, singolarmente i ministri, rapite le armi; mandato colonie di Cappuccini tedeschi nel Pretigau, a Tavate, a Coira, di milanesi nella Pregalia, di bresciani in Val Santa Maria, sostenendone l'apostolato colla forza: molti rimasero martiri fra questi, molti martiri fra i Protestanti. Quando si volle a forza costringere quei del Pretigau ad usare alle chiese cappuccine, ruppero a schiamazzi: e «Questo è troppo; morremo senza patria, senza libertà, ma salviamo almeno le anime nostre». Fuggirono dunque nelle selve: donde con falci e coltella e sassi e mazze precipitaronsi addosso agli Austriaci il giorno delle palme 1622, esultando fin le donne allo sterminio dei tiranni della patria loro[293]. Le armi del Baldiron e del Feria ricomposero per allora la quiete: ma il Feria, alla Corte di Madrid era scaduto di credito come primo autore di questo moto della Valtellina, che alfine non partoriva che guai; ed il papa, i timori dicendo sottili invenzioni spagnuole, non volle ricevere in Valtellina guarnigione austriaca. Se così pensava da vero, il fatto lo disingannò, avvegnachè il Cœvres, che fu poi maresciallo d'Estrée, spiegata bandiera francese, entrò in Coira, così ordinato dal Richelieu ministro di Luigi XIII; restituì a libertà le Dritture, cacciò il vescovo, rimise il primiero stato, e difilossi sopra la Valtellina, donde i Papalini si ritirarono. Quivi conchiuse un accordo coi deputati della valle, promettendo gli alleati la proteggerebbero, i Grigioni non entrebbero nei forti, solo restandovi sinchè fosse stabilito un ragionevole governo: intanto si solleciterebbe una decisione finale. Il Robustelli, adoprato invano a difesa della patria, che avea tratta in così infelice ballo, si ridusse sul milanese; la valle tutta fu occupata dai Francesi, fra l'esultanza dei tanti che chiamano liberazione il cambiar di signori. Grand'apprensione ebbe allora il Feria non volessero i Francesi, mentre l'aura era destra, calare sul Milanese, e ritogliere parte de' suoi a chi aveva voluto occupare i possessi altrui: onde difese i passi. Poi i maneggi diplomatici condussero una concordia, praticata in Monçon città dell'Aragona il 6 marzo 1626, dove, per quel che riguarda la Valtellina, si stabilì vi si conservasse la religione cattolica, ridotte le cose allo stato del 1617; i natii eleggessero i proprj magistrati e governatori, senza dipender dai Grigioni: toccasse però a questi il confermare gli eletti entro otto giorni, e ricevere un annuo censo di venticinquemila scudi d'oro: le fortezze fossero rimesse al papa da demolire: Grigioni più non entrassero armati nella valle, nè gli Spagnuoli tenessero forze oltre le ordinarie alla frontiera milanese. Questo trattato salvava il decoro della Spagna, la quale pareva avere proveduto alla religione ed alla libertà di quei popoli. Ma non era ancor tempo. Imperocchè i Grigioni chiedevano si osservasse il trattato di Madrid, aizzati dai predicanti, da Venezia, dalla Francia; mentre in Valtellina il partito santo spingeva ad ordini rigorosi contro gli eretici, pubblicava i beni dei ricaduti; e molti coperti riformati o dall'Inquisizione o dagli zelanti erano fatti capitar male. E la natura delle cose portava che i Cattolici, trovandosi spalleggiati, soprusassero ai dissenzienti[294], se non altro in parole. Abbiam lettera di frà Giovanni da Martinengo predicatore in Ponte, che a Giovanni Bongetta e Filippo Battista detto Sfodego ed altri di Sondrio, il 18 marzo 1627 annunziava: «Ho inteso le orrende bestemmie che voi ed altri eretici uomini e donne che sono in Sondrio dite contro la santa fede cattolica nostra. Ero risoluto senz'altro di venir al debito castigo, ma voglio peccare con voi di soverchia misericordia. Pertanto questa mia servirà a voi ed altri eretici per dolce invito alla fede cattolica. Quando non vogliate, fate che subito tutti siate fuor della valle e confini; altrimenti guai a voi se m'aspettate là; che al sicuro il minimo castigo ha da essere il fuoco e fiamme. Se mi domandate con quale autorità scrivo e minaccio, dagli effetti v'accorgerete di quello posso e voglio fare per nettar affatto la valle di simil peste...». Si stabilì anche il Sant'Uffizio, e nell'ottobre 1628 si decretò che tutti gli acattolici fra due anni dovessero vender quanti beni sodi possedessero in Valtellina, e andarsene, pena la vita. Il vescovo Caraffino, venuto in visita, dai Protestanti trasferì in altri i livelli della sua mensa, benchè n'avessero pagato il canone. Nel 1631 essendo morto di peste il ministro di Poschiavo, esso Caraffino scriveva ai signori di colà il 16 gennajo: «Nel progresso ch'ha fatto il mal contagioso in cotesta terra e nel rimanente della mia diocesi, intendo che sua divina maestà abbi levato di vita il predicante di costà. Segno evidentissimo che abbiamo della sua misericordia verso di noi. E perchè corrispondiamo tutti dal canto nostro con soddisfare al debito, mi è parso scriver la presente alle signorie vostre, e di avvertirle di non permetter che entri più nel contado simil peste, opponendosi virilmente..... sicuri che, oltre l'assistenza che avremo da Dio benedetto, io dal canto mio non solo gli porgerò tutti gli ajuti immaginabili, anco col mandare quantità di gente ad opponersi insieme con loro alla resoluzione d'essi eretici, ma bisognando me ne verrò in persona, come prontamente farà anche il reverendo padre inquisitore con tutti li suoi familiari a prendere ed il ministro e li fautori e anche quelli che non avessero pienamente soddisfatto al debito loro in opponersi». Era scoppiata intanto la guerra pel possesso del Mantovano, disputato fra i duchi di Nevers, eredi dei Gonzaga, sostenuti da Francia; i duchi di Savoja, sempre attenti ad ampliarsi; e gli Austriaci, sempre vogliosi d'impedirlo. Il duca di Nevers, profittando della recente convenzione di Francia coi Grigioni, per la Valtellina passò coll'esercito sul Veneto, e andò a toglier possesso del ducato. Da altre intanto delle valli Alpine sbucavano soldati francesi, spagnuoli, savojardi a disputarsi il tristo onore di spogliare ed avvilire questa povera Italia, premio ognora della vittoria. L'imperatore Ferdinando, per fare smacco alla Francia e sostener, egli austriaco, le austriache ambizioni, mandò trentaseimila fanti e ottomila cavalli, guidati da Rambaldo Collalto; truppe terribili sempre, allora viepeggio pel timore della peste che serpeggiava. Il grosso di costoro per Lindau era venuto nel Chiavennasco onde calarsi sul Milanese: e spargendosi per la Valtellina, oltre i latronecci, vi diffusero la peste, flagello aggravato dai lunghi patimenti della guerra e dalla recente carestia. Per libri altrui e miei, divenuti popolari, sono conosciutissime quelle miserie, nelle quali da una parte crescevano i pii legati ed i voti; dall'altra, non che farsi migliori alla terribile voce del castigo divino, peggioravansi i portamenti degli uomini, che, insultando al Dio che flagellava, godeano della vita che fuggiva, del disordine che regnava, degli averi che nei superstiti si accumulavano. Noi ai gran savj del nostro secolo vorremmo raccomandare di non permettere mai queste orride sciagure naturali. In primo luogo, essi vantano l'onnipotenza dell'uomo fin a domare la natura, un avvenire di godimenti quando esso avrà tolte le cause di distruzione, incatenati gli elementi: ma ecco un torrente, una scossa di terre, un morbo che s'attacca all'uomo, alla vite, alle patate, un'avversità di stagione, dissipa le gioconde previsioni, e attesta una mano preponderante, e quanto precario sia il possesso dell'uomo su questa crosta che copre un incendio. Secondariamente le gravi sventure sono il giorno del prete, del frate, della carità; cose tutte che i gran savj del nostro secolo denno ingegnarsi di screditare; e d'impedirne quell'ingerenza, che divien tanto efficace quanto benedetta in simili casi. Ed anche allora, quando il vivere era un'eccezione, quand'era un eroe chi rimanesse al posto destinatogli dalla Provvidenza, se al male v'avea qualche rimedio lo porgeva la carità cristiana. Al clero si erano concesse amplissime facoltà; non pochi con ispontaneo sagrifizio esponeano nell'assister i malati la vita temporale per acquistare altrui l'eterna; i Cappuccini dì e notte erano ove li chiamasse il bisogno altrui: essi ad apprestare cibi e medicine, rassettare i letti, vegliare i moribondi, trasportarli, nettarli, profittare di quei terribili momenti, che sogliono far trovare la coscienza anche ai più perduti d'anima, e mandare i morenti confortati nella speranza del perdono. In Tirano singolarmente infierì la morìa, e gli infermi si fecero collocare in un palancato attorno al tempio della miracolosa Madonna, fidando d'averne conforto al corpo o all'anima; consolati almeno di morire ove bramavano. Si erano colà nel 1624 stabiliti i Cappuccini, e fin ad uno morirono a servigio degli appestati: altri sottentrarono volenterosi alle loro cure, a morire anch'essi. Dare la vita per fare del bene! a queste azioni ti riconosco, o religione, che sola crei i martiri dell'amore. A prevenire ed a curare il malore si erano dati provvedimenti, quali buoni, quali superstiziosi, quali esecrabili. Sequestrare i malati, durare le quarantene, non comunicare con alcuno, portarsi in mano ruta, menta, rosmarino, aceto, un'ampolla di mercurio, che credevasi assorbisse gli effluvj contagiosi. E poichè ne' grandi flagelli, dove non si osa bestemmiar la Providenza, sentesi il bisogno di sfogar contro alcuno il brutale istinto dell'odio, e della superbia umiliata dall'impotenza, la pubblica opinione, mostro terribile nei tempi perversi o negli imbecilli, asseriva che uomini malvagi con malìe ed unzioni propagassero la peste: e molti paesi soffersero il miserabile spettacolo di untori, non solo trucidati a furia di popolo, ma processati, convinti e mandati ai peggiori strazj. Bormio avea posto divieto che nessuno osasse passare nell'Engaddina, ove il contagio infieriva. Nelle guardie del cordone incappò un contadino che l'aveva trapassato; e che confessò come, trovandosi la donna sua inferma, e dubitandolo effetto di stregheria, si era condotto di là per consultare coll'astrologo di Camosasco; vulgar uomo che se l'intendeva col diavolo, e che di fatto aveagli dato a vedere in un'ampolla tre persone, che avevano fatto l'incantesimo alla sua donna[295]. Ignorante o maligno, il contadino nominò una povera vecchia, che catturata e domandatane alla corda, incolpò se stessa e denunziò molt'altri. Il giudice di Bormio istruì il processo, facendo, per sicurezza di coscienza, intervenire l'arciprete Simone Murchio; e col consenso del vescovo di Como furono decapitati ed inceneriti trentaquattro fra uomini e donne[296]. Così e folli guerre, e tremendi contagi, e pazzi pregiudizj concorrevano ad affliggere ed esterminare la miserabile umanità. La peste cessò, non i mali della Valtellina, corsa da soldati che andavano alla tremenda guerra de' Trent'anni. Quest'agevolezza di inviar truppe facea più increscere la Francia del nuovo possesso della rivale: onde levossi alfine risoluta di liberare l'Italia, titolo solito (diceva il Ripamonti) onde i Francesi valicano le Alpi; i Francesi (soggiunge egli) ai quali punto credere non si dovrebbe, essendo gente inquieta, e che vuol gli altri inquietare[297]. Il duca Enrico di Rohan, il più compito gentiluomo del suo secolo, come capo de' Riformati aveva con forza e genio tenuto testa al Richelieu, il quale potè fargli perdere il favor della Corte, ma non la riputazione di capitano eccellente: colla quale e con dodicimila pedoni e millecinquecento cavalli passò per Basilea e Sangallo fin a Coira, ed entrato per Chiavenna, senza difficoltà occupò la Valtellina. Tosto vengono Tedeschi da Bormio, Spagnuoli e Milanesi dal forte di Fuentes; da' cui rincalzi il Rohan è costretto ritirarsi nell'Engaddina. Quivi rinnovato di forze, rientra, agita terribili battaglie, vince, e mentre avea buono in mano, precipita sopra le Tre Pievi all'estremità settentrionale del lago di Como, e postele a sacco e fuoco, s'inoltra, finchè nei castelli di Musso e di Lecco trovò tale resistenza, da abbandonar l'impresa per impossibile. Francia, smaniata di togliere all'Austria quel passaggio, sollecitava i Valtellinesi, promettendo sottrarli affatto dai Grigioni, redimerli fin dallo stabilito censo incaricandosene ella stessa, e concedere giustizia propria, unica religione. Ne venne sentore a' Grigioni, i quali altamente adontatisi che il re gli accarezzasse solo in quanto gli giovavano contro gli Austriaci, abbandonarono di tratto l'alleanza del cristianissimo, e si volsero a Spagna. E Spagna, non avendo maggior desiderio che questo, non istette ad assottigliare sulla coscienza, accettò, ebbe di nuovo in mano la fortuna della Valtellina, e non si fece scrupolo di sagrificarla per saldare l'alleanza coi Reti. Il marchese di Leganes, nuovo governatore del milanese, profondeva cortesie ai Grigioni ambasciadori, niuna ai Valtellinesi: chiese al vescovo di Como se colla religione cattolica fosse compatibile il dominio grigione, e questi rispose del sì, nè diversamente avea deciso una congrega di teologi in Ispagna. Già nel castello di Sondrio s'era messo presidio grigione. Del che fremendo i Valtellinesi, erasi da certuni proposto di avventarsi di bel nuovo nell'armi, scannare i pochi nemici in paese, e far da sè, gettata ogni fiducia di soccorsi da Francia o da Spagna. Pareva ottimo quel che non era più a tempo. Perocchè non più vettovaglie, non denaro nè credito: la peste del 30, rinnovata cinque anni dipoi, aveva decimata la popolazione; in tutti era quella stanchezza che suole succedere alle forti commozioni, come al delirio furente il delirio tremante; e che fa guardare come minor male il chinar la testa, e pregare Dio che la mandi buona. Il governatore Leganes coi deputati reti ultimò l'affare in Milano il 3 settembre 1639, restituendo ai Grigioni la Valtellina coi patti e salvi compresi in quaranta articoli, i cui termini principali erano questi: — Nessuno venisse riconosciuto pei fatti corsi dopo il 1620: cassate le procedure di Tusis; le finanze, le tratte e le consuetudini tornino come avanti l'insurrezione: gli uffiziali, dal vicario della valle in fuori, vengano eletti dai signori Grigioni, e la sindacatura se ne faccia in paese: degli statuti del 1549 sono derogati nominatamente quelli intrusi a danno della fede e delle immunità ecclesiastiche: unica religione la cattolica, operando in ciò come gli Svizzeri ne' baliaggi italiani: non Inquisizione: vescovo, preti, frati esercitino sicuri i loro ministeri: non vi fermi dimora alcun Protestante, se non sia magistrato. A ciascuna delle tre leghe dovea la Spagna pagare millecinquecento scudi l'anno, e mantener sei giovani a studio a Milano e a Pavia: libero a soldati austriaci il transito per la valle, e a niun altro. Rato e stipulato, egli informò i Valtellinesi dell'accordo. Cadde il fiato a tutti in udirlo: gridarono contro il vescovo Caraffino; parodiavano il nome del Leganes in _liga-nos_; s'appellarono, protestarono, ultimo rifugio dei soccombenti: il grancancelliere alle loro lagnanze rispondeva, non essersi potuto ottenere di meglio; gli stranieri davano ad essi ragione, ma nulla più. Questo capitolato formò la base del gius pubblico della Valtellina verso i suoi padroni, e la misura dei dritti e dei doveri reciproci. I Grigioni tornarono nell'intero possesso, e dicasi a loro lode, moderatamente. Il cavaliere Robustelli, benchè affidato di pace e di salute, non sofferse d'obbedire cogli altri ove agli altri avea comandato: e disse addio alla patria, cui più non poteva giovare. Non mancò chi gli affiggesse il titolo che gli Italiani serbano a chi non riesce, di traditore. Le cose però non potevano passare di cheto dopo tanto astio e sangue: e sarebbe un non finir mai il ripetere le lagnanze de' Valtellinesi per le violate convenzioni. I Riformati, benchè avessero divieto dal paese, crescevano di giorno in giorno: la sola piccola Mese dopo un quindici anni ne contava cinquanta: quattro famiglie n'erano a Tirano, tre a Teglie, altrettante a Cajolo, il doppio a Traona, nove a Sondrio, due a Berbenno, dodici a Chiavenna, altre altrove di buona parentela, a non contare gli artigiani e i forestieri: e questi vivere alla libera, facendo gabbo dei divoti e de' riti: ed i magistrati ledere le immunità del clero, proibire il ricorrer a Roma, pretendere la rivelazione delle confessioni, tenere in palazzo a Sondrio conventicole di predicanti, e industriarsi d'introdurli. Anzi i Riformati aveano chiesto alla Dieta grigia di potervi avere tre chiese. Intanto i ricchi tenuti sempre in colpa, per ismungerne denaro; assolto chi pagava; processati due ragguardevoli sondriesi perchè avessero usato la parola eretico e lo stesso arciprete perchè congregò alcuni caporioni a prendere partito sopra questa cattura[298]. I Riformati però non ebbero più il vantaggio nella diocesi comense, e libertà di riti tennero solo a Poschiavo e Brusio, terre che anche oggi appartengono alle leghe grigie, benchè di lingua italiana e cisalpine[299]. Ivi i Riformati sono un terzo, ed in questa proporzione si distribuiscono gli impieghi: essendo il podestà due anni cattolico, uno riformato, e così delle altre cariche e delle beneficenze. Vivono in buona concordia e tolleranza, e noi vedemmo assai tra gli Evangelici assistere ai riti dei cattolici con modestia. I pastori delle due chiese riformate sono spediti dal capitolo dell'alta Engaddina. Nel concistoro, che tengono ogni anno i pastori della Rezia per turno, sopravveduto dal decano, approvansi i ministri, e si danno a vicenda consigli sulla fede e sui costumi. Seguono la confessione retica e l'elvetica, ma ne' loro catechismi variano assai anche in punti fondamentali; alcun che del luterano vi s'introdusse talvolta, fin a conservarsi il sacramento e portarlo agli infermi; s'era anche proposta la confessione auricolare, ma tutto dipende dai ministri; laonde questi da alcuni anni ebbero istruzione di non trattare mai di dogma, ed attenersi alle sole verità pratiche. E deh sia presta l'ora che rinverdiscano i rami, e il sacro sangue della redenzione unisca essi pure in un solo ovile sotto un solo pastore. NOTE [255] Questi non era già da Saluzzo; ma nacque il 1504 a Puntvilla in val di Monastero. [256] Sono la XIV e la LIII delle _Epistolæ ab ecclesiæ helveticæ reformatoribus, vel ad eos scriptæ; Centuria 1 ex autographis recensuit ac edidit_ JOHANNES CONRADUS FRESLINUS. Zurigo 1742. [257] A Vicosoprano, dopo il Maturo, troviamo registrati come parroci Giulio da Milano, Aurelio Sittarca già domenicano, Giambattista di Teglio, Tommaso Casella genovese, Lorenzo Martinengo dalmata, Francesco Trana, Martin Poncera, Alberto Martinengo verso il 1600. È notevole che gli storici della Valtellina trasvolarono queste origini del protestantismo nel loro paese: parmi che il Lavezzari non nomini tampoco il Vergerio. [258] Su Giulio da Milano vedasi SCHOELHORN, _Ergötzlichkeiten_, Stück 5. Ciò che discorriamo in questo capitolo fu da noi esposto altre volte nella _Storia della diocesi di Como_, e nel _Sacro macello di Valtellina_. Opera capitale in proposito è la _Historia Reformationis ecclesiarum ræticarum ex genuinis fontibus et adhuc maxima parte numquam impressis, sine partium studio deducta.... a_ PETRO DOMINICO ROSIO DE PORTA, T. 2. Coira 1771. Quanta possa essere l'imparzialità si rivela dalla dedica_ — Almæ matri — ecclesiæ J. C. — vocatis sanctis — venerandis ampliss. ac magnificis communitatibus — in exc. trium Rætiæ fœderum rep. — religionem — ad ss. evangelium reformatam — fidem semel sanctis traditam — corde tenentibus — ore profitentibus — opere defendentibus — Dominis suis clementissimis — beatæ reformationis — historiam — in devotæ mentis monumentum — dedicat._ E nella lettera seguente, sempre in latino, dice: «Se v'ha benefizio, pel quale noi e i figli nostri a Dio siamo eternamente obbligati, è certo la riforma... Ad essa dobbiamo l'aver cacciata la crassissima ignoranza che avea coperto il nostro cielo di tenebre cimerie». E parlando delle difficoltà della sua opera, duolsi che fossero, anche al tempo suo, negletti gli studj, e che «i preti cattolici non intendeano altro che messe e purgatorj, cioè quel che serve alla cocina: gli Evangelici credono aver fatto ogni dovere quando recitarono una predica imparata a memoria». Tali prevenzioni non promettono l'imparzialità, che in fatto si desidera sempre. Pure quest'opera sì poco conosciuta è delle meglio importanti del secolo passato, lontanissima dallo sprezzo che allora faceasi della storia; cercando la verità negli archivj e ne' carteggi privati, divisando il carattere degli attori, descrivendo i luoghi, mostrando continuamente amore alla patria, alla religione e al proprio soggetto. Si lagna della pochissima attenzione che gli prestarono i suoi compaesani, del non averlo ajutato, nemmanco per la trascrizione; e non tenuto conto del suo lavoro — modi troppo abituali anche oggi, e massime dov'io scrivo. [259] Del Muzio abbiamo parlato a lungo. Egli scrive che «legge alcuna nè di patria, nè di principe, nè interesse di avere e di vita all'onore non debbe esser anteposta», _Risposta III_. Uno dei più assidui cercatori delle memorie istriane, il Kandler, nel 1861 mi scriveva d'aver fatto molte ricerche sul Vergerio, ed esser venuto nella persuasione fosse «uno sfortunato, che non seppe regolarsi nelle agitazioni mosse da quel birbo suo conterraneo e compagno di gioventù, che fu Girolamo Muzio. Tutta quella storia mi è sembrata guerra di Francescani, mossa al vescovo per vendetta d'avere scoperte e punite certe irregolarità. Il Vergerio non fu preparato alle cose di Chiesa; da più di dieci anni era vescovo, senza aver neppure la tonsura; e contro voglia si pose al governo di chiesa, o dovette porsi; credo avesse più udito parlare della fede protestante che della cattolica, occupato come fu sempre in diplomazia. Nè fu miglior protestante; incerta assai la sua fede; sol fermo nel voler conservare la dignità episcopale, di cui il titolo mai non volle deporre; teneva, contro la Corte romana, or coi Reti, or coi Polacchi, or coi Tedeschi, mai però non dimenticando l'appanaggio d'un buon benefizio. Sarebbe anche rientrato in seno della Chiesa se avesse potuto recuperare l'episcopato. Le persecuzioni che patì furono da' suoi patrioti; dal Grisoni sopra gli altri, dallo Stella, dal Muzio; l'Inquisizione, ch'era in mano di Francescani, fu attivissima; processi, carcerazioni, abjure, liste di eretici, di ereticanti, di sospetti d'eresia; si dissero infetti i monasteri, le fraglie, i capitoli, i letterati; ma in fondo a tanto rimescolamento rimase la credenza, fossero cattiverie ed esagerazioni; gli esuli, o perseguitati contro ragione, od avventurieri che cercavano con quell'abito qualche fortuna. «Tutto questo baccano doveva, a mente dei novatori, produrre l'alzamento della lingua slava, contando convertire gli Slavi fra la Giulia e Costantinopoli, onde si stamparono assai cose. Ma gli Slavi non sapevano leggere, e sol tardi lo seppero; i caratteri, fusi a spese de' Protestanti, passarono per caso a Roma, e servirono a stampare messali e breviarj». Fra le opere anonime o pseudonime del Vergerio è quella _Delle commissioni et facultà che papa Giulio III ha dato a monsignor Paulo Odescalco comasco, suo nuncio et inquisitore in tutto il paese dei magnifici Grisoni, 1553_. Stampò pure _Illustri atque optimæ spei puero D. Ebherardo ill. principis Christophori ducis Wirtembergensis filio primogenito, munusculum, 1554_. Ma Celio Curione dice ch'è traduzione di un'opera di Giovanni Valdes. [260] L'attesta in una lettera da Zurigo, 4 giugno 1558 a Federico Salis, lagnandosi che altrimenti gli avesser fatto dire i fratelli di Lelio Soccino. Vedi DE PORTA, P. II, pag. 392. [261] In altra lettera spiega che costui era Pietro da Casalmaggiore. _Mus. Helv._, Parte XIX, pag. 489. [262] Diamone un saggio: _Remissionem peccatorum,_ _Credo etiam, certusque cano, intrepidusque repono_ _Unius haud aliis quam Christi sanguine sacris_ _Placatum semel, afflictis mortalibus ipsum_ _Condonasse Deum peccatum quidquid ubique est,_ _Christigenas ut nulla usquam fortuna moretur_ _Durior, aut trepidas tortura piacula mentes_ _Usque adeo adscribi magnum est in pignora summi_ _Chara patris, Christi auspiciis, nil tale merentes_ _Carnis resurrectionem._ _Quin fateor ventura olim nova secula, quando_ _His vetus indomitis ardescet in ignibus orbis_ _Cunctorum in pœnas et tristia fata malorum._ _Tum vero sanctorum hominum clarissima moles_ _Carnis in æthereum mutabitur altera sortem,_ _Cognatæque illis terrenæ ab origine labes_ _Seu functi repetant vitam, seu forte supersint,_ _Cunctarum omnipotens rerum quid non queat auctor._ [263] Del Castalion savojardo, l'opera principale è la traduzione latina e francese della santa scrittura. Calvino l'ebbe amico, poi l'ingiuriò per le sue idee sulla predestinazione, e per aver disapprovato la punizione degli eretici. [264] Il De Porta reca questa lettera per tutta lode del Mainardi, _veridicum et liberalem_. [265] Abbiamo questo curioso decreto: «Per ordine del reverendissimo Federico Corner vescovo di Bergamo, e dei reverendi Aurelio Odasio de' predicatori, inquisitore della città e distretto di Bergamo, s'intimi ai magnifici cavalieri Gerolamo e M. Antonio fratelli del N. S. Antonio di Grumello, e alla M. signora Medea loro madre, che, tre giorni dopo fatta questa intimazione, sotto pena di scomunica e di cinquecento zecchini da togliere a chi di loro disobbedisca, e applicarsi alla fabbrica del Sant'Uffizio, debbano licenziare dalle case loro il sig. Ercole Salis, che da alquanti giorni dimora nella loro casa; e ciò per urgenti ragioni ecc. Bergamo, dal palazzo vescovile, 18 aprile 1572». [266] Fra altro erasi stampato Mestrezat _Sur la communion de Jésus Christ dans la Sainte-Cène_, tradotto da Vincenzo Parravicini di Como. [267] È nell'archivio arcivescovile di Milano una lettera del curato di Morbegno, Pietro Carati, del 3 ottobre 1571 al cardinale Borromeo, dove gli dice che, «mentre vi sta un predicator luterano per li fuorusciti forestieri, che pur son pochi», egli è da dodici anni parroco di Morbegno, e vi si tenne sempre: ma ora teme non poter più durarvi, attesa la gran carestia che domina, per la quale non ha abbastanza onde vivere e soccorrere i tanti poveri che vengono alla sua porta. Pertanto lo supplica d'ottenergli di cavar dallo Stato alquante some di formento senza pagar le tratte. [268] Nel 1584 Gregorio XIII raccomandava caldissimamente ai Cantoni cattolici le cose di Valtellina. _Accepimus conari catholicæ ecclesiæ hostes Sondrii hæreticorum scholas et collegia constituere, jamque hac de causa legatos misisse. Obsistite, rogamus, tanto studio quantum virtus pollicetur, quantumque Christi causa exposcit: nihil audebunt, vobis invitis, moliri; vos vero ad eam laudem, quam in valle Mesolcina retulistis, hanc quoque maximam adjicietis. Tota denique Valle Tellina, Clavenna, cœterisque locis quibus potestis, catholicæ religionis catholicorumque hominum causam suscipite, etc._ 28 aprile: e di nuovo ai 29 novembre. AP. THEINER. [269] Vedasi la costui lettera 21 aprile 1550, e GOSSELINO, _Vita del Gonzaga_, f. 62. [270] Di Milano, 24 maggio 1584. «In materia dei negozj Grigioni scrivo assai pienamente al signor cardinale Savello. La lettera al solito le viene aperta, per informazione di lei; ma oltre ad essa, vi sono alcuni particolari, ch'ella avrà qui allegati per poscritto, pur nella medesima materia, ed ora gliene dirò d'un altro moto più secreto di tutti, il quale sebbene è stato conferito meco da questo governatore confidentemente e con ogni secretezza, niente di meno ho giudicato bene scriverlo a vossignoria solamente, acciocchè ella lo faccia sapere a nostro signore, e non ad altri, come per avviso. Sappia adunque che i popoli cattolici di Valtellina, afflitti ed oppressi nelle cose della religione cattolica dal governo e dominio de' signori Grigioni, l'anno passato fecero ricorso a' ministri regj qui in Milano per esser ajutati ad uscir di tanti travagli, e per poter vivere cattolicamente, come si conviene, senza gl'impedimenti che hanno sentito e sentono negli ajuti spirituali. E per far questo non dimandavano se non il soccorso di quattrocento fanti per pochi giorni, li quali dicono esser abbastanza per levarsi in un tratto da quella ubbidienza, e serrare i passi a' Grigioni che volessero passar di qua de' monti: mostrando aver modo assai facile per mantenersi poi colla gente della Valle. Scrissero questi ministri al re; ed egli ora ha risposto che si dia loro l'ajuto che dimandano, ed ogni altro per ajutarli nelle cose della religione cattolica in quei paesi dove ci sia questo interesse. Fuori di questo rispetto, non si moverebbe per modo alcuno. Ora avutasi questa risposta, i ministri suddetti hanno soprasseduto fin adesso per veder l'esito del negozio della Lega, il quale ora che è svanito, vedo che andranno pensando se lor possa riuscire questo: il che quando fosse, ho speranza in Dio che in pochi anni si farà tanto frutto in quella valle e paesi tutti di qua da' monti, che si smorberà quasi quella peste eretica. Ma quando anco non riuscisse, vedranno i Grigioni da questa commozione che in ogni modo que' popoli non potranno durare in quello stato; e stando in continuo dubbio di trattati simili, per non darne loro più occasione, si risolveranno alla fine di permetter loro la libertà che dimandano. Nel qual caso ultimo che, risentitisi i popoli suddetti, con le armi in mano, se pure questa libertà per la quale si moverebbono, non seguisse, e le cose fossero in rumore e rivolta, V. S. sappia che l'ambasciatore di Francia, che è negli Svizzeri, ha sopraintendenza di tutti i negozj del suo re ne' paesi de' Grigioni, e con esso ho fatto diversi ufficj per l'ajuto spirituale di detti popoli sudditi; ed egli mi si ha mostrato animatissimo di ajutar le cose cattoliche, e specialmente il loro giusto desiderio. E però crederei in quel caso, con l'opera di detto ambasciatore che entrerebbe come mezzano fra i signori ed i sudditi, ed anco con l'intrinsechezza ch'io ho con li Cantoni cattolici degli Svizzeri, che si farebbero intendere per la protezione di essi sudditi, con procurare la libertà suddetta, e trattare e conchiudere fra loro la concordia, anco con molto vantaggio per la religione cattolica. Quando all'incontro la cosa riesca con pace e quiete, mi dà l'animo di ottener dal re che si contentasse di restituire quei paesi a' Grigioni, con condizioni molto gagliarde per la fede nostra; poichè egli ha dato risoluzione a' suoi ministri di non volersi ingerire in simil negozio, se non quanto che tocca alla religione cattolica. In questa materia io non m'impaccio in modo alcuno, e mi riguardo tanto maggiormente dal non cercarne altro, quanto che penso che ora vi si attenderà, ed io non tengo per ajutare quei popoli altra via che la spirituale. Di qua fo fare generali e particolari orazioni a Dio signor nostro, acciocchè se n'abbia buon successo, a gloria del suo santo nome; ma non si palesa perciò la qualità del negozio. Così desidero che V. S. faccia costì, raccomandandolo molto ai religiosi e ad altri, e facendolo anco raccomandare da' predicatori, ma copertamente. «Io poi coll'occasione che ho da far qualche frutto ne' paesi degli Svizzeri, come della visita di Locarno, che n'è bisognoso molto, e mi se ne fa istanza, ed in altri luoghi anco di là da' monti, come della consecrazione della nuova chiesa de' Cappuccini del colonnello Lussi, sì per mantenere vivo il buon desiderio di detti popoli sudditi, e sì per mantenere l'opinione che hanno avuto fin ora di me, ch'io vada, come in effetto vo, solamente per il loro bene spirituale, come anco per esser più vicino e presto a ogni rumore che succedesse di armi, anderò trattenendomi in quei contorni, dove avrò anco occasione di trattar col suddetto ambasciatore di Francia presenzialmente, acciocchè si ottenga questa libertà cattolica in quelle valli, o per la via già indirizzata con lui, per la quale si farà anco ogni diligenza opportuna, massimamente che il nuncio di nostro signore in Francia mi avvisa che il re gliene manderebbe commissione, per l'istanza ch'egli ne ha fatto, di commissione di sua santità; ovvero non essendo successo quest'ultimo negozio, ed essendo già suscitati i tumulti, si rimedii per via d'accordo, come ho già detto». [271] SPRECHER _Pallas_, lib. VI, p. 177. BUCELLINI, _Rhætia Christ_. Nell'archivio diplomatico di Firenze, carteggio di Milano, trovai lettera del cav. Modesti, che ai 9 luglio 1590 scriveva in cifra: «Queste parole mi fecero ricordare di quel che, già sei anni sono, quando io venni qua, intervenne ad un infelice gentiluomo mercante milanese, al quale fu dato carico e denari secretamente, senza passar mai per scrittura, acciocchè assoldasse tanta gente che bastasse a impadronirsi della Valtellina; e non avendo potuto avere effetto il trattato, i Grigioni saltarono su a dolersi, e questo pover uomo, dopo lunghi sbattimenti fu mandato in galera. E mi ricordo che vidi una mattina sua moglie con alcuni suoi piccoli figliuoli gettarsi ai piedi del duca di Terranova, governatore di Milano, e domandare per sè e per li minori misericordia, e che s. e. la ributtò quasi con il piede, e le disse che non era stata poca la mercede che al marito egli avea fatto, poichè non l'avea fatto morire: ed è più chiaro che non è il solo che da lui fu eletto a quella impresa e per quello effetto datogli denaro». E il 27 marzo 1591, raccomanda alla granduchessa «una figliolina di Rinaldo Tettone, banchiere di questa città, che pe' suoi negozj andò a traverso, e fu necessitato assentarsi, e lasciò la moglie qui con alquanti piccoli figliuoli. In questa sua tenera età balla tutti i balli, suona onestamente di liuto e di clavicordo singularmente, canta di musica, e intavola ella medesima i madrigali, e scrive ragionevolmente». [272] _Disput. Tiran._, pag. 75. [273] RIPAMONTI, _Hist. Mediol._; BALLARINO, _Felici successi de' Cattolici in Valtellina_. «Papa Gregorio III, mosso da compassione e zelo, coll'interposizione del cardinal san Carlo, nell'anno 1581 persuaso a Carlo di Terranova di sorprendere la Valtellina, e per verità seguiva se in quel mentre non moriva il detto cardinale». _Manuscritto nell'archivio vescovile di Como._ [274] Wir Gemeiner Dreyen Pünden ecc. «Noi delle eccelse tre Leghe commissarj e consoli, congregati a Davos, d'ordine e comando de' nostri signori e superiori delle Comunità, facciam noto che sono comparsi avanti il nostro consiglio li nostri cari confederati reverendi signori Giorgio Latzino e l'ecc. signor don Andrea Ruinelli, li quali ci hanno proposto qualmente, già molti anni sono, nella riformazione della nostra chiesa fu da noi nelle pubbliche Diete ordinato a tutti li predicanti del nostro dominio e giurisdizione di Valtellina e contado di Chiavenna, quaranta scudi; de' quali sinora bisognavano contentarsi. Ma stante la presente continua carestia, ci supplicano, in compenso della loro fatica e fedel servitù di accrescergli il loro annuo salario, per poter più agiatamente campare. «Avendo dunque considerata e ponderata detta causa, affinchè il servizio non sia impedito, e che li ministri siano tanto meno gravati di spese e vitto quotidiano, «Ordiniamo e comandiamo che a tutti i predicatori di Valtellina e contado di Chiavenna (benchè ne fosse uno o più per Comune) sia per il loro annuo stipendio pagato senz'altra condizione scudi cinquanta, sino ad altro ordine de' superiori; «Comandando perciò a tutti i nostri officiali di Valtellina e contado di Chiavenna presenti e futuri, che paghino a tutti li predicanti di dette nostre provincie il sopranominato salario di cinquanta scudi, o dei beni di chiesa o delle Comunità, ad arbitrio e beneplacito de' superiori, sotto pena della disgrazia a qualunque a questo nostro ordine, contrafarà. «In fede di ciò abbiamo la presente nostra sentenza in più copie pubblicata e suggellata col sigillo delle Dieci Dritture. «Datum Davos, li 22 ottobre 1588. PAOLO BÜL Notajo in Davos. [275] Vedi DE PORTA, vol. II. Anche l'arciprete Schenardi di Morbegno, in uno scritto latino sul _propagare la fede cattolica nella Rezia_, suggeriva che, quando i ministri eretici, ogni ottava del _Corpus Domini_, venivano a celebrare i loro conciliaboli, nel ritorno fossero côlti in imboscata a Bocca d'Adda, e mandati a Roma. Al 23 giugno del 1568, il residente del granduca di Toscana a Milano scrive a questo: «Ha da sapere V. E. che in Oltolina et altre terre de' Grigioni era un predicante luterano scelleratissimo, che già fu frate mendicante dell'ordine de' Minori. Il quale per le sue male qualità fu condannato al fuoco, sendosi egli ritirato a predicare ne' Luterani. Il quale era avvisata sua santità che incognito veniva in questo Stato, e in tutta Lombardia a fare diversi mali ufficj, per il che ella ha procurato, per quello che intendo, che si facesse ogni esatta diligenza, come s'è fatto dall'Inquisitore per porlo prigione, sendo egli stato condotto ai confini di questo Stato, e dicono li nostri, dieci passi nella giurisdizione dello Stato, dove è stato preso. Il che inteso da' Grigioni, che pretendono la captura si è fatta sopra la loro giurisdizione, dopo alcune diligenze che dicono aver fatte con S. E. e l'Inquisitore, non vedendo seguir la liberazione di detto frate, si ha avviso ch'hanno fatto porre prigioni molti frati che si trovano in un monastero d'Oltolina, sotto il loro dominio, pubblicando che il medesimo che patirà il detto suo predicatore, lo faranno patire a loro, et oltra di ciò hanno protestato in iscritto a' confini e con li Svizzeri loro confederati, d'ogni danno che perciò potesse seguire». Questo raccolgo dall'Archivio diplomatico di Firenze: dal quale ho pure un aneddoto intorno al famoso santuario di Einsidlen, appartenente ai Grigioni. Gedeone Strucker, il 27 settembre 1614, così scriveva al granduca: «Essendo io partito li 24 di settembre di Santa Maria d'Hermitte (_Einsiedelen_), due giorni appresso havendo un bredicatore bredicato secundo il solito, è stato un burghese di Zurichio presente, mentre che il ditto bredicatore attendeva alla sua bredicatione, quel Zurichese dette una mentida con alta voce. Subito fu il preso dela guardia et fatto brigione, et il popolo se dubitorno ch'el saria truncato la testa, o per il mancho fenduta la lingua, ma la giustitia è statto misericordioso, et hanno sentenziato che alla dominica prossimo dele 28 di settember egli debeno menar alla hora della bredica sopra il pergamo, et redire la mentita data, et ch'el habia parlato falsamente, come un tristo mentitor, et dimandar perdono al bredicatore et alla giustizia et a tutti cattolici auditori quali sono stati presente. Quando fa bel tempo, se bredica sopra una bela campagnia, avante una capela, et circondato con la guardia, et compagnato nel tempio della dita guardia, et recompagniato con torggie, et singulare reputatione, circa lontano dal tempio una buona tyrata d'argebuso». _Arch. dipl. di Firenze._ [276] Quando il Fuentes minacciava i confini nel 1606, Ercole Salis ambasciadore presso la signoria veneta, eccitava questa a sostener i Grigioni nell'impedire questa pericolosa congiunzione di Stati. Il doge rispose, dolendosi delle molestie tante recate dal Fuentes, e che il senato riposava nella prudenza de' Valtellinesi, «volendo credere che in quel paese dove si lascia che ognuno viva nella vocazione che Dio lo ispira, non debbano li pretesti di religione far quegli effetti che il Fuentes desidera». Il senato, allora in subuglio per l'interdetto, decretò ai Grigioni tremila ducati il mese. [277] Vedi il patto stipulato nel 1587, rinnovato nel 1604, fra i Cantoni svizzeri e Filippo II per assicurare la religione cattolica nelle terre già comasche, _ap._ LUNIG, _Cod. dipl. ital._ I, p. I, sect. 2. [278] L'arciprete Rosca lasciò scritto: «Li principali della comunità di Sondrio erano la maggior parte eretici. Triasso, Ponchiera, Piazza, Colda, Cagnoletti, Arquino, Riatti, Marzi, Gualzi, Colombera, Sandrini, Pradella, Triangia, Ligari, Majoni, Bassola erano tutti cattolici. Sondrio, Ronchi, Gualtieri, Aschieri, Prati, Mossini e Moroni sono misti, e però si servono di due ministri, i quali tendono in Sondrio e nella contrada de' Mossini». I Marlianici erano i principali calvinisti. [279] Il sig. C. J. Kind (_Die Reformation in den Bistümern Chur und Como_) mi imputa di aver detto ma non provato che il re d'Inghilterra desse denari per sostenere gli eretici in Valtellina. Oltre esser la cosa verisimile, leggo nella lettera di Pietro Paolo Vergerio, 8 marzo 1551, al Gualterio: «Dite al Bullingero che l'ambasciadore del serenissimo re d'Inghilterra, che è in Augusta, mi ha scritto di sapere che sua maestà mi vuol dare qualche ajuto onde io possa continuare a far la guerra al diavolo». Delle cose di Valtellina si occupa spesso il carteggio fra il cardinale Borghese, ministro di Stato a Roma, e il Bentivoglio nunzio a Parigi. Nominatamente il 20 luglio 1618 quegli ripeteva come bisognasse esortar i Cantoni cattolici e la Francia a proteggere i vescovi di Sion e di Coira, confinanti coll'Italia e molto molestati: e massime dacchè i Grigioni aveano eretto un loro collegio a Sondrio, «il che è cosa pestifera non solamente a quella valle, ma all'altre vicine del bergamasco e bresciano, e per conseguenza all'Italia». [280] Scrisse la vita del Rusca Giambattista Bajacca. Frà Riccardo da Rusconera di Locarno ne stampò il martirio nel 1620 ad Ingolstad; qualificata per libro infame dal De Porta, il quale non ha contumelie bastanti contro il Rusca, e reca certi versi di uno di Norimberga, ove è messo a fascio con Ravaillac, Ridicovio, Girard, Clement, Lopez ed altri _quos secta, propago_ _Cocyti, cœlo perfricta fronte sacravit_ _Martyres, heu reguum cultris qui viscera ledunt, etc._ Ne fece un poema (_il Parlamento_, Como, Arcione, 1610) Cesare Grassi comasco, che in un altro rozzo poema (_Il popolo pentito_ ib. Frova 1639) descrive i mali del suo tempo. [281] Così un libro intitolato «Vera narratione del massacro fatto dai papisti rebelli nella maggior parte della Valtellina, messa in luce per la necessaria informatione et ammonitione a tutti i Stati liberi, e per esemplo a tutti i veri cristiani di perseverare nella pura professione del santo evangelio. Beati coloro che sono perseguitati per cagione di giustizia, perciocchè di essi è il regno de' cieli». [282] DE PORTA II, 483. [283] «Fu fatta una congiura da' predicanti et Grigioni, la quale s'esibisce separatamente alla M. V., nella quale fu risoluto d'ammazzare il clero et nobili della valle... col giorno et hora ne' quali doveva il tutto essere eseguito». [284] Che i banditi Grigioni avessero intelligenze anche col governator di Milano non ne lasciano dubbio i carteggi dei granduchi di Toscana, dove sono divisate tutte le pratiche dei Planta, del Zambra, di Cristoforo Carcano e del prevosto della Scala, che a Milano era centro e anima di tutti quei maneggi. Un Beroldinger, che in Isvizzera facea gli affari de' granduchi, scriveva il 17 dicembre 1619: «Nelli Grisoni le cose sono ancora irresolute, però con più avantaggio delli Luterani che de' Cattolici. Tuttavia si tratta una sollevazione per servizio delli Cattolici, e potendosi quella effettuare, portaria non poco giovamento alla nostra fede. Tuttavia le pratiche per la parte de' Veneziani sono tanto grandi, che ci priva della speranza di qualche buon fine. Con tuttociò dovemo sperare ch'Iddio non abbandonerà li suoi». E nel carteggio di Milano, riferendosi le informazioni avute, si trova al 3 giugno 1620: «In Svizzera sempre si è mandato soldati alla sfilata, essendone partiti di qua fin ad ora 900, e sebbene questo negozio sia trattato con grandissima segretezza, si scoprì in ogni modo che tutto si fa per ajutar certi banditi grigioni i quali, risoluti di tornar ne' loro paesi, tentano ogni strada perchè li riesca. E tanto che hanno determinato, per un lungo cammino che fanno, di entrare nell'Egnadina Alta e poi nella Val Tellina, per impadronirsi di quella valle, che, quando li sortisca, sarà di grandissimo utile a' Spagnuoli, che senza apparire a niuno, otterranno il loro intento d'esser padroni della Val Tellina, che per la qualità del sito e pel transito comodissimo nel Tirolo, sarebbe cosa di grandissima conseguenza». Al 24. «A ogni punto si aspetta di sentire quel che haveranno fatto i Banditi grigioni ne' loro paesi, sentendosi che alli 25 si haveva a dar dentro, e che tutti i soldati mandati di qua per questo effetto erano lesti per muoversi dove gli fussi stato comandato...» Al 30 giugno, negli avvisi di Svizzera c'è: «Sono passati a questi giorni alquanti carichi di denari, che da Milano mandano in Germania, sebbene i banditi hanno pubblicato che devono servire contro a' Grigioni». Al 1 luglio. «In Grigioni si doveano effettuare i tentativi de' banditi il giorno di san Giovanni, ma perchè le genti del serenissimo Leopoldo (l'arciduca?) non potettero esser all'ordine per quel tempo, per questo si è differita l'esecuzione tutto il mese di giugno passato. E mi ha detto il signor duca di Feria che adesso aspetta avviso del seguito a ogni punto, e spera che s'abbia a sentire qualche bel colpo per l'estirpazione degli eretici di questi paesi. Mi soggiunse che, avendo fatta istanza al papa per semplice consiglio, come si dovesse incamminar il negozio, che non ha mai potuto haver risposta, e se ne dolse gagliardamente». Al 8 luglio. «I maneggi trattati dai banditi grigioni per entrare nell'Engaddina bassa non sono riusciti, per essere stati scoperti, et avvertiti i lor nemici... Non si resta però di fare ogni diligenza per ajutar quelle pratiche. Jersera incassarono cento colli di polvere, archibusi et moschetti, si dice per mandarli in quei paesi». [285] DE BURGO, p. 9: cioè da 50,000 franchi. [286] LAVIZZARI, p. 159. [287] SPRECHER, _Hist. motuum_ ecc. [288] DE BURGO, 64. [289] «Che fu il 19 luglio 1620, giorno veramente fausto, et per tanta felicità degno d'essere annoverato tra gli più celebri dell'anno con solenni processioni» BALLARINI, _Felici Progressi_ etc, p. 10. «Como tanti Macabei confidati nel divino ajuto assalirono gli eretici... La qual impresa quanto sia stata accetta a Dio l'ha testificato con diversi miracoli ecc.». _Relazione manuscritta_. «Il che successe con tanta facilità et felicità, che ben si vide la mano di Dio assistente ad opera tanto santa; poichè in tutta la valle non si mossero più di cento persone, sebbene ci fu il consenso di tutti gli altri, et nondimeno ammazzarono tanto numero di heretici et ufficiali Grigioni». _Supplica al re cattolico_. «Di Teglio il fatto glorioso sgombra l'oscurità dell'eresia, abbellisce il cristianesimo, empie di gioja il mio cuore e d'altri fedeli, e tutte le lingue si debbono snodare per celebrarlo d'opera sì sublime ed alta, conveniente alla sublimità ed altezza ove siede». _Il Rusco o descrizione del contado_ ecc. L'Alberti però nelle Antichità di Bormio dice _Fortissimum consilium quod vos ad salutaria arma capienda compulit, et Grisonum hereticorurn jugum excutere suasit faveat exercituum Deus pietati et fortitudini vestræ. Gregorio XV, breve del 9 marzo 1623_. Ed il _Quadrio, Della Rezia Cisalpina, Diss._ IV. «Parve che il cielo stesso dichiarar si volesse a favore del loro disegno, poichè, dove tutta la notte caduta era abbondevole pioggia.. si mostrò il cielo all'apparir dell'alba terso affatto d'ogni nube e sereno». Esso Quadrio vorrebbe contro il vero insinuare che si aveva riguardo alle donne come _cose mobili per natura_: che a Teglio otto donne e tre fanciulli rimasero per _accidente_ sacrificati, ecc.: ma non era egualmente un assassinio e su queste e su gli uomini? che «da' prudenti fu lodata la rivolta, non già il modo». Al fine del vol. III degli _Atti e monumenti della Chiesa Gallicana_, 1631, in-fol. è inserita una _Storia delle stragi di Valtellina_ di Abbot arcivescovo di Cantorbery, ma non è che la traduzione dell'opuscolo tedesco di Gaspare Waser, illustre teologo zuricano, riprodotto nella Biblioteca dell'Höttinger, e tradotto subito in italiano, in francese, in inglese. Egli dà a minuto le particolarità della strage, e per esso tutti gli uccisi sono martiri, de' quali racconta il coraggio, la costanza, i detti pietosi, alla guisa de' martirologi. Va con esagerazione opposta il libro _Kelchkrieg, koder urzer und wahrhaftiger Bericht des Kelchkriegs so ron den calvinischen Pundtneren, und Zwinglischen, Zürcheren und Berneren in Veltlin vollbracht worden_, 1620. Altorf: e l'anno stesso a Milano in italiano. Una relazione contemporanea che ho trovata nell'Archivio generale di Firenze, dice tra le altre cose: «Nel mentre che si sono assicurati li posti et passi, li soldati paesani et massime li contadini sono andati alla caccia dei fuggiti heretici, et havendo trovata la maggior parte, gli hanno ammazzati tutti, specialmente d'una villa chiamata de Mossini sopra Sondrio, lavandosi le mani nel sangue loro, et hanno preso molti predicanti, alcuni de' quali tengono vivi per cavare da essi la verità della macchinazione et trattato di ammazzare li cattolici, et estirpare la fede Cattolica, poi li tratteranno come meritano. «Il numero de' morti heretici sarà da 500, ma non può dirsi preciso perchè se n'ammazzano ogni giorno, trovati nelle caverne. Altri sono fuggiti oltre a monti, altri nel Venetiano. «Non si lascia di dire che, tra li morti di Tirano vi era uno grisone come gigante, che giaceva in terra con moltissime ferite, et perchè doppo quattr'hore et più parve che movesse il capo, un figlioletto cattolico de cinque anni andò a dargli con una mazzetta sopra il capo dicendo, _Quel traditore lùtero non vuole anco morire_. «Già s'è accettato il calendario gregoriano et introdotte le feste alla romana, et per stabilire meglio la fede cattolica s'addimandano predicatori, massime capuccini, amatissimi, a' quali si faranno due monasteri almeno, cessata la furia de' presenti moti, sperandosi nella misericordia divina che aggiusterà la causa sua, et nella pietà della maestà cattolica, che accetterà nella protettione sua quei popoli devotissimi suoi, et membri si può dire del Stato di Milano come diocesani di Como». Tra i libri proibiti figura il _Memoriale alla santità di nostro signore papa Gregorio XV, il clero e cattolici di Valtellina_, come pure la _Vera narratione del massacro degli Evangelici fatto dai Papisti ribelli nella maggior parte della Valtellina_. [290] Informazione de' Bormiesi nel 1636. [291] 4 agosto. «S'intende che un nervo di Grigioni eretici con la scorta di ducento Olandesi, di quelli licenziati dalla Repubblica Veneta, siano entrati in Valtellina dalla parte di Chiavenna... nel medesimo tempo si ebbe nuova che da' Grigioni eretici erano state affondate due barche piene di soldati cattolici, de' quali nessuno s'era salvato. All'arrivo di questi avvisi si turbò assaissimo il signor duca di Feria, vedendo che si correva pericolo di perder l'acquistato; e trovandosi impegnato a difendere la Valtellina, gli dispiaceva che si aveva a venire a maggior cimento. Però dicono che si dolse gagliardamente con monsignor proposto della Scala, dicendogli che gli avea figurati i successi facilissimi e senza pericolo nessuno di accender fuoco in Italia, e che ora apparisce il contrario, sentendosi che tutte quelle montagne sono in moto, con fermo proposito di voler ricuperare il perduto. Poco lontano dal forte di Fuentes furono fatti prigioni tre predicanti, i quali sono stati condotti a Milano, e si trovano in custodia del Sant'Offizio. Fra questi vi è una monaca vicentina, che già 15 anni sono fuggì di Vicenza» (_Carteggio di Milano, nell'Archivio generale di Firenze_). [292] Allora fu pubblicata un'altra delle pasquinate che dicemmo desunte da testi scritturali. Re di Francia _Ite, et reddite quæ sunt Cæsaris Cæsari etc._ Marchese di Cœvre _Bonum est nos hic esse, faciamus tria tabernacula._ Venezia _Attollite portas, principes, vestras, et elevamini portæ æternales._ Valtellini _Circumdederunt nos dolores mortis._ Grigioni _Erit fletus magnus et stridor gentium._ Marchese di Bagno _Et ego per aliam viam revertar in regionem meam._ Papa _Ego dormio, sed cor meum vigilat._ Duca di Savoja _Qua hora non putatis veniam._ Repubbl. di Genova _Veni et noli tardare._ Re di Spagna _Omnia quæcumque volui feci._ Signori di Valtellina _Ecce relinquimus omnia et secuti sumus te._ Duca di Feria _Adjuva me, Domine, ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum._ Stato di Milano _Non habemus regem nisi infantem._ Arciduca Leopoldo _Quæsivi et non inveni._ Imperatore _Os habent et non loquentur, manus etc._ Duca di Parma _Doce me facere voluntatem tuam._ » Modena _Quotidie vobiscum sum._ » Mantova _In pace amaritudo mea amarissima._ » Lucca _Clausa est janua._ » Urbino _Dereliquit me virtus mea et lumen oculorum meorum._ Granduca _Pulsate et aperietur vobis._ [293] Rimasero da cinquecento arciducali: con loro cadde il beato Fedele da Sygmaringa cappuccino, che il Lavizzari dice _odiatissimo prefetto di quelle missioni_, e che è il protomartire della congregazione di Propaganda. Vedi _Istoria delle missioni de' frati minori Cappuccini della provincia di Brescia nella Rezia dal 1621 al 1693_, pel P. F. CLEMENTE DA BRESCIA. Trento, Pavone 1702. [294] Gli aggravj di questi sono espressi nel _Recueil vrai et sincère de partie des mechancetez atroces et cruelles tirannies commises en la Valtelline après le massacre, et demeurées impunisse, ensemble les transgressions des statuts, loix criminelles et civils, voire mesmes des ordonnances et constitutions faites à Tiran depuis le dit temps jusqu'à l'an 1626_. Vedi _la Valtelline, schediasma. Véritable et solide résponce aux calomnies, et raisons desquelles les resbelles de la Valtelline, vrais et naturels sujets des Grisons, pallient et desguisent leurs exécrables forfaits, voulans par une entreprise imprudente et abominable persuader aux rois et potentats de prendre les armes pour leur défence et protection_. Abbiamo nello stesso senso: «Antidoto contro le calunnie de' Cappuccini, composto per li fedeli confessori della verità nelle leghe de' Grigioni. — Informatione reale delle false apparizioni e miracoli della madonna di Tirano, di san Carlo Borromeo, e del beato Alviggi». [295] Quella donna, fatturata in un braccio di panno rosso, stette due mesi fitta nel letto senza mangiare nè bere altro che qualche stilla d'acqua infusale per un dente mancante. Eppure la vedevano affacciarsi alla finestra; ma come tosto s'accorgeva di essere veduta, tornava al letto, ove immobile giaceva. Tardi guarì, _non obstanti i debiti exorcismi_. [296] ALBERTI, _Antichità Bormiesi_, manuscritto. [297] _Gentis inquietæ, et volentis inquietare cœteros._ Hist. Patria, p. 127. [298] Nel 1790 erano dieci famiglie di protestanti in Tirano, due in Bianzone, due in Teglio, una a Castione Inferiore, una a Cajolo, sessantacinque nel contado di Chiavenna. Giacomo Picenino, ministro protestante a Coira, stampò l'Apologia della Riforma. Contro di essa il padre maestro Gotti, professore di teologia a Bologna, scrisse _La vera Chiesa di Cristo_, 3 volumi in-4º, che gli meritò la porpora. [299] Fin a quest'ora appartennero alla diocesi di Como, siccome pure la maggior parte del Canton Ticino. Adesso però vuolsi sottrarneli, confiscaronsi i beni che colà aveva il vescovo di Como, e vorrebbesi incorporare le comunità di Poschiavo e Brusio alla diocesi di Coira: al Canton Ticino mettere un vescovo proprio. DISCORSO XLVIII. SGUARDO RETROSPETTIVO ALLA RIFORMA. Al punto d'abbandonare il secolo e le immediate conseguenze della Riforma, domandiamo se abbiasi a deplorare l'Italia perchè non l'abbia abbracciata, e perciò non corso un differente stadio di civiltà; ovvero con sant'Ambrogio rallegrarsi perchè _non hic tibi infidelis aliqua regio,... Italia, Italia, aliquando tentata, mutata numquam_[300]. I dissenzienti da noi traggono vantaggio dal mostrare la decadenza che da quell'età subì la nostra patria. Dopo ciò, dunque per ciò; argomento triviale. Ma l'essere ingojate le sue repubblichette da parziali signorie; il parteggiare non più per la patria e pei diritti, bensì per la volontà, le ambizioni, le pretensioni di principi; il rinascere in Europa la smania delle conquiste lontane, piaga romana ch'era stata medicata dalla feudalità: la conseguente invasione degli stranieri; l'appoggio che questi ebbero dagli eserciti stanziali, allora generalizzati; il rifiorire delle lettere classiche, che portava a venerare la forza dello Stato pagano, anzichè la giustizia della società cristiana, queste ed altre furono le cause per cui l'Italia restò prostrata moralmente e civilmente, allorquando la scoperta, a Italiani dovuta, di due nuovi mondi sviava la ricchezza da' suoi mercati. A colpir non meno le fantasie che gli interessi sopravvenne in Germania la guerra religiosa dei trent'anni; l'età più disastrosa per l'Europa; quella ove gl'individui e gli Stati ebbero patimenti ben peggiori che nelle invasioni dei Barbari: chiusa colla pace di Westfalia[301], cui conseguenza fu che anche la Germania decadesse da quel primato che avea tenuto durante tutto il medioevo. Così i Tedeschi, che per invidia al nostro sole più brillante, alla nostra lingua più armoniosa, ai costumi più forbiti, alle istituzioni più liberali, alla civiltà nostra più sviluppata, aveano spinto alla Riforma, da questa nimicizia all'Italia raccolsero la propria rovina. Si temette la prevalenza della stirpe latina, onde si osteggiò la Spagna, e poichè questa era cattolica, si guerreggiò il cattolicismo. Ma non si riuscì che a consolidare Casa d'Austria, che da quel punto non perdette più la corona di Germania e il dominio sull'Italia; invece d'abolire l'impero si abolì il papa; invece di acquistare libertà civili e municipali, si ottenne di non andar più a messa o a confessarsi, e di cantare i salmi in tedesco: politicamente restò impedita la fusione della Germania; gli ingegni si svaporarono in dispute teologiche: le classi privilegiate sbigottironsi del diritto d'esame. Maggiormente ne scapitò l'Italia, che cessava d'esser la metropoli di tutto il mondo, nè più vi affluivano le ricchezze e i devoti dalle quattro plaghe: non più vi convenivano i prelati da ogni paese, nè in ogni paese andavano i nostri, acquistando e difondendo ricchezze e cognizioni, e trovando sfogo all'attività, stimolo agli ingegni colle speranze. La feconda divisione de' piccoli Stati soccombette alla prevalenza austro-spagnuola, ormai non più controbilanciata dalla Francia, e solo tenuta in qualche rispetto dalle repubbliche di Venezia e di Genova. Al nord-est un principe transalpino si dilatava a poco a poco, e militando ora per la Francia, ora per l'Austria, cresceva innanzi, sperando mangiar l'alta Italia foglia a foglia come il carcioffo. I papi, che sin allora avevano impedito che l'Italia cadesse sotto una sola dominazione, ormai non poteano che accarezzarne il padrone, e quest'alleanza del papato coll'impero consolidò la servitù dell'Italia. L'Italia, oltre gli eserciti che la straziavano anche quando ella avea cessato di esistere, simile a un cadavere denudato e violato, soffrì di squallide fami, di due terribili pesti nel 1576 e nel 1630, e di governi stranieri, che unica arte conosceano la fiscalità; onde potè giudicarsi perita la civiltà da chi non credesse fermamente che la Provvidenza per la via del male guida l'umanità a continuamente procedere verso idee più vere, costumi più umani, libertà meglio intesa. Aggiungiamo il piantarsi dei Turchi a' suoi confini. Gli Italiani aveano sempre avuto speciale cura a La santa terra ove il supremo amore Lavò col proprio sangue il nostro errore[302]: e incessantemente combatterono i Musulmani sotto le insegne di Venezia, di Genova, di Pisa, di Napoli, soprattutto di Roma. Or però, abbandonati da mezza la cristianità, dovettero vederli piantarsi fin in vista delle nostre coste. Dove non è estraneo il riflettere che, mentre la costoro conquista tolse ogni vita all'Oriente perchè era scisso da Roma, nell'Occidente invece, dove al potere crollante imperiale era già succeduto il pontifizio, si conservarono i germi d'una civiltà, i quali svoltisi in Italia, dipoi a danno dell'Italia propagavansi altrove. È arte di ogni rivoluzione l'afferrare due o tre idee buone, e spacciarle per sue, e per raffaccio domandarne l'attuamento all'ordine esistente, il quale non le repudiava, e forse non le predicava sol perchè non revocate in dubbio. Così ai dì nostri essa proclamò la nazionalità italiana: eppur questa era accettata così generalmente, che neppur se ne parlava. Delle amplissime verità che la Chiesa abbracciava, alcune particolari afferrò la Riforma e se ne fece vanto, quali l'esame della verità storica, la civile tolleranza, la moralità di tutti e specialmente del clero, la gratuità de' sacramenti, il ripudio delle superstizioni e de' racconti apocrifi, ed altri punti che però erano non solo accettati dalla Chiesa, ma promossi e raccomandati, colla prudenza da cui solo possono dispensarsi le rivoluzioni. E sotto l'ali della Chiesa era sempre vissuta l'arte, questa rivelazione di Dio nello spirito umano, che fra i Pagani idealizzava la forma, fra i nostri incarnava l'idea. La Chiesa colla scolastica aveva non solo esercitato il pensiero, lasciandolo spingere le speculazioni fino al punto ove l'audacia della ragione diventa licenza[303]. La civiltà acquistava quell'universalità per cui non si conosce un affare particolare di un regno se non si allarghi lo sguardo sull'intera Europa, della quale gl'incrementi di comunicazioni e la stampa tendeano a far una nazione sola. Il rinascimento fu dunque opera eminentemente italiana, ma alzò subito un grido contro il passato, quasi un figlio che si vergogna del genitore: acclamò al paganesimo, e filosofia, governi, civiltà, letteratura dovere conformarsi a quello. Bastava un passo perchè si ribellasse alla Chiesa, e il fece quando, attraverso al grandioso incammino del risorgimento, si gittò il frate di Vittemberga. Nessuno più di noi ha riconosciuto i disordini introdottisi nell'attuazione temporale della Chiesa, risoluti come siamo di non dissimulare veruna macchia per aver diritto a non velare veruna gloria, e professando con Gregorio Magno esser meglio scandolezzare che mentire: ma bisogna distinguere le istituzioni dagli atti degli uomini che ne sono ministri: ed esse istituzioni valutare non sopra gli abusi, ma sopra i fatti giuridici, che per la Chiesa sono i decreti, le leggi, i concilj. E se anche il frutto è fradicio, bisogna salvar il seme per le vegetazioni future. Anzi, dal vedere che, in tanto traviamento, le dottrine supreme rimasero immacolate, nè gran peccatori quai ci dipingono gli ecclesiastici pervertirono i dogmi, il simbolo, la morale, argomentiamo alla divinità dell'opera, e i costumi esser altro che i principj: talchè poteano quelli emendarsi, senza toccar a questi. E ciò più facilmente in quanto, nell'attuazione esterna della Chiesa, tutto è modificabile, tutto fu modificato, eccetto la disciplina che riguarda l'amministrazione de' sacramenti. Ma la Riforma quei ch'erano uniti dalla religione separò in due campi ostili, in cui e da cui si avvicendarono le persecuzioni. La divisione essendo religiosa, fu profondissima, sicchè apparvero da per tutto diffidenza e sospetto: essendo opera di collera, trascese, e presto ebbe scosso tutto, la società religiosa come la politica e la domestica, gli affari come le coscienze, seminando l'Europa di sanguinose, comechè feconde ruine, sottoponendo a leggi arbitrarie le relazioni dell'uomo con Dio, al dogma surrogando opinioni variabili quanto le teste; eccitando dubbj nell'intelletto, scrupoli nella coscienza da che era rotto l'equilibrio fra il sentimento dei diritti e quello dei doveri. Gli eroi della vita austera diventavano oggetto di beffa; mentre prima il delitto era peccato; il fôro secolare stava a servigio della Chiesa per punire la bestemmia come il furto; le decime retribuivansi ad essa più fedelmente che l'imposta ai principi; la ricchezza de' suoi prelati parea più comportevole che quella de' cortigiani, tutto fu cambiato d'un tratto. La Riforma cercò anche annichilare la distinzione dei due poteri, introdotta dal cristianesimo, e sottoporre l'anima allo Stato: col che toglieva la libertà di coscienza, mentre di questo nome onorava il mancare di convinzioni. Il diritto canonico era stato un gran progresso sopra le consuetudini dei Barbari, ma avea dovuto piegarsi alla costoro selvatichezza: e quindi sconveniva a tempi più colti: ma i papi stessi aveano approvato lo statuto fondato sul diritto romano, riconoscendolo meglio applicabile, non ricorrendo al Canonico se non nelle materie speciali, dove il principio religioso corregge il diritto puro. Noi non crediamo progresso l'aver distrutta la supremazia in materia di fede, e tolta al papato l'onnipotenza delle mediazioni, perocchè, se il cristianesimo è una società diffusa per tutto il mondo, è egli conveniente lasciarla senza un capo, senza giudici, senza consultori universali? Anche il credente più schietto ama veder l'ordine in ciò che crede e le verità connesse fra loro; e mentosto la sparpagliata discussione che non l'accordo donde trae zelo alle pratiche religiose. Già sant'Agostino diceva ai Donatisti: _Quæ est pejor mors animæ quam libertas erroris?_ Il clero non offendeva i re, giacchè promulga il principio d'autorità; non l'aristocrazia, perchè rispetta i possessi e l'ingegno e i diritti storici; non il popolo, perchè esce da quello, e per quello avea fatto tutto; e finchè stava con esso, il popolo non avea bisogno di abbracciarsi ai re per abbattere i baroni. Il potere dei principi divenne eccessivo, perchè cessava l'opposizione e il sindacato del clero. Si rinfacciò ai papi di dire «La Chiesa son io», ma allora i re dissero «Lo Stato son io», e dalla monarchia restò non solo ristretto il papato, ma soffogato il popolo. I papi del medioevo soli erano capaci d'esercitare l'arbitrato europeo perchè capi della società conservatrice e propagatrice del vero ideale, capi civili delle nazioni non per forza d'arme ma coll'autorità della parola. Per quanto però ristretti, rimasero non solo re di Roma, ma cattolici, e quindi di nessun partito, e desiderosi dell'accordo di tutte le potenze cristiane; accordo che solo avrebbe potuto risparmiare all'Europa odierna la vergogna d'aver fra' suoi uno Stato che professa la poligamia, gli eunuchi, la potestà assoluta, la pirateria, e che la maggior reliquia del culto cristiano rimanga in mano de' Turchi. Un secolo che era cominciato nel modo più grandioso, colla scoperta d'un nuovo mondo e la rapida conversione di quello, con tanto rigoglio dell'arti e delle lettere, trovossi tuffato nella quistione religiosa, dietro a cui la confusione degli spiriti, l'anarchia degli atti, la tirannide ammantata dal pretesto di reprimerla, il fanatismo persecutore; sicchè, invece di poter congiungere la libertà cittadina coll'indipendenza religiosa, fu duopo combattere dentro e fuori la barbarie che parea rinnovarsi. Che la Riforma causasse prosperamento degli studj e delle lettere vien negato anche in altri paesi, benchè ivi coincidesse con quel che dapertutto chiamossi il risorgimento. Ma l'Italia era già prima a capo del mondo civile; da tre secoli studiava il suo san Tommaso, da due leggeva Dante e il Petrarca suoi; aveva prodotto Colombo e Cesalpino, educati Copernico e Vesalio; stava compiendo la maggior basilica del mondo, attorno alla quale sorgeano le meraviglie del Mosè, della cappella Sistina, delle Logge Vaticane; glorie accompagnate da quelle del Tiziano e del Correggio, dell'Ariosto e del Caro; le sue Università traevano studiosi da tutto il mondo; Erasmo vi ammirava cattedre di greco[304], d'arabo, d'ebraico: e la nostra repubblica letteraria concedeva la cittadinanza anche a quei dotti che nazionalmente si chiamavano barbari[305]. Ma fanatizzate le moltitudini per dispute che prima stavano nel ricinto di conventi e presbiteri, si sviò dalle belle lettere. Fra gli scrittori della Riforma nessun italiano è insigne; nobilissimi ingegni dispersero nelle controversie la forza che poteano destinare a far opere; lasciarono scritti incompleti come le polemiche, nelle quali gli ammiratori stessi lodano ciò che si volle, anzichè ciò che si fece. Nuova importanza acquistò la filologia, trovandosi necessarie le lingue antiche per le disquisizioni religiose. Ma la stessa traduzione della Bibbia, che in altri paesi schiuse l'êra del vulgare moderno, non potea farlo qui, ove almeno da cinquecento anni parlavasi e da trecento scriveasi l'italiano. Il Manuzio, eruditissimo editore, lagnavasi che le scuole si abbandonassero, e ch'egli dovesse passeggiare solitario davanti all'Università romana nell'ora della lezione. Giulio Pogiano valentissimo latinista, all'altro non men lodevole scrittore Anton Maria Graziano, in lettera del 30 maggio 1562 lagnavasi che il bello scrivere fosse perito: _unum, aut ad summum alterum vel in maximis civitatibus reperias, qui speciem aliquam præseferat romani sermonis: succum vero et sanguinem incorruptum latinæ orationis qui habeat, fere neminem. Nec injuria. Libri enim qui nobis præstantis illius laudis et disciplinam præscribunt et exempla proponunt, pæne obsoleverunt. Nullus jam est in manibus Terentius, nullus Cæsar: ipse latinæ eloquentiæ princeps legi desitus est: tota denique jacet antiquitas, optima tum vivendi, tum loquendi magistra. Ad quos igitur plerique se contulerunt? Pudet, nec omnino dicere licet. Sunt enim iidem barbariæ et impietatis auctores, quorum in dispari scelere par voluntas agnoscitur. At multis vocabulis auxerunt linguam latinam. Utinam non tam portenta quam verba, ut in religionem sic in sermonem induxissent! at incitarunt loquendi et scribendi celeritatem: ut illorum studiosi, vel in magnis rebus, subita et dictione et scriptione satisfaciant._ Cercarono scuoter gl'ingegni i Gesuiti introducendo scuole con metodi nuovi, con ingegnosi artifizj, col rendere piacevole l'insegnamento, come s'è costretti fare allorchè la voglia n'è rintuzzata: ma lo scopo loro era l'educazione, più che l'istruzione; piegar le volontà, ancor più che affinare gli intelletti: e presto ebbero gl'inconvenienti delle scuole legali; e il mal gusto, se non vi fu originato, non vi fu combattuto dall'artificiosità dello stile e de' componimenti; da una certa lecornia, distinta dalla vera eleganza; dal belletto, surrogato ai robusti colori della sanità. Dopo ciò si pena a credere che, nel secolo nostro, l'Istituto di Francia abbia premiato una memoria dove s'è potuto sostenere, dirò piuttosto asserire che la Chiesa era sempre stata capitale nemica dei lumi; che «le nazioni erano da essa mantenute attentamente in un'ignoranza, propizia alla superstizione: che, per quanto possibile, lo studio era reso inaccessibile ai laici: che quel delle lingue antiche era tenuto come una mostruosità, un'idolatria: che la lettura delle sante scritture era severamente vietata[306]». E c'è un vulgo che lo ripete. Viepiù fa stupore che un pensator cattolico, il Gioberti, in Lutero vedesse tre doti: 1. D'aver voluto restituire la loro primitiva grandezza alle idee di Dio e di Cristo, menomate dagli scolastici; 2. d'avere, non che conosciuto, ma agguagliato il suo secolo, benchè non giungesse a superarlo, come superollo Soccino; 3. nell'evoluzione logica dell'eresia luterana scorgersi il predominio della ragione (_discorso_) sulle potenze inferiori; privilegio dell'Italia, alla quale pertanto si compete l'onore del luteranismo. Se con ciò s'intende il libero uso della ragione, l'aveano ben prima i nostri, e lo mostrammo; ma troppo ci corre dall'esame del vero, dallo scherzo, dalla satira alla negazione sistematica e riottosa. Lutero, dopo bestemmiato la cattedra pontifizia, bestemmiò il libero arbitrio, bestemmiò la ragione, questa (a dir suo) fidanzata di Satana, questa prostituta, mostro abominevole, che bisogna calpestare, strangolare; essa è maledetta dalla rivelazione, e perciò ogni parte dell'ingegno umano è menzogna e tenebra; le Università, sono invenzioni diaboliche, deputate a convellere il cristianesimo. Invece il Pallavicino, nell'_Arte della perfezione cristiana_, professava che «infine tutte le altre potenze dell'uomo s'inchinano all'intelletto; l'intelletto giudica di tutte le cose, l'intelletto governa il mondo». I soliti uomini di pregiudizj diranno che la restaurazione d'allora fu un ritorno verso il medioevo[307]. Noi diremo che fu una fermata ne' grandi progressi di quello. Il sospetto fece reprimere la cultura anche qui dove avea preso tanto incremento; perocchè solito torto delle violenze rivoluzionarie è il disgustare chi di queste era volenteroso, e far che la società indietreggi davanti alle crisi dell'impazienza. Colla storia alla mano potremmo sostenere che al cattolicismo è dovuto l'acquisto di tutte le libertà civili; le forme parlamentari, che oggi si considerano qual salvaguardia di queste, derivavano dalle abitudini della Chiesa, e noi le godevamo ben prima di Lutero, unitavi la libertà della discussione e della critica, che dappoi per paura e riazione, venne soffogata dalle armi principesche e dall'inquisizione ecclesiastica, la cui potenza noi desumiamo non tanto dai roghi, quanto dal disparire di quell'infinità di stampe che aveva accompagnato e favorito lo spandersi della Riforma. La filosofia dovette arrestarsi ne' suoi ardimenti, eppure furono cattolici, come di fuori Cartesio e Bossuet, così tra noi Galileo, Campanella, frà Paolo. Le riforme prescritte dal Concilio vennero dimenticandosi, nè si conciliarono Chiesa e Stato, nè si segnarono limiti morali e giuridici alla politica. Svelto ogni germe di protestantismo languirono gli studj ecclesiastici, e sebbene repudiamo la separazione or posta da Neander tra la fede, la religione e la teologia, certo è che questa scienza, disarmatasi, s'avvolse in intestine querele di carattere meschino, che fornirono arme terribili agli scredenti; e il clero, inerte, impopolare, diviso, con giansenisti ridicoli, gesuiti esosi, abati indifferenti, popolo ragionacchiante, si trovò esposto ai liberi pensatori. La morale fu però migliorata, anche per l'opera di coloro che vennero denigrati col nome di Casisti, i quali furono alla pratica quel che erano stati gli scolastici alla teoria; persone che spingevano l'argomentazione fino all'abuso: e che, invece di dedur i canoni della morale dalla sola legge di Cristo, andavano a fantasticarne o ne' filosofi pagani o nelle opinioni della tale o tal altra scuola. Con ciò arrivarono qualche volta a scusare il vizio, a scolpare il delitto, sicchè molte loro proposizioni furono dalla Chiesa condannate; ma chi li confutava non avea che a ricorrere all'insegnamento evangelico e alla tradizione[308]. Realmente in quelle dispute si chiarì la morale; il vizio sussistette ancora, ma fu chiamato col suo nome; mentre fuor della Chiesa nostra fra suddivisioni infinite si giunse fin a negare la virtù obbligatoria e ogni dottrina positiva; e volendo l'unità, e non riuscendovi perchè non è possibile accoppiar l'errore e la verità nel cristianesimo, cercavano questo distruggere. Separato il mondo della scienza da quello della fede, proveduto piuttosto a reprimere l'opinione falsa che a diffondere la vera, ne seguì la trista necessità di riazioni violente. Quando una società perisce, non v'è modo a restaurarla che coll'autorità. Questa è il fondo del cattolicesimo, che perciò, vedendola attaccata dapertutto, se ne sbigottì; e se prima avea protetto la libertà, vedendola ricalcitrare fino a metter lui stesso in quistione, se ne sbigottì, si alleò al potere assoluto per farsene sostegno, nè ravvisò l'incompetenza assoluta della forza in materia di fede. Per ovviare gli abusi si restrinse la primitiva libertà degli scritti; si ebbe paura del pensiero come forza o sterminatrice o repressiva; si sentì bisogno di ricorrere alla podestà principesca, che schiacciava le eresie, ma nell'abbraccio soffogava la Chiesa. Il clero, vedendo perire le libertà del medioevo sotto la pressione principesca credette salvarsi coll'associarsi all'assolutismo regio, il quale così trionfò. Ed oggi altrettanto vorrebbesi farlo associare all'assolutismo democratico, che trionferebbe se esso cessasse di resistervi. L'Italiano, che bada ai fatti non alle declamazioni; che, fra questa tirannide dell'opinione, osa ancora ascoltare la coscienza e serbare convinzioni, rabbrividisce allorchè osserva la conformità dell'età nostra con quella del Cinquecento che venimmo divisando, e quali terribili rimedj, e quanti patimenti di due secoli furono necessarj per chetare la turbolenza, e ripristinare quell'ordine che le popolazioni desiderano anche più della libertà. Sarà necessario altrettanto oggi? A questa frenesia d'una libertà astratta, che le libertà individuali sagrifica tutte all'opinione di piazza, alla statolatria, alle apparenze, bisognerà che succeda lo spossamento, come al delirio fremente succede il delirio tremante? Se, come vuole Fontenelle, l'uomo non giunge al vero che dopo esauriti tutti i possibili errori, ancora lunga serie ne resta; e se ciascuno bisognerà che produca la sua messe di disordini e di infelicità, alla misera generazione nostra avrà a portare invidia quella de' nostri figliuoli. Ma a chi ci dipinge l'odierno sfasciarsi della società nella sua parte morale: quando, sentendo scosse le fondamenta, ognuno cerca nelle nebbie del futuro qualche crisi alla malattia d'una società corrotta, scettica, sbranata dai partiti, noi offriamo il quadro di essa ai giorni di Lutero. Chi non avrebbe detto che la barca di Pietro periva? Di poca fede! Eppure allora l'alto clero era corrotto, mentre ora unanime resiste al demonio che gli dice, «Se mi adori, tutto questo sarà tuo»; e fra i traviati non compajono se non le erbacce che il pontefice sarchia dal suo orto. Coraggio dunque; poichè Dio tira sovente la salute degli uomini dal fondo della loro perversità: e una voce santa ci ripete che «A riguardo de' giusti saranno abbreviati i giorni della prova». NOTE [300] _De fide_, lib. II, c. 16. [301] Per quante buone ragioni e religiose e civili e umane il pontefice respingesse la pace di Westfalia, l'ha dimostrato testè il dottor Döllinger, _Kirche und Kirchen_, cap. 2. Si noti poi come un fatto generale che il protestare contro di essa non valea toglierle efficacia, nè impacciarne l'attuazione. [302] ARIOSTO. Si sa che il primo ospedale vi fu fondato da cittadini di Amalfi, donde nacquero gli Ordini religiosi militari. Nel 1355 Sofia di Filippo Arcangeli fiorentina istituì l'ospedale del monte Sion, con chiesa, casa, chiostri. Alessandro III e Urbano III fecero riporre sopra l'altare del santo sepolcro la iscrizione, che n'era stata tolta, _præpotens Genuensium præsidium_. Roberto di Napoli e Sancia spesero milioni per collocare monaci presso il santo sepolcro e il presepio. La cupola del santo sepolcro fu eretta, poi più volte rinnovata per cura d'Italiani, e ultimamente nel 1720 per zelo del padre Antonio da Cuna toscano, che n'ebbe licenza dal gransignore a patto che facesse restituire cencinquanta Musulmani, fatti schiavi da potenze cattoliche; il che egli adempì. Giovanna di Napoli ricomprò il sepolcro di Maria Vergine in val di Giosafat. L'altare di bronzo, meraviglia dell'arte, che sta sul calvario, fu dono di Ferdinando De Medici nel 1588, e opera di frà Domenico Fortisiano del convento di San Marco. Carlo Guarmani livornese scoperse testè Santa Maria Latina, antica Chiesa degli Amalfitani, sepolta sotto le rovine. Leibniz nel 1673 essendo a Roma, scrisse un poema dedicato _ad Alexandrum VIII ut christianos ad bellum sacrum hortetur_, dove proponeva la spedizione d'Egitto, e vuolsi che di là ne traesse l'idea Bonaparte. Avendo noi ripetuto che Lutero dissuadeva dalla guerra contro i Musulmani, giustizia vuole che accenniamo come Melantone vi esortava Carlo V, e soggiungeva: «Per cominciar la guerra turca, bisogna ch'e' passi in Egitto con una flotta ben fornita, onde forzar le armate turche ad abbandonare l'Europa. È serbato al nostro secolo di veder questa eroica impresa, che, a parer mio, è divinamente preparata e che sarà il segnale della decadenza dell'impero turco». _Corpus reformatorum_, edizione di Bretschneider, t. VII, 683. [303] Federico Morin, nel _Dictionnaire de phylosophie et de théologie scholastique_, ch'è il più ampio ed erudito e insieme vigoroso trattato di questa scienza, mostra, oserei dire esagera gl'immensi meriti de' filosofi del medioevo, e asserisce che la Riforma, anzichè essere una riazione della libertà, repressa in quelli, contro l'autorità cui si fosse data troppa prevalenza sopra i diritti della coscienza, fu invece il disastro della libertà razionale, surrogandovi il fatalismo razionale. E lo prova da ciò, che la Riforma imputava gli scolastici di sottomettere la teologia alla loro scienza, cioè di seguir piuttosto i barlumi della ragione che la voce infallibile della fede: e negava all'uomo il libero arbitrio, sostenuto invece apertamente dalla teologia. [304] Il Lagomarsino, commentando le lettere del Pogiano (vol. IV, p. 335) dice: _Fuit illa hominum ætate cum multorum ingens in Italia græcarum literarum studium, tum egregia in italis hominibus græca interpretandi facultas._ [305] _Qui quidem tali ingenio præditi, barbari certe non sunt. Non enim quos a nobis montium excelsitas aut latitudo æquorum disjunxit, sed qua cum veræ religionis cultu non peragravit humanitas et artium amor ingenuarum, ea certa et sola est barbaries._ SADOCETI, _Phædr._, pag. 561. [306] CH. VILLERS, _Essai sur l'espritt e l'influence de la Réforme_. Parigi 1806. [307] «Un principio più ampio e assoluto venne espresso dal Machiavelli; il quale però non sembra averne misurata appieno la grandezza, l'universalità, l'efficacia, poichè ne fece uso in modo scarso e ristretto. Il qual pronunziato si è che, _a volere che una setta o una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio. Il che torna a dire che l'ideale progresso verso l'unità e la perfezione finale è un regresso verso l'unità e perfezione primitiva_. Tal è la formola cristiana, che è la sola vera. Noi dobbiamo pertanto risalire verso il medioevo, per ciò che spetta all'idea, perchè il medioevo, ch'è essenzialmente ideale, è il principio, onde mosse la civiltà moderna.... Il medioevo fu barbaro e cristiano. La barbarie, che deriva dal predominio del senso, è per se stessa un elemento negativo, e consiste nel difetto di coltura civile. Di costa a questo difetto, ai mali, alle tenebre, alle calamità, che ne nascevano, pullulavano nella età media i germogli di una civiltà meravigliosa, essenzialmente cristiana, e avvalorata dalle sane reliquie dell'antica umanità e gentilezza. Ma questa pianta era giovine, e i suoi fiori erano chiusi, o cominciavano appena a sbocciare: la stagione era piena e ricca di speranze, propizia alla coltura, lieta di frutti primaticci e tenerelli, che promettevano un maturo e abbondante ricolto.... Il progresso moderno dee essere _l'esplicazione della civiltà potenziale, contenuta negl'istituti del medioevo_.... Non vi ha alcun rischio, svolgendo i semi positivi e cristiani dell'età trascorsa, di dar nel barbaro; perchè in tanto allora il mondo era barbaro in quanto i preziosi germi non erano esplicati. La barbarie di quella età era tutta gentilesca; tramandata ai popoli cristiani, parte dal politeismo greco-latino, parte e assai più, dalla fiera superstizione dei popoli boreali.... Ma la società ecclesiastica, che vegliava fra le ruine colla sua mirabile struttura, e colla forte unità, spense a poco a poco la violenza e l'anarchia feudale, coltivando, svolgendo i rudimenti civili di autorità governatrice e di libertà nazionale; i quali ridotti quasi a nulla, pur non erano morti, e sopravvivevano nei sovrani, e nei Comuni. Oggi non è più duopo provare che i papi e i vescovi del medioevo, cioè la monarchia e l'aristocrazia elettiva della Chiesa, creavano i popoli ed i re; e con essi le nazioni moderne: la cui vita e il fiore dipendono dall'amichevole concordia del potere e della libertà, delle nazioni e dei principi». GIOBERTI, _Introd. allo studio della filosofia_. Conciliarlo col riferito più sopra non è impresa che ci torremmo. [308] Il Sismondi nel famoso cap. 127 della storia delle _Repubbliche italiane_ avea detto che «la Chiesa sostituì lo studio de' Casisti a quello della filosofia morale». Il Manzoni rispondeagli che le dottrine de' Casisti non vanno attribuite alla Chiesa, la quale non si fa mallevadrice dell'opinione di privati, nè pretende che alcun de' suoi figli non possa errare: i Casisti fondaronsi su ragionamenti e autorità umana, piuttosto che sulla Scrittura o la tradizione: e appunto quelli che, nella Chiesa, si elevarono contro le loro asserzioni, vi opposero la Scrittura e la tradizione. Il medesimo Sismondi al famoso predicatore americano Channing scriveva qui: _Ceux qui croient que la moralité ne consiste qu'en quelques préceptes vite épuisès, me semblent des observateurs bien superficiels. Plus au contraire on l'etudie, plus on voit le champ s'elargir. Ou peut s'en convaincre en lisant les milliers de livres ecrits sur des cas de conscience dans l'Église catholique. Le secret du confessional, la necessité d'accorder enfin l'absolution et de maintenir le pouvoir sacerdotal, ont certainement fait dévier les casuistes, et créer avec leur aide ce qu'on a appelé la moral jésuitique: toutefois des grands progrés ont été faits par eux dans cette noble science, et nous leurs devons peut-étre plus qu'à la Bible elle-méme l'etablissement du système de moralité chrètienne._ DISCORSO IL. PAOLO V. URBANO VIII. IL TASSO. IL GALILEI. LO STENON. LA SCIENZA E LA FEDE. Qui associamo due nomi, che non vanno scompagnati nella storia letteraria, dove stanno registrate le critiche argutamente acerbe che Galileo Galilei fece a Torquato Tasso. Questo gentile poeta ci rappresenta la riazione cattolica nella poesia, perocchè, mentre i precedenti cantavano o prodezze di paladini, o amori e magie, o fole mitologiche, egli scelse a soggetto d'un poema il momento più epico della storia cristiana, quello dove tutta l'Europa si unì contro _il popol misto d'Asia e di Libia_ per arrestare gli spaventosi progressi dell'islamismo. Il celebrare quel _glorioso acquisto_ aveva anche un'opportunità, giacchè allora di nuovo il Turco minacciava l'Europa, e spiegando le sue bandiere sotto a Vienna e in faccia a Civitavecchia, metteva in forse se prevarrebbe la schiavitù musulmana o la cristiana libertà. Torquato non possedeva spiriti tanto elevati da secondar l'ispirazione cattolica, e trarne tutta la poesia, di cui sì copiosa messe offrivagli la terra piena dei canti de' profeti e delle prediche degli apostoli, segnata dalle orme de' patriarchi e di Cristo, teatro alle figure dell'antico e alle misteriose avventure del nuovo patto. Scarso di storia e di fantasia, egli arrestossi alla liturgia, poetizzò le processioni, la messa, i salmi, pur nella gemebonda armonia invocando non la Musa dei caduchi allori, ma quella che ha fra gli angeli la corona di stelle immortali. Qui non siamo a valutarne i meriti e i difetti, ma solo a notare come il dubbio penetrasse quell'anima debole e affettuosa, tanto d'aver sempre bisogno di protettori e di fede. Nella malattia mentale che offuscò alcun tempo la sua bella intelligenza, suppose che il diavolo gli recasse molestie personali e facesse dispetti: e temendo non si credesse aver egli meritato questi tormenti, si fa un dovere di protestare che non fu nè mago nè luterano; non aver letto libri ereticali o di necromanzia o d'altra arte proibita; non essersi piaciuto a conversare con Ugonotti o lodarne le dottrine; non aver tenuto opinioni contrarie alla Chiesa cattolica; e sebben non neghi aver talvolta prestato troppa credenza alle ragioni dei filosofi, pure umiliò sempre l'intelletto ai teologi, più vago d'imparare che di contraddire, anche prima che la sventura lo saldasse nella fede. Ciò scriveva a Maurizio Cattaneo parlandogli del folletto che lo perseguitava: e pur confortandosi che gli fosse apparsa «l'immagine della gloriosa Vergine, col figliuolo in braccio, in un mezzo cerchio di vapori e di colori, laonde io non debbo disperar della sua grazia», lo crucciava il timore d'aver errato. Andò pertanto all'Inquisitore di Bologna, ed accusossi di dubbj intorno all'Incarnazione. Quegli, ascoltatolo, gli disse, «Va in pace e non peccare»: ma poichè gli crebbero quelle paure colla malattia, il duca di Ferrara gli suggerì di ripresentarsi al Sant'Uffizio. E questo l'ascoltò, ed assicurollo o che non aveva colpa, o che gli era rimessa. Pure il Tasso non istimava l'avessero scrutato con bastante rigore, nè assicurato in tutte le debite forme. Poi quando stava chiuso nell'ospedale, rivolgevasi a Dio, chiedendo perdono delle incredulità. «Non mi scuso io, o Signore, ma mi accuso che, tutto dentro e di fuori lordo e infetto de' vizj della carne e della caligine del mondo, andava pensando di te non altramente di quel che solessi talvolta pensare alle idee di Platone e agli atomi di Democrito... o ad altre siffatte cose di filosofi; le quali il più delle volte sono piuttosto fattura della loro immaginazione che opera delle tue mani, o di quelle della natura, tua ministra. Non è meraviglia dunque s'io ti conosceva solo come una certa cagione dell'universo, la quale, amata e desiderata, tira a sè tutte le cose; e ti conosceva come un principio eterno e immobile di tutti i movimenti, e come signore che in universale provede alla salute del mondo e di tutte le specie che da lui son contenute. Ma dubitava se tu avessi creato il mondo, o se ab eterno egli da te dipendesse; se tu avessi dotato l'uomo d'anima immortale; se tu fossi disceso a vestirti d'umanità... Come poteva io credere fermamente ne' sacramenti o nell'autorità del tuo pontefice, se dell'incarnazione del tuo figliuolo o dell'immortalità dell'anima era dubbio?... Pur m'incresceva il dubitarne, e volentieri l'intelletto avrei acchetato a credere quanto di te crede e pratica la santa Chiesa. Ma ciò non desiderava io, o Signore, per amore che a te portassi e alla tua infinita bontà, quanto per una certa servile temenza che aveva delle pene dell'inferno; e spesso mi sonavano orribilmente nell'immaginazione l'angeliche trombe del gran giorno de' premj e delle pene, e ti vedeva seder sopra le nubi, e udiva dirti parole piene di spavento, _Andate, maledetti, nel fuoco eterno_. E questo pensiero era in me sì forte, che qualche volta era costretto parteciparlo con alcun mio amico o conoscente...; e vinto da questo timore, mi confessava e mi comunicava nei tempi e col modo che comanda la tua Chiesa romana: e se alcuna volta mi pareva d'aver tralasciato alcun peccato per negligenza o per vergogna, replicava la confessione, e molte fiate la faceva generale. Nel manifestare nondimeno i miei dubbj al confessore, non li manifestava con tanta forza nelle parole, con quanta mi si facevano sentir nell'animo, perciocchè alcune volte era vicino al non credere... Ma pure mi consolava credendo che tu dovessi perdonare anche a coloro che non avessero in te creduto, purchè la loro incredulità non da ostinazione e malignità fosse fomentata; i quali vizj tu sai, o Signore, che da me erano e sono lontanissimi. Perciocchè tu sai che sempre desiderai l'esaltazione della tua fede con affetto incredibile, e desiderai con fervore piuttosto mondano che spirituale, grandissimo nondimeno, che la sede della tua fede e del pontificato in Roma sin alla fin de' secoli si conservasse; e sai che il nome di luterano e d'eretico era da me come cosa pestifera aborrito e abominato, sebben di coloro che per ragione, com'essi dicevano, di Stato vacillavano nella tua fede e all'intera incredulità erano assai vicini, non ischivai alcuna fiata la domestichissima conversazione». Questa devozione ipocondriaca l'accompagnò il resto di sua vita: e quando il papa lo invitò a Roma per ricevere in Campidoglio la corona di poeta, egli non volle alloggiare che nel convento di Sant'Onofrio, dove morì prima di conseguire quella sospirata onorificenza. Allora soltanto tacquero le invidie; pe' cui punzecchiamenti egli aveva diffidato di se medesimo a segno, che rifuse il suo poema da _Gerusalemme Liberata_ in _Gerusalemme Conquistata_. Tra molt'altre novità, in questa introdusse la profezia delle turbolenze religiose di Francia, e il modo di porvi fine accenna nel diritto allora accettato, per cui il papa era arbitro delle corone: ei solo il re può dare al regno E il regno al re, domi i tiranni e i mostri E placargli del cielo il grave sdegno[309]. Pei Francesi, idolatri della monarchia anche quando trucidano Enrico III o decapitano Luigi XVI, quest'era un'eresia: laonde la _Gerusalemme Conquistata_ fu proibita dal Parlamento di Parigi «per idee contrarie all'autorità del re, e attentatoria all'onore d'Enrico III e IV». Chi facea questa proibizione non era dunque il Sant'Uffizio, che invece recò famosi disturbi ad un avversario del Tasso, Galileo Galilei. — Galileo, sommo astronomo, scoperse che la terra gira attorno al sole. Questa dottrina era contraria agli asserti della Chiesa, e perciò la Santa Inquisizione lo colse, lo incarcerò, lo mise alla tortura; nè sfuggì di peggio se non col ritrattarsi, e stando ginocchione in camicia avanti agli inquisitori dichiarare che la terra è ferma; ma nel pronunziarlo soggiunse «Eppur si muove»[310]. — Tale è il racconto leggendario, insegnato nelle scuole, declamato dai romanzieri e dai parlamentari, dipinto, litografato; sicchè viene tacciato di pregiudizj e d'ignoranza chi attentamente abbia studiato i fatti, e maturamente asserito che è lontanissimo dal vero. Già il moto riformatore delle scienze sperimentali era cominciato; l'Aldrovandi, il Cesalpino, il Mattioli aveano ristaurato la storia naturale: Aquapendente la chirurgia; Vanelmonzio la chimica; Sarpi e Porta l'ottica; Eustachio, Falloppio, Vesalio, Fracastoro l'anatomia; i Lincei, fondati nel 1603 da Federico Cesi, aguzzavano l'occhio sugli arcani della natura. Viveva allora Bacone, al quale il titolo di restauratore della scienza s'addice ben meno che a Galileo, chè, sebben questi nascesse tre anni dopo, e sopravvivessegli quindici anni, le sue scoperte fece avanti il 1620 in cui comparve l'_Organon_. Ma mentre Bacone pretendeva dare un _organo_, un metodo per fare invenzioni, e nulla inventò, Galileo che inventò tanto, credea derivassero da intuito, da ispirazione. «Una mattina, mentre ero alla messa (scrive a frà Fulgenzio Micanzio) mi cadde nella mente un pensiero, nel quale poi più profondamente internandomi, mi vi sono venuto confermando, e m'è parso più sempre ammirando come, per modo stupendo di operar della natura, si possa distrarre e rarefare una sostanza immensa, senza ammettere in essa veruno spazio vacuo». E a Marco Welser: «Da virtù superiore per rimoverci da ogni ambiguità vengono inspirati ad alcuno metodi necessarj, onde s'intenda la generazione delle comete essere nella regione celeste». E nei Dialoghi, parlando della scoperta del Gilberto sulle calamite: «Io sommamente laudo, ammiro e invidio gli autori per essergli _caduto in mente_ concetto tanto stupendo circa a cosa maneggiata da infiniti ingegni sublimi, nè da alcuno avvertita... L'applicarsi a grandi invenzioni, mosso da piccolissimi principj, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi contenere arti meravigliose, non è da ingegni dozzinali, ma sono concetti e pensieri di spiriti sovrumani». E delle proprie invenzioni parla sempre come di congetture, di ipotesi. Così avesse continuato rimpetto al Sant'Uffizio. Instauratore della filosofia e della scienza, che portò nel campo della sperienza sagace e spregiudicata, il maggior merito di Galileo non è d'astronomo: l'osservar i satelliti di giove, e le macchie del sole e l'anello di saturno[311] e le fasi di venere, poteva farsi anche da un mediocre, armato di discreto cannocchiale; e ogni dì, quasi solo pei raffinati stromenti, a simili scoperte arrivano persone anche novizie nell'astronomia. Quelle tre scoperte astronomiche di Galileo, sono dal Delambre giudicate ben piccola cosa a fronte delle tre leggi di Keplero, delle quali nessun'idea s'aveva, anzi urtavano le ricevute, e alle quali esso arrivò con venti anni di studj ostinati; e furono esse che condussero Newton a riconoscere la legge universale della gravitazione[312]. Ma solo coll'ingegno e con istudio grande egli potè determinar le leggi della gravità, e calcolare gli effetti della forza, malgrado l'incrociarsi de' fenomeni e l'ingombro dei pregiudizj, creando la dinamica. Fin a lui non eransi considerate le forze che come agenti su corpi in istato d'equilibrio: e sebbene l'acceleramento de' gravi, e il moto curvilineo de' projettili non potesse attribuirsi che all'azione costante della gravità, nessuno prima di Galileo avea formulato il principio delle velocità virtuali, fondamento della meccanica e della scienza dell'equilibrio. _I discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze_, stampati a Leida il 1638, poco furono stimati allora, mentre Lagrangia li riconosce pel titolo più solido della sua gloria[313]. Eppure Galileo fu ammirato subito come astronomo, e sol tardi come meccanico. Per riconoscer il primo merito bastava l'occhio; per l'altro occorre penetrar seco in ricerche elevate; per quello l'entusiasmo popolare lo acclamava; per questo era contrariato dai sapienti, sconosciuto, fischiato. E non solo dai concittadini, caso troppo ordinario; ma il gran Cartesio, che viaggiava onde ne' colloquj co' dotti raggiungere la verità, venne a Firenze quando Galileo era nel maggior rinomo, e non cercò tampoco vederlo: in una lettera al padre Mersenne mostra conoscerne le opere, ma non avervi trovato cosa degna di serio esame. Tanto vale il giudizio dei contemporanei! e una prova ce ne darebbe in Galileo stesso, che, mentre dice che alle magagne del sistema di Tolomeo rimedia il copernicano, non accenna che il vero medico n'era Keplero collo sbandir tutti quegli eccentrici ed epicicli; nè di lui fa cenno che una volta sola nei dialoghi, per combattere come assurda e inetta e degna di star fra le cause occulte l'ipotesi d'attribuire la marea alla combinata azione della luna e del sole, mentre Galileo l'assegnava al doppio movimento della terra[314]. Quest'ingiustizia non iscusa in parte le usategli da suoi connazionali? Se i più con Tolomeo tenevano che piana fosse, e immobile stesse la terra, e attorno ad essa rotassero i pianeti, pure non erano mai mancati fautori al sistema, già dato dall'antichissimo Pitagora, che fa la terra rotonda e girante attorno al sole, centro immobile. Più volte noi in libri di tutt'altro intento cercammo inaspettatissime rivelazioni scientifiche. A tacer di Dante, che riconosce gli antipodi e l'attrazione centrale, il beato Giordano da Rivalta, predicatore del secolo XIV di cui parlammo, dice: «Chi fosse sotto alla terra, all'altra faccia del mondo di sotto, si terrebbe i piedi suoi incontro a' piedi nostri, e le piante de' piedi suoi si pareggerebbero colle nostre. Tu diresti: _or dunque come può stare colaggiù?_ Dicoti: perchè a quel che fosse colaggiù parrebbe esser di sopra, ed esser ritto come te. E così se fosse levato in alto, cioè inverso giù, ricadrebbe inverso la terra, come qui uno che cadesse d'una torre. Imperciocchè d'ogni parte gli parrebbe che il cielo fosse altissimo sopra capo: e di verità così è, nè più nè meno». Fin dal 13 dicembre 1304 questo frate ignorante ne sapeva dunque quanto Newton sugli antipodi e sulla forza centripeta. Virgilio vescovo di Salisburgo aveva insegnato la stessa dottrina; la ciancia è che papa Zaccaria lo minacciasse di scomunica se ostinavasi a sostenere _quod alius mundus et alii homines sub terra sint_[315]: il fatto è che Gregorio IX lo pose fra i santi. Il moto della terra fu preconizzato da Nicolò da Cusa[316], che pur fu fatto cardinale, e sepolto in San Pietro in Vincoli a Roma. E Nicolò Copernico prussiano, allievo dell'Università bolognese e maestro nella romana, appoggiato al metafisico argomento che la natura adopera sempre le vie più semplici, e che bellezza e semplicità appariscono meglio nel sistema pitagorico, sostenne che la terra, come gli altri pianeti, giri attorno al sole. Da prelati insigni eccitato, pubblicò le _Rivoluzioni degli orbi celesti_, e dedicandole a Paolo III, tratta d'assurda la immobilità della terra, e «se mai ciancieri, ignoranti di matematiche, pretendessero condannare il mio libro per rispetto a qualche passo della Scrittura, stiracchiato al loro proposito, ne sprezzerò i varj attacchi... Lattanzio ha detto baje sulla forma della terra: e in oggetti matematici si scrive per matematici». Dai pregiudizj dunque dei dotti e dalle calunnie de' malevoli Copernico chiede protezione a chi? al capo della Chiesa. I distillatori d'intenzioni affermano non fu perseguitato sol perchè morì appena uscita l'opera! ebbene: l'anno stesso Celio Calcaguini aveva in cattedra professato _quod cœlum stet, terra autem moveatur_. Anteriormente a tutti questi Gian Alberto Widmanstadt, trovandosi a Roma nel 1533, in presenza di Clemente VII, di due cardinali e d'illustri personaggi espose il sistema pitagorico, e n'ebbe in dono dal papa l'opera greca di Alessandro Afrodiseo _Del senso e del sensibile_, bel codice che ora conservasi in Monaco, e sul quale egli medesimo fece annotazione di questo accidente[317]. Il padre Antonio Foscarini carmelitano, da Napoli partendosi per predicare a Roma, scrisse una lunga e non inelegante lettera al generale del suo Ordine, cercando conciliare la teorica de' Pitagorici e di Copernico coi passi scritturali che sembrano repugnarvi[318]: e che saviamente dice non doversi prender sempre letteralmente. Oltre questi, enumera le opinioni di coloro che mettono il cielo in alto, la terra al basso, l'inferno nel centro, o che credono, dopo il giudizio finale, il sole rimarrà stabile all'oriente, la luna all'occidente. Chi sorride a tali difficoltà, s'immaginerà quali sieno le risposte che seriamente egli vi oppone; e sebbene il Montucla, dotto e imparziale storico delle matematiche, la giudichi opera giudiziosa, a me non pare che egli accampi una sola ragion concludente: il suo achille è l'analogia fra il sistema planetario e il candelabro mosaico di sette rami; fra i pianeti e il frutto vietato del paradiso terrestre, e perfino l'abito sacerdotale di Aronne, e il fico d'India, e il melogranato; ad ogni simbolo, ad ogni frutto allegando tutti i passi della Bibbia ove son mentovati, o che possono, per quanto faticosamente, trascinarsi a provare il sistema mondiale. Qui non ci sarebbe che da compatire: ma adoprando il metodo stesso, molti riuscivano ad infirmare l'autorità biblica, e meritavano la disapprovazione della Chiesa per ciò, non perchè ella professasse nimicizia originale contro una dottrina che non l'offendeva. Dicasi piuttosto che questa era contrariata dal testimonio dei sensi nel vulgo, e peggio ancora dai pregiudizj negli scienziati, cui rincresceva disimparare l'imparato, rinnegar la fede in Tolomeo e in Aristotele, e confessare i meriti d'un contemporaneo. E appunto per intendere l'elevatezza di Galileo, giova considerar la bassezza de' suoi contradditori; e la distanza ne spiega l'invidia e la persecuzione. I platonici credeano il cielo governato da forze speciali, che nulla avessero di comune colla terra. I peripatetici eransi fabbricata un'astronomia a priori, e tutto sottometteano all'argomentazione. Il Chiarimonti di Cesena, in un'opera del 1632, sillogizzava siffattamente: «Gli animali che si muovono hanno membri e flessure; la terra non ne ha, dunque non si muove... I pianeti, il sole, le fisse, tutti sono d'un genere solo, che è quello di _stelle_; dunque o tutti si muovono, o tutti stanno fermi... È un grave sconcio il mettere fra i corpi celesti puri e divini la terra, che è una fogna di materie impurissime». Altri filosofi _in libris_, come Galileo li chiama, credeano l'ipotesi del moto della terra irreverente alla sapienza antica. Un buon credente argomentava: «Nel cielo empireo non siede Iddio colle anime beate? Se è simile alle altre sfere, ecco distrutta quella credenza». Quando Keplero, con ardite eppur ragionate ipotesi suppose che fra marte e giove esistesse un nuovo pianeta, verità provata solo dopo cencinquant'anni, il Sizzi astronomo di Firenze lo ripudiava perchè, come non v'ha che sette fori nella testa, che sette metalli, che sette giorni nella settimana, che sette rami al candelabro ebraico, e a sette mesi il feto è perfetto, così non può esservi che sette pianeti. Cristoforo Clavio gesuita, proclamato l'Euclide de' suoi tempi e consultato dal Galilei sopra i suoi studj di geometria nel 1588, quando udì scoperti satelliti a giove, sorrise dicendo: «Sì! prima d'uno stromento per vederli bisognerà uno stromento onde fabbricarli». Un genetliaco soggiungeva: «Come credere a' tuoi pianeti medicei se non puoi mostrarmene l'influenza?». Rappresentavansi mascherate per celiare le lune di giove; la corte di Francia esibiva doni a Galileo se trovasse astri da chiamare _borbonici_, come _medicei_ aveva intitolati quelli; e allorchè egli, lasciando cascare un grave dalla torre inclinata di Pisa, convinse d'erroneo il teorema d'Aristotele che proporzionava la celerità al peso, destò tale un vespajo, che dovette da quell'Università migrare a quella di Padova, sotto un governo che alle opinioni filosofiche usava la tolleranza che negava alle politiche. Esperienza, esperienza, esclamavano altri: un sasso gittato in alto non ricadrebbe tante miglia lontano quante la terra ne girò in quell'istante? l'uccello spiccatosi dal suo nido, saprebbe più ritrovarlo se la terra si fosse roteata sotto di lui? Inoltre non è accertato che la luna gira attorno alla terra? perchè essa sola avrebbe tal proprietà? Alessandro Tassoni, pensatore così sagace e indipendente, faceva questa objezione, che, ridicola oggi, pure molti allora cattivò: «Stiasi uno nel mezzo d'una camera fermo, e miri il sole da una finestra prospiciente a mezzogiorno. Certo se il sole sta fermo nel centro e la finestra gira con tanta velocità, in un istante sparirà il sole da' colui occhi». Il Vieta, perfezionatore dell'algebra, intelletto eminentemente filosofico, nell'_Harmonicum cœleste_ che giace autografo nella Magliabechiana, sostiene che il sistema di Copernico deriva da una geometria fallace. Montaigne diceva «che non ci dee calere qual sia il sistema più vero dei due, e chi sa che una terza opinione da qui a mill'anni non rovesci le due precedenti?». Cartesio lo negò in alcun luogo. Gassendi non ardì proclamarlo, perchè il vide tanto contraddetto: Bacone lo derise come ripugnante alla filosofia naturale. Claudio Berigardo francese, professore a Pisa e a Padova, e autore dei _Circoli pisani_, reputato fra i più arguti pensatori in filosofia, lo confutò nelle _Dubitazioni per la immobilità della terra_. Pascal, negli stupendi suoi Pensieri, poneva: «Trovo bene che non s'approfondisca l'opinione di Copernico»[319]. Non solo ignoranti dunque, non frati soli impugnavano una verità, enunciata inesattamente, nè corredata di tante prove quante oggi[320]. Gli è vero che la scoperta dei satelliti di giove e di saturno, l'assicurata rotazione di marte e giove, le fasi di venere e mercurio traevano ad indurre che altrettanto avvenisse della terra, giacchè ad un osservatore posto in quelli si offrirebbero i fenomeni medesimi che a noi, ma troppi dubbj restavano quando non s'erano ancora poste in chiaro l'aberrazione, la depressione della terra ai poli, il gonfiarsi delle acque sotto l'equatore, il variar del pendolo col variare di latitudine. Gran difficoltà facea pure la distanza delle stelle fisse, che rendeasi incalcolabile perchè mancava d'ogni parallassi annuale. Copernico credea _necessariamente circolare_ l'orbita degli astri, onde, se spiegava l'alternar delle stagioni mediante il parallelismo che in tutto l'anno conserva l'asse della terra, era costretto attribuire siffatta conservazione ad un terzo movimento. Galileo stesso dapprima credette, coi più, immobile la terra. Anche dopo convinto del sistema vero, non osava professarlo alla scoperta per tema delle beffe, colle quali, allora come adesso, si perseguita chi ha ragione troppo presto. Aggiungasi ch'egli stesso supponeva la terra girasse attraverso all'aria, la quale «non pare sia nella necessità d'obbedir al suo movimento[321]». Del resto perchè una verità si collochi stabilmente nella scienza non basta presentarla come un'ipotesi che più o meno spiega i fatti, ma studiarla in se stessa, discuterla, verificarne tutte le conseguenze. Oggi riconosciamo che niuno superò Galileo nel talento d'osservazione e nella sagacia a penetrar gli arcani della natura e scoprirne le leggi per arrivare alle primordiali dell'universo; e lo proclamiamo padre di quella che chiamiamo filosofia naturale. Ma per far valere queste verità di mezzo ai pregiudizj, egli ricorse alla polemica, la quale non sempre sceglie le armi più perfette; dell'ironia e dello scherzo si servì talvolta per cattivar gli spiriti, sino a sagrificare il genio all'abilità. Erasi dunque fatto una quantità di nemici, parte per la istintiva malevolenza del mondo contro gl'ingegni superiori, parte per aver flagellato gli Aristotelici inesorabilmente, repulsati gli attacchi con sarcasmi spietati, assalito egli stesso senza rispetto all'ingegno e alle sventure. In ciò appariva uomo, e chi osò cercare macchie nella sua vita com'egli nel sole, trovò che profondo nella filosofia naturale, non fa altrettanto nella religiosa e morale[322]; dapprincipio diede in sogni astrologici, mostrò noncuranza e disprezzo per qualunque scoperta non venisse da lui; debolezze di carattere attestare il suo contegno prima e durante il processo, e difetto di prudenza avanti, di fermezza poi. Ma il clero in quale opinione ebbe Galileo? Uno di quei paradossi che solleticano la curiosità irriflessiva dell'età nostra e che vedemmo adoprati sul conto di Dante, di Michelangelo, di altri, fu pure applicato al Galilei, spacciandolo per un libero pensatore, che tutta la sua vita intese a scassinare la Chiesa cattolica, pur fingendo esserle devoto «da ser Simplicio sempre, e con finissima ironia»[323]. Il grand'uomo sarebbe dunque stato un abjetto ipocrita, e troppo misericordiosa l'Inquisizione. Per provarlo, l'autore sofista adduce che Galileo in Venezia praticò molto frà Paolo Sarpi; cita suoi detti e scritti, fra cui un capitolo ove loda l'andar nudo e i primi popoli che «non portavano le mutande. Ma quanto era in altrui di buono e bello Stava scoperto da tutte le bande». Il Galileo ebbe la disgrazia d'avere una famiglia non legittima; ma due figlie naturali collocò in un convento a Firenze, come Dante le sue aveva poste a Ravenna e a Verona, e poichè diffettavano dell'età, espugnò con grand'istanza la dispensa da Roma, il che l'autore che confutiamo dice aver egli fatto per portare anche là entro l'apostolato anticattolico, o succhiellarne informazioni. Accettando questi fatti, ed escludendo le interpretazioni, che saranno smentite da tutta la nostra esposizione, appare che non poteva il Galileo essere in odore di santità presso il clero: pure ci è noto che il padre Foscarini, il padre Castelli, monsignor Ciampoli, il cardinale Conti e molti Gesuiti onorarono lui e le sue scoperte: a Roma fu sempre accolto con benevolenza e onorato da' Lincei; quando inventò il cannocchiale, i cardinali, smaniosi di vederlo, pregavanlo a recarvelo; il papa, al quale s'inginocchiò secondo l'uso, lo fe tosto alzare, prima che dicesse pur una parola: e il cardinale del Monte scriveva al granduca: «Il Galileo ne' giorni ch'è stato in Roma ha dato di sè molte soddisfazioni, e credo che anch'esso n'abbia ricevute, poichè ha avuto occasione di mostrar sì bene le sue invenzioni, che sono state stimate da tutti i valentuomini e periti di questa città non solo verissime e realissime, ma ancora meravigliosissime. E se noi fossimo in quella epoca romana antica credo che gli sarebbe stato eretta una statua in Campidoglio per onorare l'eccellenza del suo valore». In quell'occasione Galileo vi conobbe san Giuseppe Calasanzio, il quale diceva che il mondo diverrebbe un paradiso se tutti imparassero a leggere, scrivere e il catechismo. Ma quella ciurma che pare destinata dalla Provvidenza a far espiare il genio, cominciò a metter ombra ai timorati contro il sistema fin allora non sospetto; insulsi predicatori lo tacciarono d'una curiosità profanatrice[324]. Roma che, in tempi di contenziose innovazioni, non può rimanersi indecisa nella proclamazione del vero, doveva adombrarsi d'un filosofo, che le operazioni dell'intelletto sottometteva affatto alle leggi naturali, poichè ciò traeva in pericolo anche le verità metafisiche e morali. Il proclamare che bisogna attenersi unicamente all'esperienza, cioè ai sensi, se recava a dubitar del sopranaturale, autorizzava a chiedere come mai l'esperienza possa dimostrare che la materia è eterna, che essa genera il pensiero, che non Dio, non l'anima esistono. Finchè il moto della terra rimaneva ipotesi, non era essa in necessità di combinarlo coi passi scritturali, bensì quando fosse dato per certo. Ma se cominciasse ad acconciar i testi a tale significazione, troverebbesi condotta alla necessità di modificare l'intelligenza della Scrittura secondo modificavansi i sistemi fisici; nell'Università medesima si sarebbero dati al medesimo testo due sensi differenti, perchè vi si dibatteano due sistemi; e massime che le prove non erano perentorie. Saviamente il cardinale Baronio diceva: «La Scrittura insegna come si salga al cielo, non come il cielo sia fatto»: ma troppo spesso gli interpreti ebbero la smania di ravvisare nella Bibbia più di quel che vi appare, al modo che Macrobio, Servio, Gellio, Donato usavano coi classici; ed era comune dottrina che vi si trovasse un senso letterale, uno allegorico, uno morale, uno anagogico. Di ciò aveano fatto uso e abuso gli scolastici per le loro temerarie curiosità, ed ecco or minacciato il rinnovarsi di quegli eccessi. Era un tempo di transizione fra le credenze del medioevo, e la scienza dell'evo moderno; tempo perciò d'incertezza e di lotta. Al medioevo, che noi ci sforzammo di mostrare tutt'altro da quel che i pedanti lo denigrano, come un gran vuoto fra l'antichità e i tempi moderni, non mancarono mai cultori della scienza. Alcuni s'accontentavano dell'antica, traducendo, commentando, attenendosi all'_ipse dixit_. Altri, pur appoggiandosi ai classici, pretendeano all'indipendenza e al progresso, preparando materiali per un edifizio che, simile alle cattedrali d'allora, sarebbe compito sol col volgere de' secoli. Altri invece, rinnegando di proposito i vecchi, novità scientifiche ed arcani naturali chiedeano ad arti strane, all'ispirazione, alle scienze occulte, creando sistemi assurdi, teorie impossibili. Noi oggi non ne abbiamo paura, e ci contentiamo di beffarle; ma allora quell'audacia diveniva pericolosissima, giacchè in religione spingeva ad assurde eresie, in morale a pratiche incondite, a insociabilità, a ruine, dapertutto a gravissime temerità. La Chiesa, conservatrice eterna della verità incorruttibile, potea non reprimerle? Allorchè tutto metteasi in dubbio, e sollevavansi tante difficoltà senza risolverle, potea rimanervi indifferente l'autorità che si considerava custode e autrice del ben sociale come della salute eterna? Oltre dunque incorare e proteggere i lavori delle Università e de' monaci, la Chiesa condannava errori, che repugnavano non più alla fede che alla società, non più alla religione che al buon senso, come le osservazioni astrologiche, le pratiche teurgiche, le ricerche alchimistiche. Se gli erranti si ravvedevano, essa riceveali al perdono; se si ostinassero a intaccare i fondamenti della morale naturale come della rivelazione, li puniva coi mezzi che le dava la civiltà d'allora. Il sottoporre le verità divine alle dispute umane, e confonder nel metodo stesso la ragione e la fede, la storia mostra a quali conseguenze recò, a quali spaventosi disordini, e persecuzioni, e guerre. E allora appunto incaloriva il giansenismo, ond'era a temere ricomparisse anche in questo nuovo campo la questione sul senso privato nell'interpretazione della Scrittura. E dal cuore del giansenismo Pascal pronunziava: «L'autorità ha principal forza nella teologia, perchè questa è inseparabile dalla verità: per dare certezza alle materie men comprensibili dalla ragione, basta vederle nei libri santi: per mostrar l'incertezza delle più verosimili basta mostrare che non vi sono». Oggi una verità astronomica rimane isolata nel campo suo proprio; ma toccava all'universo sapere allorchè del cielo erasi formato quasi un mediatore fra l'assoluto e i contingenti, fra Dio e il mondo; nel cielo risedevano e le facoltà motrici della natura divina e le attive della natura terrestre: stromento del motore immobile, mobile eppur motore, gira con migliaja di astri attorno alla terra, fissa; donde la metafisica dell'astronomia: agente universale, raduna ciascuna forma e la sviluppa, donde la generazione spontanea, prodotta dal calore solare; ricetto di tutte le potenze misteriose, variamente le distribuisce fra i tre regni naturali, e le trasforma, donde la magia e le scienze occulte, e l'alchimia: co' suoi influssi governa la materia, gli spiriti, le intelligenze e gli avvenimenti; donde l'astrologia. Il pareggiare una innovazione filosofica ad un delitto sociale, non era un abuso, ma facoltà conferita dalla legge civile e canonica, riconosciuta e convalidata dalla coscienza pubblica. E il torto di Galileo consistette appunto nel volere, come fa specialmente in una lettera alla granduchessa, mescolare le verità rivelate colle scoperte fisiche, le considerazioni teologiche colle disquisizioni scientifiche, e insegnare in qual senso fossero a intendere i passi scritturali; a questi appoggiar teoremi che richiedevano dimostrazioni del calcolo e dell'esperienza. Che la Scrittura rivelata adotti le forme e le credenze popolari per farsi intelligibile, è consentito da tutti; e già Dante cantava nel IV del Purgatorio: Per questo la Scrittura condescende A nostra facoltate, e piedi e mano A Dio attribuisce, ed altro intende. Ma Galileo diceva che «nella Scrittura si trovano proposizioni false quanto al nudo senso della parola; che essa si espresse inesattamente sin in dogmi solenni per riguardo all'incapacità del popolo; che nelle dispute naturali essa dovrebb'essere riserbata nell'ultimo luogo, prevalendo l'argomento filosofico al sacro»[325]. Temendo che la scienza non si ingrandisse che per far guerra a Dio, i buoni se ne sbigottivano sin a repudiarla; solo dappoi gl'intelletti migliori compresero che la fede non ha paura di veruna dottrina; che la critica storica può mostrarsi indipendente e imparziale senza divenire irreligiosa; laonde delle vulgarità che si lanciarono contro la Chiesa a proposito di Galileo fe ragione il buon senso, distinguendo le asserzioni semplici dagli articoli di fede, i divieti positivi e necessarj dai provvedimenti prudenziali e disciplinari, gli oracoli della Chiesa dalle deliberazioni di un tribunale particolare. Al quale il Galileo fu denunziato quasi asserisse, egli o i suoi, che Dio è un accidente non una sostanza, non un ente sensitivo, e che i miracoli non sono letteralmente tali; onde il papa proferì: «Perchè cessi ogni scandalo, la Sacra Congregazione citi Galileo e l'ammonisca». Gl'Inquisitori soleano rimettere l'esame del fatto a _qualificatori_, specie di giurati che pronunziavano su materie a loro conosciute. La risposta che il famoso Clavio e tre altri Gesuiti diedero al cardinal Bellarmino, attesta che non ripudiavano le osservazioni di Galileo; solo trovavano arroganza il suo darle, non soltanto per opinione ipotetica, ma per verità assoluta. Il confondere le ragioni della filosofia cogl'interessi della teologia produsse che Cartesio fosse reputato avverso alla messa, attesa la sua ingegnosa distinzione fra lo spirito e la materia; che fossero riprovati Leibniz per le sue monadi e l'armonia prestabilita, Gassendi per gli atomi, Pascal pel peso dell'aria. Nei giorni stessi di cui parliamo i teologi protestanti di Tubinga anatemizzarono Keplero perchè la Bibbia insegna che il sole gira attorno alla terra: ed egli sbigottito volea distrugger l'opera sua, quando gli fu offerto un asilo in Graz, e i Gesuiti lo protessero anche contro le accuse di sortilegio avventategli dai suoi[326]. Avvenne altrettanto a Sternkammer in Inghilterra. L'accademia di Siviglia non riprovò Colombo che supponeva la terra popolata in giro? L'accademia di Francia non isgradì ai giorni stessi la proposta di navigar a vapore? Oggi stesso non vediamo i giornali, inquisizione moderna, tediare e peggio per titoli teologici? È l'eterna implacabilità de' saccenti. Galileo non potea sfuggirla, e gl'inquisitori, sopra informazioni di persone credute competenti, condannavano opinioni ch'erano già state proclamate all'ombra della tiara, e proferirono «falsa e contraria alle divine Scritture la mobilità della terra». Esso Galileo il 6 febbrajo 1616 da Roma scriveva a Curzio Pichena, segretario del granduca, trovarsi ben contento d'esser andato per dissipare le trame tesegli; già essersi rimosso ogni dubbio sulla sua persona. «Ma perchè alla causa mia viene annesso un capo che concerne, non più alla persona mia che all'università di tutti quelli che, _da ottant'anni in qua_ o con opere stampate o con scritture private o con ragionamenti pubblici e predicazioni o anche in discorsi particolari avessero aderito e aderissero a certa dottrina e opinione non ignota a V. S. I., sopra la determinazione della quale ora si va discorrendo per poterne deliberare quello che sarà giusto e ottimo, io, come quegli che posso per avventura esserci di qualche ajuto per quella parte che dipende dalla cognizione della verità che ci vien somministrata dalle scienze professate da me, non posso nè debbo trascurare quell'ajuto, che dalla mia coscienza come cristiano zelante e cattolico mi vien somministrato. Il qual negozio mi tiene occupato assai, e non senza profitto... Jeri fu a trovarmi in casa quella stessa persona che, prima costà dai pulpiti, e poi qua in altri luoghi aveva parlato e macchinato tanto gravemente contro di me: stette meco più di quattr'ore, e nella prima mezz'ora che fummo a solo a solo cercò con ogni sommessione di scusar l'azion fatta costà, offrendosi pronto a darmi ogni soddisfazione. Poi tentò di farmi credere non essere stato lui il motore dell'altro motore qui. Intanto sopraggiunsero monsignor Bonsi nipote dell'ecc. e rr. cardinale, il canonico Venturi e tre altri gentiluomini di lettere: onde il ragionamento si voltò a discorrere sopra la controversia stessa, e sopra i fondamenti sopra i quali si era messo a voler dannare una _proposizione ammessa da santa Chiesa da tanto tempo_. Dove si mostrò molto lontano dall'intendere quanto sarebbe bisognato in queste materie, e dette poca soddisfazione ai circostanti. I quali dopo tre ore di sessione partirono, ed egli restato tornò pure al primo ragionamento, cercando dissuadermi quello che io so di certo». E il 6 marzo: «Si sta per pigliar risoluzione sopra il libro e opinioni del Copernico intorno al moto della terra e quiete del sole, sopra la quale fu mossa difficoltà l'anno passato in Santa Maria Novella e poi dal medesimo frate qui in Roma, nominandola egli contro alla fede ed eretica. Ma per quello che l'esito ha dimostrato, il suo parere non ha ritrovato corrispondenza in santa Chiesa, la quale altro non ha ricevuto se non che tale opinione non concordi con le sante scritture; onde solo restano proibiti quei libri, i quali ex professo hanno voluto sostenere che ella non discordi dalla Scrittura; e di tali libri non c'è altro che una lettera di un padre Carmelitano stampata l'anno passato, la quale solo resta proibita. Didaco a Stunica agostiniano avendo, tre anni sono, stampato sopra Job, e tenuto che tale opinione non repugni alle Scritture, resta sospeso _donec corrigatur_, e la correzione è di levarne una carta nell'esposizione sopra le parole _Qui commovet terram de loco suo_. All'opera del Copernico stesso si leveranno dieci versi della prefazione a Paolo III, dove accenna non gli parere che tal dottrina repugni alle Scritture; e per quanto intendo, si potrebbe levare una parola in qua e in là, dove egli chiama due o tre volte la terra _sidus_... Io non ci ho interesse alcuno, nè punto mi ci sarei occupato se i miei non mi ci avessero intromesso». E al 12 marzo: «... Jeri fui a baciare il piede a sua santità, colla quale passeggiando ragionai per tre quarti d'ora con benignissima udienza... Le raccontai la cagione della mia venuta qua, dicendole come, nel licenziarmi dalle loro altezze ss., rinunziai ad ogni favore che da quelle mi fosse potuto venire, mentre si trattava di religione e d'integrità di vita e di costumi. Feci constare a sua santità la malignità de' miei persecutori e alcune delle lor false calunnie: e qui mi consolò col dirmi che io vivessi con l'animo riposato, perchè restavo in tal concetto appresso la sua santità e tutta la Congregazione, che non si darebbe leggermente orecchio ai calunniatori». Ma l'ambasciadore Pietro Guicciardini al 4 marzo avea scritto al granduca: «Il Galileo ha fatto più capitale della sua opinione che di quella de' suoi amici, ed il signor cardinale del Monte ed io e più cardinali del Sant'Offizio l'avevamo persuaso a quietarsi, e non stuzzicare questo negozio: ma se voleva tener questa opinione, tenerla quietamente senza far tanto sforzo di disporre e tirar gli altri a tener l'istessa, dubitando ciascuno che non fosse venuto altrimenti a purgarsi e a trionfar de' suoi emuli, ma a ricevere uno sfregio... Dopo avere informati e stracchi molti cardinali, si gettò al favore del cardinale Orsini... il quale in concistoro, non so come consideratamente e prudentemente, parlò al papa in raccomandazione di detto Galileo. Il papa gli disse che era bene ch'egli lo persuadesse a lasciare quell'opinione. Orsini replicò qualche cosa incalzando il papa, il quale mozzò il ragionamento, e gli disse che avrebbe rimesso il negozio ai cardinali del Sant'Offizio. E partito Orsini, il santo padre fece chiamar il Bellarmino e discorse sopra questo fatto; fermarono che questa opinione del Galileo fosse erronea ed eretica. E jer l'altro, sento fecero una congregazione sopra questo fatto per dichiararla tale; ed il Copernico ed altri autori o saranno emendati o ricorretti o proibiti. E credo che la persona del Galileo non possa patire, perchè come prudente vorrà e sentirà quello che vuole e sente santa Chiesa. Ma egli s'infuoca nelle sue opinioni, e ha estrema passione dentro, e poca fortezza e prudenza a saperla vincere... Il Galileo ci ha de' frati e degli altri che gli vogliono male e lo perseguitano; ed è in uno stato non punto a proposito per questo paese, e potrebbe mettere in intrighi grandi sè ed altri, e non veggo a che proposito nè per che cagione egli ci sia venuto, nè quello possa guadagnare standoci». A Galileo dunque non fu inflitto verun castigo nè penitenza dalla Congregazione dell'Indice, ma solo intimato di non parlare più del sistema di Copernico, e Paolo V l'assicurò che, vivo lui, non sarebbe più molestato. Non si proscrivea la dottrina, bensì il sostenerla pubblicamente come privata interpretazione della Bibbia, e Galileo riconobbe il decreto per prudentissimo e salutifero ad ovviare i pericolosi scandali dell'età; temerarj quelli che lo biasimavano; in Italia, e più a Roma sapersene meglio che dalla diligenza oltremontana. Il cardinal del Monte informava il granduca: «Egli si parte di qua con intera la sua reputazione e con laude di tutti quelli che hanno trattato seco: e si è toccato con mano quanto a torto sia stato calunniato da nemici i quali (come afferma egli medesimo) non hanno avuto altra mira che di pregiudicargli nella grazia di vostra altezza serenissima. Io che molte volte ho parlato con lui, e ho anche sentito quelli che son consapevoli di quanto è passato; assicuro vostra altezza serenissima che nella sua persona non è ad imputare il minimo neo, ed egli medesimo potrà dar conto di sè, e reprimere le calunnie de' suoi persecutori, avendo in scritto tutto quello che gli è occorso di produrre». Il granduca Cosimo II volle viaggiasse in letiga di corte, ed entrasse in Firenze con corteo di servi di corte: premure per un processato, o riparazioni, che non hanno certo i ministri odierni. E rimanga fisso che Galileo pretendeva alla fama di buon cattolico. Al balì Cioli scrivea: «Nessuno può revocare in dubbio la mia esemplare pietà, la mia cieca obbedienza ai comandamenti della Chiesa». Quando comparve al Sant'Uffizio, si mise in ginocchioni davanti ai cardinali supplicandoli nol dichiarassero eretico, di che gli verrebbe dolor sì acerbo, da preferire la morte; dal cardinal Bellarmino domandò un'attestazione qualmente non ebbe a far nessuna abjura delle sue dottrine ed opinioni, nè fu sottoposto a qualsiasi penitenza[327]: onde chi conosce il cuore umano e l'amor proprio dei letterati, forse dirà ch'egli si ostinasse a voler vittoria sopra gli oppositori, appunto perchè in questa parte sentivasi men sicuro che non sul campo delle matematiche, o forse perchè la contraddizione loro impediva il trionfo delle sue verità. Moriva fra ciò Gregorio XV e nel conclave del 1623, avendo la Spagna dato esplicitamente l'esclusione al cardinal Federico Borromeo, che nell'arcivescovado suo di Milano avea zelato le prerogative ecclesiastiche, risultò eletto Matteo Barberini fiorentino, che si chiamò Urbano VIII. Uom di mondo, arricchitosi ne' traffici; per disposizione naturale e per istudio del diritto e per usata con persone esperte, acquistò pratica delle cose diplomatiche, e più vi s'addentrò stando nunzio in Francia, dove già fin d'allora trattavansi gli affari di tutta Europa. Assunto papa in età fresca, con salute atletica; grande, bruno, venerabile d'aspetto, elegante nel vestire, di modi e moti aristocratici, parlava bene e su tutte le materie; acuto ad assalire, pronto a difendersi, scherzi e lepidezze amava più che la sua dignità nol comportasse, e più che nol lasciasse aspettare la irreprovevole sua condotta; prendeva in beffa e anche in ira chi gli contraddicesse, ma facilmente deponeva lo sdegno. Dilettavasi de' poeti moderni, poeta egli stesso, senza che ciò lo stogliesse dagli studj severi. Chiamò di Germania i dotti Luca Olstenio ed Abramo Eikellense, di Levante Leone Allacci, oltre il fior degli Italiani; agli ecclesiastici interdisse i traffici scolareschi; pubblicò migliorato il _Breviario romano_, correggendone egli medesimo gl'inni. Diffidava di quei che lo circondavano e massime de' diplomatici e de' cardinali addetti a questo o a quel principe, e non parole ma ne volea espresse dichiarazioni. Sebbene parlasse con tal aria ingenua, che ispirava fiducia a coloro che ancor credessero possibile in un principe la sincerità, in fatto dissimulava i proprj divisamenti. Sentendo alto di sè, non volea concistoro, non consulta, ma veder tutto da sè, e diceva: «Io intendo gli affari meglio di tutti i cardinali». Franco nel disapprovare i suoi predecessori; gli si faceva un objezione tratta da antiche costituzioni papali? rispondeva: «La decisione d'un papa vivo val meglio che quella di cento papi morti»; voleasi fargli adottare un'idea? bisognava esibirgli la contraria. Amò la pace, anche perchè esausto l'erario; e pure, non che difender il suo Stato, lo rese minaccioso; vi unì il ducato d'Urbino, e se mostravangli i monumenti di marmo de' suoi predecessori, diceva: «Io ne erigerò di ferro»; pose Forte Urbano alle frontiere di Bologna, fortificò Roma; istituì a Tivoli manifatture di armi; arsenali e soldati a Civitavecchia, dichiarata portofranco, in modo che i Barbareschi venivano a vendervi le prede fatte sui Cristiani. Cercò frenare Casa d'Austria e Casa di Savoja per conservare la libertà d'Italia, che allora riponeasi nell'equilibrio fra le potenze prevalenti; si offrì mediatore fra Spagna e Francia, e davvero per tutta Europa era invocato arbitro, ma non che decorosamente sostenere sì sublime parte, cogli ambasciatori chiacchierava, dissertava anzichè stringere, e piegavasi dal sì al no per capriccio, non per ponderazione. Ma se condiscendeva nelle materie temporali, stava irremovibile dove si trattasse delle spirituali. Da San Benedetto di Polirone nel Mantovano fe trasferire le ceneri della contessa Matilde in Vaticano, ponendole un mausoleo dov'è effigiato Arrigo V ai piedi di Gregorio VII, allusione significativa dell'onnipotenza papale. Essendo ancora nella porpora, avea egli scritto a Galileo il 15 giugno 1612, che leggerebbe i suoi libri «per confermarmi nella mia opinione che concorda colla vostra e ammirar con tutti il frutto del raro vostro intelletto»; fece versi in lode di esso; divenuto papa, lo raccomandò caldamente al granduca[328] ed assegnò una pensione a lui e a suo figlio Vincenzo; accettò la dedica del _Saggiatore_ di esso, stampato dai Lincei: l'esortò venisse a trovarlo, come ei fece la primavera del 1624, quando seco s'intertenne a lungo sopra le sue teorie astronomiche. Intanto Galileo avea scritto sulle macchie solari e sul flusso e riflusso, e mandandoli al granduca, rammenta la proibizione fattagli; malgrado quella, aver qui ragionato come se la terra si muova; ben vuole si consideri «come una poesia, ovvero come un sogno; tuttavolta anche i poeti apprezzano talvolta alcuna delle loro fantasie: io parimente fo qualche stima di questa mia novità». Realmente non cessava di discutere, e mettere in ridicolo gli oppositori, e allegar sempre Giobbe e Giosuè e i santi padri; e gli scolari suoi scorrevano più in là. Poi nel 1632, con approvazione del maestro del sacro palazzo, se non carpita, sottratta con gli artifizj che conosce chi s'arrabatta colla censura, pubblicò il _Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolomaico e copernicano_, critica vittoriosa de' vecchi sistemi di filosofia naturale. Non era terminato, e proponeva un'altra giornata «per confutare in più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà somministrato, la detta opinione falsa e dannata». Mentre i dotti notavano spiegazioni false e monche, gl'invidiosi insusurrarono Urbano VIII perchè Galileo, dopo essere sì umanamente trattato, non solo fallisse alla promessa di non più discorrerne, ma in quel dialogo avesse adombrato lui papa nel grossolano peripatetico Simplicio, e messe in iscena appunto le conversazioni che in proposito avea tenute con esso. Urbano, che avea le passioni d'uomo e di letterato, si risentì di quello scherno vero o supposto, mandò ad esaminare il libro alla Congregazione di cardinali, e questi lo rimisero all'Inquisizione perchè chiarisse in qual senso Galileo continuasse a sostenere quell'opinione. Allora egli fu citato a Roma. Avrebbe potuto passare a Venezia o in Olanda, ove sarebbe stato accolto a braccia aperte: ma preferì obbedir alla citazione. Il processo di Galileo fu stampato dal cardinal Marini: un estratto ne fu dato dall'Alberi nel IX volume delle opere di Galileo. Ma dopochè Biot aveva sgomberato la storia da una menzogna e da una sciocchezza intorno alle sevizie usate a quel grande, il Perchappe, Bertrand ed Ernesto Renan[329] (oltre il Libri) tornarono a rilevarla, dicendo che, stando il processo in mano d'ecclesiastici, possono averne cancellato ogni cenno di tortura. È argomento insulso verso persone che della tortura non si faceano scrupolo: è argomento strano, pel quale potrebbe torsi fede ad atti ed accuse qualunque. Pure noi vorremo lasciar da banda il processo, e citar le lettere e le informazioni che il ministro del granduca a Roma inviava a' suoi principi, caldi sostenitori del Galilei. Eccoli: 1632, 24 _agosto_. Sento da qualche amico ci sia pensiero non di proibir il libro, ma sibbene che si accomodino alcune parole... 5 _settembre_. Sua santità proruppe in molta collera, e all'improvviso disse che anche il mio Galilei aveva ardito di entrar dove non doveva; ed in materie le più gravi e le più pericolose che a questi tempi si potessero suscitare... e d'aver decretata una congregazione di teologi e d'altre persone versate in diverse scienze, gravi e di santa mente, che parola per parola pesavano ogni minuzia, perchè si trattava della più perversa materia che si potesse mai aver alle mani, tornando a dolersi d'essere stata aggirata da Galileo e dal Ciampoli... Aggiunse d'aver usato col signor Galilei ogni urbanità, perchè gli ha fatto penetrare quel che egli sa; e non ne ha commessa la causa alla Congregazione della Santa Inquisizione come doveva, ma a Congregazione particolare, creata di nuovo... 11 _settembre_. In effetto il papa vi ha senso, perchè tiene che s'incorra in molti pericoli della fede, non si trattando qui di materie matematiche, ma della scrittura sacra, della religione e della fede, perchè non è stato osservato il modo e l'ordine dato nello stampare il libro... 26 _dicembre_. Il Galilei sarà sicuramente ristretto d'abitazione, e posto in qualche necessità o di disdirsi o di scrivere contro a quel che ha pubblicato. Non ci sia negato di riflettere come la piccola Toscana, popolata di non un milione di anime, pesasse nella bilancia europea, fosse cerca da tutte le Corti, trafficasse in America e nelle Indie Orientali, creasse una flotta nel Mediterraneo, colla quale toglieva Bona ai Barbareschi, e sui Turchi riportava vittorie, che meritavano gli inni del Chiabrera e del Filicaja. E molto ascoltato n'era a Roma il ministro Niccolini, il quale assiduamente teneva informato il duca; e come la difficoltà consistesse in ciò che il Galilei, «sebbene si dichiara di voler trattare ipoteticamente del moto della terra, nondimeno, in riferire gli argomenti, ne parla e ne discorre poi assertivamente e concludentissimamente, ed ha contravvenuto all'ordine datogli nel 1616 dal cardinale Bellarmino d'ordine della Congregazione dell'Indice[330], e spesso torna a lagnarsi perchè si ostina a voler fare il teologo, e resiste agli amici che gli consigliano di prender aria ed evitare la lotta. Citato, il Galileo tardò cinque mesi: venticinque giorni consumò nel viaggiar da Firenze a Soma. Quivi giunto, prosegue il Niccolini, ai 13 marzo: Il papa mi rispose d'avergli fatto un piacer singolare, e non più usato con altri, in contentarsi che possa trattenersi in mia casa, invece del Sant'Uffizio... un cavalier di casa Gonzaga non solamente fu messo in una lettiga accompagnato e guidato fino a Roma, ma condotto in castello, e tenuto ivi molto tempo, fino all'ultimo della causa... Il cardinale Barberino disse lo stimava per uomo singolare, ma che questa materia è assai delicata, potendosi introdurre qualche domma fantastico nel mondo, e particolarmente in Firenze, dove gl'ingegni sono assai sottili e curiosi... Sua santità mi disse non credere si possa far di meno di non lo chiamar al Sant'Uffizio quando s'avrà a esaminare, perchè così è il solito. Io le replicai di sperare che la santità sua fosse per raddoppiare l'obbligazione con dispensarlo anche da questa, ma mi fu risposto di credere che non si potrà far di meno... e che Iddio gli perdoni di entrar in queste materie, tornando a dire che si tratta di dottrine nuove e della sacra scrittura, e che la meglio di tutte è quella di andar con la comune... che v'è un argomento al quale non hanno mai saputo rispondere, che è, che Iddio è onnipotente, e può far ogni cosa: se è onnipotente, perchè vogliamo necessitarlo? [331]. Conchiuse che gli avrebbe fatto dare certe stanze, che son le migliori e le più comode in quel luogo... 16 _aprile_. Dopo trasferito colà, il cardinale Barberino m'offerse tutte le comodità desiderabili, e che vi sarebbe tenuto non come in prigione nè in secrete, ma provisto di stanze buone, e forse anche lasciate aperte... Si procura che possa tenervi un servitore, e tutte le comodità... Il padre commissario del Sant'Uffizio lo ricevette con dimostrazioni amorevoli, e gli fece assegnar non le camere o segrete solite darsi ai delinquenti, ma le proprie del fiscale di quel tribunale; in modo che non solo egli abita fra i ministri, ma rimane aperto e libero di poter andare sin nel cortile... Si vede sarà spedito presto, perchè in questa causa s'è proceduto con modi insoliti e piacevoli... mentre si sa che vescovi, prelati o titolati, appena giunti in Roma sono stati messi in Castello o nel medesimo palazzo dell'Inquisizione con ogni rigore e con ogni strettezza. Anzi gli permettono che il suo servitore medesimo lo serva, e vi dorma, e quel ch'è più, vada e torni donde gli piace, e che i miei medesimi servitori gli portino di qui la vivanda in camera, e se ne tornino a casa mia mattina e sera... 25 _aprile_. Il signor Galilei... mi scrive giornalmente, ed io gli rispondo e gli dico il mio senso liberamente, senza che vi si pensi punto... 1 _maggio_. Il signor Galileo mi fu rimandato jeri a casa quando manco l'aspettavo, _ancorchè non sia finito il suo esame_, e questo per gli uffizj fatti dal padre commissario col signor cardinale Barberino, che da se stesso, senza la Congregazione dell'Indice, l'ha fatto liberare perchè possa riaversi dai disagi e dalle sue indisposizioni _solite_ che lo tenevano continuamente travagliato... 3 _maggio_. Il signor Galilei fu lasciato tornare in questa casa, dove pare sia tornato in migliore stato di salute. E perchè desidera che si venga all'ultima terminazione della sua causa, il padre commissario del Sant'Uffizio gli ha data qualche intenzione di venire a questo fine a trovarlo... 22 _maggio_. Parlai con sua santità della spedizione del negozio del signor Galileo, e mi fu data intenzione che la sua causa si terminerà facilmente nella seconda congregazione di giovedì a otto giorni. Posso ben dubitare assai della proibizione del libro, se non vi si rimediasse col fargli fare un'apologia da lui medesimo, come io proponeva a sua beatitudine. Ed a lui toccherà anche qualche penitenza salutare, pretendendo ch'egli abbia trasgrediti gli ordini nel 1616 datigli dal cardinale Bellarmino sopra la medesima materia del moto della terra. Io non gli ho ancor detto ogni cosa, perchè intendo, _affine di non l'affliggere_, d'andarvelo disponendo pian piano... 18 _giugno_. Ho di nuovo supplicato per la spedizione della causa del signor Galilei, e sua santità mi ha significato ch'ella è di già spedita, e che di quest'altra settimana _sarà chiamato una mattina_ al Sant'Uffizio per sentirne la risoluzione... Aggiunge che avea fatta volentieri ogni agevolezza al signor Galileo in riguardo dell'amore che porta al granduca, ma quanto alla causa non si potrà far di meno di non proibire quell'opinione perchè erronea e contraria alle sacre scritture. E quanto alla persona, dovrebbe egli per ordinario rimaner qui prigione per qualche tempo, per aver contravenuto gli ordini che teneva fin dal 1616, ma che, come sarà pubblicata la sentenza, mi rivedrà di nuovo, e tratterà meco di quel che si possa fare per manco male e per _manco affliggerlo_... ma che non si potrà far di meno di non lo rilegare in qualche convento, come in Santa Croce, per alcun tempo... Io non ho riferito al signor Galileo che la prossima spedizione della causa e la proibizione del libro, ma della pena personale non gliene ho detto niente _per non affliggerlo_, e anche sua beatitudine mi ha ordinato di non gliene conferire _per non lo travagliar_ ancora... 26 _giugno_. Il signor Galileo fu chiamato lunedì sera al Sant'Uffizio, ove si trasferì martedì mattina per sentire quel che potessero desiderare da lui, ed essendo stato ritenuto, fu condotto mercoledì alla Minerva avanti alli signori cardinali e prelati della Congregazione[332], dove non solamente gli fu letta la sentenza, ma fatta anche abjurare la sua opinione. La sentenza contiene la proibizione del suo libro, come ancora la sua propria condannazione alle carceri del Sant'Uffizio a beneplacito di sua santità, per essersi preteso ch'egli abbia trasgredito il precetto fattogli sedici anni sono intorno a questa materia. La qual condannazione gli fu solo permutata da sua beatitudine in una relegazione o confine al giardino della Trinità de' Monti, dove io lo condussi venerdì sera, e dove ora si trova, per aspettar quivi gli effetti della clemenza della sua santità. 3 _luglio_. Mi disse sua santità che, sebbene era un poco presto diminuirgli la pena, nondimeno s'era contentato di permutargliene prima nel giardino del granduca, ed ora che potesse arrivar fino a Siena, per star quivi in qualche convento a beneplacito... o appresso monsignor arcivescovo. Pensa poi di permettergli fra qualche tempo che se ne vada alla Certosa di Firenze. Egli stesso il Galileo dappoi, al 23 luglio, da Siena scriveva ad esso balì Gioli: Le scrivo spinto dal desiderio di liberarmi dal lungo TEDIO di una carcere di più di sei mesi, aggiunto al travaglio ed AFFLIZION DI MENTE di un anno intero, ed anco non senza molti incomodi e PERICOLI corporali; e tutto addossatomi per quei miei demeriti che son noti a tutti, fuorchè a quelii che mi hanno di questo e di maggior castigo giudicato colpevole. Dopo ciò, non so come basti fronte ai sofisti per supporre fin la brutalità di sevizie personali[333]. La prigione stessa, che pur toccò ai cardinali Polo e Moroni e al Caransa, fu risparmiata a lui[334], perchè non trattavasi di un punto di fede, bensì di matematica. E indegni figli d'Italia van supponendo che in Italia gli fosse inflitta la tortura! Eliseo Masini stimò bene di esporre in italiano il _Sacro Arsenale_, ovvero _Pratica dell'ufficio della santa Inquisizione_ (Bologna 1675); tanto poco si cercava di tener nascoste quelle procedure. Nella sesta parte vien egli a parlare della tortura. «Avendo il reo negato i delitti oppostigli, e non essendosi essi pienamente provati, s'egli, nel termine assegnatogli a far le sue difese non avrà dedotto a sua discolpa cosa alcuna, ovvero, fatta difesa, ad ogni modo non avrà purgato gl'indizj che contro lui risultano dal processo, è necessario, per averne la verità, venir contro di lui alla rigorosa esamina, essendo stata appunto trovata la tortura per supplir al difetto di testimonj, quando non possono intera prova portare contro il reo». E prosegue a dimostrare come ciò «punto non sconviene all'ecclesiastica mansuetudine e benignità». Ora nel caso del Galilei, nessuna di queste circostanze interveniva. Il Masini prosegue che, «perchè in negozio di tanta importanza si può facilmente commettere errore, o in pregiudizio notabile della giustizia, sicchè i delitti restino impuniti, o in danno gravissimo ed irreparabile de' rei, fa di bisogno che l'Inquisizione proponga prima, nella congregazione de' consultori del Sant'Offizio il processo offensivo e difensivo, e col dotto e maturo consiglio di essi si governi e adopri sempre»[335]. E spiegando a minuto le procedure varie, per ogni caso di tortura esige il previo consenso della sacra Congregazione. Or nella sentenza di Galileo è detto: _Judicavimus necesse esse venire ad rigorosum examen tui, in quo respondisti catholice_. Volesse anche dir la tortura, poichè rispose _catholice_ non gli fu inflitta. Galileo non si ostina: anche testè Proudon, amava meglio Galileo in ginocchio che in carcere; incalzato, non solo professa «non tener per vera la dannata opinione copernicana, e tener per verissima e indubitata l'opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della terra e la mobilità del sole», ma fin dal primo interrogatorio dichiara: «Del non aver io poi tenuta nè tener per vera la dannata opinione della mobilità della terra e stabilità del sole, se mi verrà conceduta, come io desidero, abilità e tempo di poterne fare più chiara dimostrazione, io sono accinto a farla, e prometto di ripigliare gli argomenti già recati (_per compiacenza di sottilizzare_, ha detto innanzi) a favore della detta opinione falsa e dannata, e confutarli in quel più efficace modo, che da Dio benedetto mi verrà somministrato». Abbastanza avrà patito quel grande nel vedersi obbligato a declinare le sue opinioni davanti a persone incompetenti e prevenute: perocchè la persecuzione ebbe i soliti effetti immorali; quei giudici disonorandosi col presumersi autorevoli in materie ad essi estranee, disonorandosi Galileo coll'abjurare opinioni di cui era convinto, e colla propria disdetta facendo credere ragionevole la persecuzione. Deploriamo gli errori umani, condanniamo questa implacabile nimicizia de' mediocri contro gli alti ingegni, e l'insanabile debolezza degli amici contro l'operosità de' nemici[336], ma non facciamone aggravio alla Chiesa, nè esageriamo i torti dell'Italia, attribuendo ad essa quel ch'è della natura umana. Forse non ebbe ben più serj travagli il gran Keplero? il quale in patria era atteggiato nelle burlette colla parte di buffone. Newton, che stabilì la legge più universale, la gravitazione, non solo fu combattuto da Fontenelle, da Cassini, da Bernouilli, ma il gran Leibniz l'imputava di materialismo, e i principj neutoniani trovava funesti alla religione. Nel caso nostro, Roma seppe rispettare un grande, di cui credea dover disapprovare gl'insegnamenti; mentre l'età nostra offrì ben diversi esempj in casi dove la persecuzione non era tampoco giustificata da profonde convinzioni. Galileo fu condannato alla prigione «per quanto tempo piacesse»; ma Urbano papa gliela commutò subito in relegazione nel giardino de' Medici sul delizioso Pincio. Vi si aggiungeva l'obbligo di recitar una volta la settimana i salmi penitenziali; ma questo se lo assunse sua figlia suor Maria Celeste, le cui lettere, scrittegli dal convento di San Matteo in Arcetri, tutte d'affetto e di pietà, appajono come un soavissimo ruscello tra la motta di quel processo[337]. Presto egli fu trasferito a Siena nel palazzo dell'arcivescovo suo amicissimo; e appena a Firenze cessò la peste, fu reso alla sua villa d'Arcetri, ove proseguì i lavori fin quando perdette la vista. Quivi il Galilei usava frequente la compagnia di varj frati, con altri era in amicizia, e principalmente con frà Bonaventura Cavalieri[338]. Benedetto Castelli, ai 16 marzo del 1630 scrivevagli: «Il padre Campanella, parlando i giorni passati con nostro signore, gli ebbe a dire che aveva avuto certi gentiluomini tedeschi alle mani per convertirli alla fede cattolica, e che erano assai ben disposti, ma che avendo intesa la proibizione del Copernico, erano restati in modo scandolezzati, che non ne aveva potuto far altro; e nostro signore rispose le precise parole seguenti: _Non fu mai nostra intenzione, e se fosse toccato a noi, non si sarebbe fatto quel decreto_»[339]. Vuol dire che il papa era servo del regolamento, e rispettava l'indipendenza de' tribunali, come si usa in ogni ben costituito reggimento. Galileo stesso da Arcetri il 26 luglio 1636 scriveva a frà Fulgenzio Micanzio, l'amico di frà Paolo Sarpi: «Di Roma intendo che l'eminentissimo cardinale Antonio e l'ambasciadore di Francia hanno parlato a sua santità cercando sincerarla come io mai non ho avuto pensiero di fare opera sì iniqua di vilipendere la persona sua, come gli scellerati miei inimici le aveano persuaso, CHE FU IL PRIMO MOTORE DI TUTTI I MIEI TRAVAGLI: e che a questa mia discolpa rispose, _Lo crediamo, lo crediamo_; soggiungendo però che la lettura del mio dialogo era alla cristianità perniziosissima». Aggiungiamo che il cardinale Cajetano aveva commesso al Campanella di scrivere l'apologia del Galilei; e quando questi era moribondo, san Giuseppe Calasanzio gli mandò uno de' suoi preti ad assisterlo: morto, fu deposto in Santa Croce. È natura dell'ingiustizia la difficoltà del ripararla, per non tornare sul giudicato, per non confessar il torto, per non mortificare il nostro amor proprio. E i libri di Galileo e quei che sostenevano il sistema copernicano rimasero nell'Indice _donec corrigantur_, tanto che ancora nel 1748 il celebre metereologo Toaldo avendo trovato nell'Università di Padova il dialogo di Galileo _intorno al sistema copernicano_, lo stampò, ma premettendovi la protesta dell'autore che il moto della terra non possa sostenersi se non come ipotesi; emendando i passi ov'era dato per teorema assoluto, e unendovi la dissertazione del Calmet, ove i passi scritturali sono cattolicamente combinati colla scienza[340]. Nel 1820 nelle scuole romane liberamente trattavasi della mobilità della terra non più in forma d'ipotesi; poi dall'Indice scomparve quella deformità, viepiù sconveniente quando Roma e gli Ordini religiosi diedero e danno tanti insigni astronomi e tanto favore a questa scienza. Nè taciamo che la prova della mobilità della terra con indizj fisici, vale a dire la deviazione progressiva del piano d'oscillazione d'un pendolo sospeso a un punto fisso, non fu trovata che ai giorni nostri da Foucault. Ma al vedere cotesta pertinacia in rinfacciare questo errore, si sarebbe indotti a dire che altro non se ne sia commesso. Del resto un giudizio erroneo di tribunal civile infirma forse la legge, o le istituzioni giuridiche? E appunto qui s'ingannò un tribunale ecclesiastico, non già il papa: foss'anche il papa, non pronunziava _ex cathedra_. Perocchè della Chiesa vanno distinti i pronunziati assoluti sulle verità di fede e morale, e quelli soltanto relativi ad esse o alla disciplina. Ai primi il fedele sottomette affatto la sua ragione; gli altri guarda con rispetto, senza però tenervisi obbligato di fede. In questa nostra mistura poi di male e di bene, di dottrine eterne e di opportune, c'è dei veri, pericolosi a un dato tempo, o che non voglionsi accettare alla cieca perchè ancora disputati: s'incolperebbe a buon dritto l'autorità tutrice che avvisa sopra di esse? E poichè in questo discorso ci occupammo assai d'uomini insigni, sia luogo a rammentare la conversione d'un illustre straniero. Nicolò Stenon di Copenaghen, lodato naturalista, visitò l'Italia e Roma, dove i discorsi di valenti persone lo fecero dubitare della religione protestante in cui era cresciuto. Venuto a Firenze il 1666, per istanza del Viviani fu dal granduca dato maestro al principe Ferdinando, «ordinandomi (così scrive lo Stenon medesimo) con questi precisi termini, che io gli insegnassi la filosofia cristiana; e venuto poi a dar principio all'esecuzione di questi suoi comandi, un'altra volta mi disse che io gli facessi ben capire, che v'era un altro principe superiore, alla cui autorità stanno sottoposti tutti i principi». Al convento d'Annalena tornò più volte per comprare manteche e simili cose, ove suor Maria Flavia del Nero[341], udito ch'egli era eretico, gli disse non potrebbe salvarsi, ed entrò seco in ragionamento dell'anima: egli con essa recitava l'Ave Maria, ma solo la metà, non potendo credere all'intercessione della beata vergine e de' santi: pure s'asteneva dalle carni il venerdì e sabato, e visitava chiese, a consiglio della pia, che lo mise in corrispondenza con dotti padri. Sempre però egli era trattenuto dalla vergogna di parere apostato, e più volentieri udiva la monaca parlarle del nostro Cristo, come le donne sanno fare cioè col cuore. In ciò lo coadjuvava la signora Arnolfini, moglie dell'ambasciadore di Lucca, finchè dopo lunghi discorsi e studio de' Padri, abjurò. Anche qui lasciamo la parola a lui stesso, che così scrive ad essa Arnolfini: Nell'ultima venuta costà di questa Corte, a cui ho l'onore di servire, promisi a vossignoria di spiegarle in carta le ragioni che mi aveano persuaso ad abbandonare la credenza luterana di cui era stato tenacissimo, e ad abbracciare la fede cattolica romana, da me per l'addietro aborrita. Ho tardato molto a soddisfare a questo mio debito; perchè stimavo di esser tenuto ad esporle tuttociò che appartiene a sì gran causa. Un tale assunto era materia piuttosto da volumi che da una lettera: e questo pensiere mi ha sospeso la penna più lungamente di quel che richiedevano e la mia promessa e il mio desiderio. Finalmente per servir più che posso la brevità, ho risoluto di restringermi a un solo articolo; ed a quello appunto, sopra del quale Iddio mi diede i primi impulsi per cercare sinceramente la verità di quel ch'egli avea rivelato alla sua Chiesa, e che dovea credersi da noi con fede divina, non soggetta ad errori. Certificato che fui della verità dell'articolo di cui le parlerò, non ebbi più dubbio veruno di esser tenuto ad abbandonare la credenza luterana: poichè, dove una religione erra in un punto sostanziale della fede, al certo non può essere da Dio, il quale, siccome per la sua infinita sapienza è incapace di errore, così per la somma sua veracità è incapace di mentire in quel che dice, ed ingannarci co' suoi detti; onde non può non essere una mera invenzione degli uomini qualunque sètta che discordi da quello che a noi consta essere stato rivelato da Dio alla sua Chiesa. E benchè io mi restringa ad un sol punto nella presente, non avrò difficoltà a render ragione degli altri, sopra de' quali piacesse a vossignoria di chiedermela. Mi ritrovava io in Livorno, dove ella si ritrovava, nel tempo della solennità del _Corpus Domini_; ed al veder portare in processione con tanta pompa quell'ostia per la città, sentii svegliarmisi nella mente quest'argomento: O quell'ostia è un semplice pezzo di pane, e pazzi sono costoro che gli fanno tanti ossequj; o quivi si contiene il vero corpo di Cristo, e perchè non l'onoro ancor io? A questo pensiero, che mi scorse l'animo, da un canto non sapea indurmi a credere ingannata tanta parte del mondo cristiano, qual è quella de' Cattolici romani, numerosa d'uomini svegliati e dotti; dall'altro non volea condannare la credenza in cui era nato ed allevato. E pure era forza il dire o l'uno l'altro: poichè non vi era nè vi è modo di conciliare insieme due proposizioni che si contraddicono, nè di poter reputar vera quella religione, che in un punto tanto sostanziale della fede cristiana andasse errata, e facesse errare i suoi seguaci. In questo stato capitai in Firenze per dimorarvi qualche spazio di tempo, a cagione della lingua italiana che qui si parla con fama di pulizia, e proseguir dipoi il mio viaggio a vedere il resto delle principali città dell'Italia. Qui, per soddisfare all'incertezza dell'animo mio agitato nell'accennato mistero dell'eucaristia, adoperai ogni possibile diligenza nel cercare la verità, confidato in Dio che mi avrebbe scorta la mente col suo lume a conoscere il vero che io cercava con sincerità di cuore; comunque l'educazione avuta fin dalla mia nascita nella credenza luterana mi facesse forza, e mi animasse al contrasto ed all'ostinazione nelle mie antiche opinioni. Non contento di trattare sopra tal materia con persone dotte, delle quali niuno può negare che molte non ve ne sieno fra i Cattolici, volli con mio agio chiarirmi de' testi originali della sacra scrittura e degli autori antichissimi, ed in più modi, e particolarmente in una famosa libreria di antichissimi manoscritti greci ed ebrei, a fine di non fidarmi delle versioni latine senz'altro esame, ma di riscontrarle co' testi originali delle accennate due lingue, giacchè per lo studio già fattone le possedevo. Insomma, dopo il molto conferire, il molto leggere ed un lungo esaminare e riscontrare quanto leggevo ed udivo, non potei non rimaner convinto e della verità che in fatti professano i Cattolici romani, e della falsità nella quale vivono ingannati i Luterani. Lo stesso avverrà a chiunque de' Luterani sinceramente si farà a cercare il vero: poichè Iddio non lascerà d'illuminare chi cerca la vera fede con cuor sincero, siccome per sua bontà ho sperimentato in me stesso. E perchè la fede divina, quale è quella con cui si crede nella vera Chiesa di Cristo, si dee fondare sulla parola divina, ecco a vossignoria come sopra tal fondamento mi son io fermissimamente persuaso di tre verità, che sono le sostanziali intorno al sagramento dell'Eucaristia, sopra del quale furono i miei primi dubbj, conforme le ho accennato. La prima che, in virtù delle parole della consacrazione per la forza onnipotente di Gesù Cristo nostro signore, il quale istituì il sagramento dell'Eucaristia, si fa la mutazione sostanziale del pane nel corpo di Gesù Cristo, e del vino nel sangue di lui: La seconda, che il corpo di Cristo non solo si ritrovi nel pane consacrato nel tempo dell'uso di tal sacramento, e fino alla comunione; ma ancora dipoi, e fuori dell'uso attuale; e lo stesso dee intendersi del sangue in ordine al vino consacrato, dove questo si conservasse: La terza, che non è contro la sacra scrittura, ossia la parola di Dio, l'amministrarsi il sagramento dell'Eucaristia solamente sotto una specie qual è quella del pane, anzi ciò è un rito convenevolissimo. Per discorrere distintamente incomincierò dalla prima verità. Questa con ogni chiarezza viene esposta nell'evangelio di san Giovanni al capo 6, dove si legge, come detto da Cristo N. S., _Panis quem ego dedero, caro mea est pro mundi vita_; e più sotto nel medesimo capo, dice il medesimo Signore: _Caro mea vere est cibus, et sanguis meus, vere est potus_. San Matteo poi, nel riferire l'istituzione di questo divinissimo sagramento nel capo 26, parla come segue: _Cœnantibus autem eis, accepit Jesus panem, et benedixit ac fregit, deditque discipulis suis, et ait: Accipite et comedite; hoc est Corpus meum. Et accipiens calicem, gratias egit, et dedit illis dicens: Bibite ex hoc omnes; hic est enim sanguis meus novi testamenti, qui pro multis effundetur in remissionem peccatorum_. Parimente san Marco parla dell'istesso tenore al capo 14. _Et manducantibus illis, accepit Jesus panem, et benedicens fregit, et dedit eis, et ait, Sumite; hoc est Corpus meum. Et accepto calice gratias agens dedit eis, et biberunt ex illo omnes, et ait illis: Hic est sanguis meus novi testamenti qui pro multis effundetur._ Così fa anche san Luca nel capo 22 del suo Evangelio. _Et accepto pane, gratias egit, et fregit, et dedit eis dicens: Hoc est corpus meum quod pro vobis datur. Similiter et calicem, postquam cœnavit dicens: Hic est calix novum testamentum in sanguine meo, qui pro vobis fundetur._ Finalmente l'Apostolo san Paolo, nell'epistola prima a' Corinti al capo 11 parla nel modo seguente: _Ego enim accepi a Domino, quod et tradidi vobis quoniam Dominus Jesus, in qua nocte tradebatur accepit panem, et gratias agens fregit, et dixit: Accipite et manducate, hoc est corpus meum, quod pro vobis tradetur: hoc facite in meam commemorationem. Similiter et calicem, postquam cœnavit, dicens: Hic calix novum testamentum est in meo sanguine_; e dopo soggiunge: _Itaque quicumque manducaverit panem hunc, vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini_. Su questi testi sì chiari della Scrittura divina fondano i Cattolici la loro dottrina ed indubitabile credenza intorno alla presenza reale del corpo di Gesù Cristo sotto le specie del pane, e del suo sangue sotto le specie del vino; nè si può dire altrimenti se non si vuol fare una manifesta violenza a' sensi chiarissimi di tali testi, conforme l'han fatta i Sacramentarj, gli Zuingliani, i Calvinisti e simili, i quali contro la verità hanno insegnato, che tali testi parlino metaforicamente e figuratamente, sicchè si abbia ad intendere che il pane sia una figura del corpo di Cristo, ed il vino lo sia del suo sangue. Niun uomo disappassionato si può figurare un tal senso in tali proposizioni per se stesse chiarissime, e quando non altro, una tale spiegazione si convince falsissima da ciò che si dice del corpo, _Quod pro vobis tradetur_; del sangue, _Qui pro vobis, qui pro multis effundetur_; poichè non la figura, ma il vero corpo e il vero sangue di Gesù Cristo fu quello che fu dato e fu sparso sulla Croce per la redenzione del genere umano, e per la remissione de' nostri peccati. Di più, come si possono accordare con tale spiegazione quelle altre parole in san Giovanni: _Panis, quem ego dedero, caro mea est pro mundi vita; Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus_? Posta l'accennata spiegazione, come poteva dire il Signore, che il pane che egli avrebbe dato è la sua carne, e che la sua carne e 'l suo sangue sono veramente cibo e veramente bevanda, se tutto si riduce ad una figura, ad un segno, ad un simbolo? Fondano ancora sopra de' medesimi testi i Cattolici romani quest'altra verità, che, in virtù della consacrazione, cessino le sostanze del pane e del vino, ed in vece loro succedono sotto quelle specie il corpo ed il sangue di Gesù Cristo. Lutero in questo punto ha parlato in diverse maniere, conforme può vedersi nelle sue scritture a que' di Argentina, a' Valdesi ed altri, discordando da se medesimo. I suoi primi discepoli hanno insegnato, e dietro ad essi insegnano e credono i seguaci della loro credenza, che nel tempo dell'uso del sagramento vi sia bensì la reale presenza del corpo e del sangue di Cristo, ma unitamente anche le sostanze del pane e del vino; il che è negato costantemente da' Cattolici, e si prova naturalissimamente da' medesimi testi soprallegati, a non voler cavillare ed interpretare di capriccio la parola di Dio, ma secondo il suo vero e naturale senso, conforme è di ragione che se ne intenda il significato. Imperocchè, come si può verificare in senso reale (non avendo più luogo il mistico o figurato de' Sacramentarj e loro partigiani, impugnati da' medesimi Luterani, non che da' Cattolici romani) il detto di Cristo, _Il pane che io vi darò è la mia carne: questo è il mio corpo: questo è il mio sangue_; siccome egli disse del pane che aveva in mano, e del vino che era nel calice da lui tenuto in mano? Imperocchè sarebbe stato necessario, per avverarsi ciò in senso reale, che veramente il pane fosse il suo corpo, ed il vino fosse il suo sangue; rimanendo quello pane, e questo dell'essere sostanziale di vino: il che ognun vede che è cosa impossibile, e che rinchiude implicanza. Adunque il senso legittimo e naturale di tali testi è quello che insegnano i Cattolici, secondo il quale le predette proposizioni della sacra scrittura portano la vera e reale mutazione del pane nel corpo, e del vino nel sangue del Signore; sicchè il senso sincero sia: _Quello che vi do sotto l'apparenza, o specie del pane, non è più pane ma il mio corpo sotto le specie del pane_; e lo stesso si dica del vino consacrato; siccome nelle nozze di Cana Galilea, mutata l'acqua in vino per l'onnipotenza del Signore, non rimase già la stessa cosa acqua e vino, ma quella fu tramutata in questo. Certo sarebbe una mostruosa interpretazione di quelle parole dell'evangelio di san Luca al capo 7, _Cœci vident, claudi ambulant etc._, se si desse loro questo senso che coloro fossero insieme ciechi e veggenti, storpi e raddrizzati a camminare; mentre il senso vero naturale delle citate parole è: _Quei che erano ciechi, ora non son più ciechi, ma veggono; quei che erano storpj o zoppi, ora non sono più storpj o zoppi, ma sono abilitati nella persona a poter camminare_. Nè questo intendimento avuto per vero e legittimo da' Cattolici romani contro gl'insegnamenti de' Sacramentarj e loro simili, e de' Luterani, è una cosa nuova nella Chiesa di Cristo, come han preteso que' che sono contrarj alla Chiesa romana, ma è antichissimo nella Chiesa, e tramandato a noi di secolo in secolo fino dal primo in che Gesù Cristo la fondò, come cosa chiarissimamente fondata nella parola di Dio, espressa nei testi sopracitati, alla quale non si può dare altra legittima spiegazione. Per isfuggire lunghezze maggiori porterò qui a vossignoria alcune autorità di quelli che hanno scritto ne' primi cinque secoli, uomini dottissimi e che sono venerati anche da' Luterani, come gran maestri della Chiesa di Dio; per le quali si vede che la Chiesa romana di mano in mano ha sempre seguita e insegnata la vera fede insegnataci da Cristo, e che le sue dottrine non sono inventate dagli uomini dopo più secoli dalla fondazione della Chiesa, per politica, o per altri motivi e disegni umani, conforme senza ragione han preteso i suoi avversarj. Tralascio quello che si ha negli atti del martirio di sant'Andrea apostolo descritti da' suoi discepoli, che furono presenti alla sua passione e morte, per ristringermi a' soli dottori. Nel primo secolo scrissero adunque sant'Ignazio vescovo e martire, e san Dionisio areopagita, ancor esso illustre per i medesimi pregi, ambedue contemporanei degli apostoli. Il primo, nella sua epistola a' cittadini di Smirne, scrivendo di quegli eretici, i quali negavano che Cristo avesse vera carne, così dice: _Eucharistias et oblationes non admittunt, quod non confiteantur eucharistiam esse carnem Salvatoris, quæ pro peccatis nostris passa est, quam pater sua benignitate suscitavit_. Il secondo, nel libro _De Hierarchia eccles._ cap. 3, parte 3, oltre le molte cose che dice di questo sagramento, così a lui parla: _O divinissimum et sacrosanctum sacramentum, abducta tibi significantium signorum operimenta aperi, et perspicue nobis fac appareas, nostrosque spirituales oculos singulari et aperto tuæ lucis fulgore imple_. Una tale invocazione pazzamente, anzi empiamente si farebbe al sagramento, se questo fosse pane lavorato di frumenti, e non pane celeste e divino, qual è il corpo di Gesù Cristo. Nel secondo secolo, cioè dal cento al dugento, fiorirono san Giuliano e sant'Ireneo. Il primo nell'Apologia al capo 2 verso il fine, asserisce che quel cibo del quale ci alimentiamo, cioè il pane santificato dalla parola di Dio, è la carne del Signore; e le sue parole sono: _Sic etiam per preces verbi Dei ab ipso eucharistiam factum cibum, ex quo sanguis et carnes nostræ per mutationem aluntur, illius incarnati Jesu et carnem et sanguinem esse edocti sumus_. Il secondo, nel lib. IV, al capo 34, dice: _quomodo constabit eis, eum panem, in quo gratiæ actæ sunt, esse corpus Domini sui_. Sicchè l'uno e l'altro vuole che sia vera questa proposizione: _Il pane consacrato è il corpo del Signore_; ma senza la mutazione del pane nel corpo del Signore non può essere vera, poichè il pane rimanendo pane, mai non può essere il corpo del Signore, siccome abbiam detto di sopra. Nè io replicherò quest'argomento intorno alla seguente autorità, perchè lo stimo superfluo; potendo ognun vedere che tutte si tiran dietro le suddette mutazioni, se non vuol farsi volontariamente cieco per non vederlo. Nel terzo secolo scrissero Tertulliano e san Cipriano. Il primo nel libro IV contro Marcione, dice di Cristo: _Acceptum panem corpus suum facit dicendo: Hoc est corpus meum_. Il secondo nel sermone _De Cœna Domini_ dice: _Panis iste, quem Dominus discipulis porrigebat, non effigie, sed natura mutatus omnipotentia verbi, factus est caro_. Nel quarto secolo scrissero Cirillo Gerosolimitano, Ambrogio vescovo di Milano, san Gregorio Nisseno, e san Gaudenzio. Il primo nella sua Catechesi 4. Mystagog, così dice: _Aquam aliquando mutavit in vinum, et non erit dignus cui credamus quod vinum in sanguinem transmutavit_? E poco poi dice: _Sub specie panis datur tibi corpus, et sub specie vini datur tibi sanguis_; e più abbasso: _Hoc sciens et pro certissimo habens panem hunc qui videtur a nobis, non esse panem, etiamsi justus panem esse sentiat_. Il secondo nel libro _De iis qui initiantur mysteriis_, al capo 9 dice della consecrazione dell'eucaristia: _Quantis utimur exemplis ut probemus non hoc esse quod natura formavit, sed quod benedictio consecravit, majoremque vim esse benedictionis quam naturæ, quia benedictione etiam natura ipsa mutatur_? Il terzo _in oratione magna cathechetica_ al capo 37, così scrive: _Recti Dei verbo sanctificatum panem in Dei verbi corpus credimus immutari_. E di poi: _Hæc autem tribuit virtute benedictionis in illud_ (cioè nel corpo del Signore) _rerum quæ videntur_ (cioè del pane e del vino) _naturam utens_. Il quarto nel trattato secondo _de Exodo_ scrive come segue: _Ipse naturarum creator et dominus qui producit de terra panem, de pane rursus, quia et potest, et promisit, efficit proprium corpus, et qui de aqua vinum fecit, de vino sanguinem suum facit_. Nel quinto secolo vissero e scrissero Giovanni Grisostomo, Agostino, Cirillo Alessandrino. Il primo nell'_Homelia 83 in Math._ dice: _Non sunt humanæ virtutis opera proposita, nos ministrorum locum tenemus, qui vero sanctificat ea et immutat, ipse est_. Nell'_Homelia de Eucharistia in Enceniis_: _Num vides panem? num vinum? num sicut reliqui cibi in secessum vadunt? absit ne sic cogites. Sicut enim si cera igni adhibita, illi assimilatur, nihil substantiæ remanet, nihil superfluit, sic et hic sumta mysteria consumi corporis substantia_. Il secondo, nel sermone citato da Beda sopra il capo 10 della prima a' Corintj: _Non omnis panis, sed accipiens benedictionem Christi, fit corpus Christi_. E nel sermone 28 _de Verb. Dom._: _Ubi Christi verba deprompta fuerint, jam non panis dicitur, sed corpus appellatur_. Il terzo nell'epistola a Calosirio: _Ne horreremus carnem et sanguinem apposita sacris altaribus, condescendens Deus nostris fragilitatibus influit oblatis vim vitæ, convertens ea in veritatem propriæ carnis_. Potrei qui registrare a vossignoria gli autori di ciascheduno de' secoli susseguenti, riveriti nella Chiesa come dottissimi ed insieme santissimi uomini, i quali hanno parlato sempre nell'istessa conformità della trasmutazione del pane e del vino consacrato nel corpo e nel sangue di Cristo N. S., ma per non allungarmi di vantaggio con accrescere a lei la fatica di leggere li tralascio; pronto ad inviargliene il catalogo con le loro sentenze, dove così ella desideri o me lo comandi. Da ciò si fa manifesto che la sopradetta intelligenza de' testi della sagra scrittura, per se stessi chiarissimi, la quale ora è fra i Cattolici romani, è quella che sin dal suo principio è stata, e di mano in mano sempre si è continuata nella Chiesa di Dio, e non è stata altrimenti un'invenzione, o sia spiegazione fatta a capriccio dopo dodici secoli da alcuni particolari dottori cattolici romani; ma questa è la fede di Gesù Cristo e de' nostri padri, sin da' primi tempi, e non mai interrotta nella Chiesa di Dio. E se tale intelligenza fosse stata falsa ed eretica, e come mai avrebbe permesso la Provvidenza divina che tutti i santi padri in ciò si fossero accordati? Di più, come mai non sarebbe stata condannata in alcuno de' Concilj generali della Chiesa per falsa, per eretica, ed in una parola, per aliena e contraria alla sacra scrittura, che è quanto dire alla parola di Dio? Certo è che i Concilj generali non hanno mai avuto timore de' primi personaggi della Chiesa nel distinguere e nel sentenziare la dottrina vera dalla falsa, ed hanno condannate come eretiche più sentenze sostenute da gran vescovi, da gran patriarchi, comunque appoggiati dal patrocinio e dall'autorità eziandio violenta degl'imperatori, conforme è notissimo nelle istorie de' secoli a noi più lontani; e questi Concilj sono rispettati e venerati eziandio da' Luterani, nonchè da' Cattolici romani. Tali sono il Niceno celebrato nell'anno 325, il Costantinopolitano nell'anno 381, l'Efesino nel 430, il Calcedonese nel 450, il secondo Costantinopolitano nel 553, e 'l secondo Niceno nel 787, per tacere qui di tutti gli altri Concilj generali della Chiesa, celebratisi dipoi fino agli ultimi tempi. Or prego vossignoria a considerare se possa rifiutarsi un'intelligenza e spiegazione de' sacri testi, pur troppo chiari in se stessi, avuta nella Chiesa fin dal primo secolo, e tramandata a noi senza interruzione veruna di secolo in secolo da' santi padri e dal senso comune ed universale della Chiesa senza taccia veruna, anzi con approvazione e con sentimento generale, quale è questa de' Cattolici romani nella sopraccennata materia; se possa, dico, rifiutarsi come falsa e non accettarsi come vera; e se al suo confronto possa stimarsi vera la spiegazione contraria, nata nel secolo prossimo passato, e riprovata da un Concilio generale come repugnante alla dottrina cattolica, abbracciata in tutti i secoli dalla Chiesa di Dio? Per me stimo che niuno vorrà discostarsi da una tale verità qual è questa, se disappassionatamente vorrà giudicarne. Lo Stenon divenne non solo caldo nel professare, ma anche nel propagare la fede, e varj suoi compatrioti convertì. Passando pel primo anatomista e uno de' migliori filosofi, era carezzato e dai letterati e dai principi: dopo otto anni si vestì sacerdote, visse in rigorosissima penitenza, fu fatto vescovo Titopolitano, e morì in odore di santità al 25 novembre 1686[342]. NOTE [309] _Gerusalemme Conquistata_ XX, 77. [310] «Fatti che basta rammentare per sentirsi raccapricciar d'orrore (_sic_) ed empir l'animo d'indignazione». Così lo Zobi, il quale commisera la Toscana che stava allora «sotto il ferreo scettro della casa Medici, che oppresse Firenze pel corso di 205 anni». [311] Galileo la sua scoperta di saturno tricorporeo velò sotto quest'anagramma: _Altissimum planetam tergeminum observans._ [312] _Hist. de l'astronomie moderne._ [313] _Mécanique analytique_, p. 207. Nella prima parte della _Statica_ Lagrangia rivela i meriti meccanici del Galilei. Anche Arago diminuisce il merito delle scoperte celesti di Galileo, e dice che poche ore poteano bastare alle osservazioni ch'esso fece nel 1610 e 1611. [314] Si ha una lettera di Martino Hasdale a Galileo, che gli riferisce come Keplero si lagnava non avesse neppur mentovato il Bruno nel suo _Nunzio sidereo_. Op. di Galileo, c. VIII, p. 59. Esso Keplero parlò del Bruno in una lettera al dottor Brenger, il quale gli rispondeva: «Tu scrivi di Giordano Bruno, abbruciato colle fascine (_prunis tostus_). Il fatto è certo? e in qual tempo e perchè finì così? Ho compassion di lui» (_J. Kepleri opera_, ed. di Frisch., vol. II, p. 592). Il Keplero rispondeva sapere dal Walcher che fu arso in Roma, e sopportò con costanza il supplizio, pur asserendo che tutte le religioni son vane, e che Dio s'immedesima col mondo, col circolo, col punto. E il Brenger, uom positivo, a stupirsi della _insania_ del Bruno, il quale, se non credeva esistere alcun Dio vindice della colpa, poteva impunemente simulare, e così sottrarsi alla morte. Questi indizj sarebbero da aggiungere a quanto dicemmo sulla morte del Bruno, oltre quelli recati dal professore Berti in una vita di esso, di cui una parte stampò dopo quel nostro discorso. Esso Bruno fu infervorato del sistema di Copernico, cui salutava come un nuovo Colombo che sorpassa i confini, e abbatte le muraglie fantastiche, e sprigiona la ragione umana da altri ceppi inventati dalla filosofia plebea. Eppure, sebbene processato, non troviamo che al Bruno si facesse colpa di tale opinione. [315] _Annal. Bojorum._ Lipsia 1710, pag. 262. [316] Chi rinfaccia sempre il lusso dei nunzj apostolici, voglia non dimenticare questo Nicolò da Cusa, nunzio di quattro papi, fatto cardinale da Nicolò V. Allorchè nel 1451 andava nunzio in Germania, fu incontrato da magnati in gran pompa, ma _ipse super mulum suum cum exiguo romano comitatu humiliter insidens, cruce argentea a domino apostolico sibi data, cum suo stipite deargentato semper præcedente, ad ecclesiam processionaliter deductus, ibidem devote fuit susceptus... ab omni munere manus suas servavit: quod tamen terræ magnates et alii divites copiose offerebant, esculentis et poculentis, sine quibus vita præsens transigi non potest, tamen exceptis_... Vedasi CLEMENS, _Giordano Bruno et Nicola von Cusa_, 1847. [317] Varj Italiani pretesero alla priorità nell'insegnare il sistema di Copernico. Tommaso Cornelio, che nel secolo XVII scriveva _Problemata physica_, dice che Gerolamo Tagliavia calabrese molto avea pensato sopra questo sistema e scritto alcune cose, che dopo la sua morte vennero in mano di Copernico. Migliori titoli potrebbe addurre Domenico Maria Novara ferrarese, morto il 1514 in Bologna, dove essendo professore d'astronomia, ebbe scolaro e compagno delle osservazioni Copernico. Ciò attesta Giorgio Gioachimo Retico, compagno e amico del Copernico (_Narrat. de Copernico etc._), il quale soggiunge che questo ancor giovane spiegò astronomia in Roma, e v'ebbe moltissimi uditori, anche ragguardevoli. [318] È ristampata fra le opere di Galileo a Firenze, tom. V, 1854: «Da questi fondamenti e dalle dichiarazioni loro si manifesta l'opinione pitagorica e la copernicana essere tanto probabile, che forse non è altrettanto la comune di Tolomeo; perchè da quella se ne deduce un chiarissimo sistema ed una maravigliosa costituzione del mondo, molto più fondata in ragione ed in esperienza, che non si cava dalla comune, e si vede chiaramente che si può salvare; di modo tale che non occorre ormai più dubitare che ripugni all'autorità della sacra scrittura, nè alla verificazione delle proposizioni teologiche; ma anzi con ogni facilità non solo i fenomeni e le apparenze di tutti i corpi, ma scopre anco molte ragioni naturali, che per altra strada difficilmente si possono intendere». [319] Altri scrisse contro il moto della terra, fra cui ACCARISI, _Terræ quies, solisque motus demonstratus_ (Era qualificatore della santa Inquisizione) Roma 1637. GRANDAMICO, _Nova demonstratio immobilitatis terræ_. Flexiæ 1645. DUBOIS, _Liber de veritate et auctoritate s. scripturæ in naturalibus contra Christophorum Wittichium_. Trajecti 1654. Contro di questo fu scritta _Demonstratio mathematica ineptiarum J. Durandi in oppugnanda hypothesi Copernici et Cartesii de mobilitate terræ_. Roma 1656. Anche nel 1806, un Domenico Pino milanese stampava a Milano _L'incredibilità del moto della terra_, opuscolo ove compendia quanto disse in tre tomi dell'_Esame del newtoniano sistema intorno al moto della terra_. Non si sgomenta delle opinioni contrarie, giacchè anche la teoria dei vortici di Cartesio fu per un pezzo abbracciata e promossa comunemente. Naturalmente è condotto a parlare del processo di Galileo. A sostener la sua tesi si vale della scienza, e non solo dell'autorità. Quando il dottor Cullen fu elevato arcivescovo di Dublino, un giornale asserì che esso avea pubblicato un libro sostenendo il sistema tolomaico, e ribattendo il copernicano, e con esso tutti gli acquisti della scienza moderna: così esigere la Chiesa cattolica. Il fatto era falsissimo, ma come tante altre falsità continuò e continua ad essere ripetuto: e qualvolta si vuole screditar la Chiesa cattolica come nemica del sapere, si cita l'arcivescovo Cullen e il suo libro che nessuno ha veduto: e pur dianzi ne parlava con orrore il _Times_, come si parla e riparla della tortura di Galileo. [320] Anche l'illustre Cremonini era avverso a Galileo; onde Daniele Antonini friulano scriveva a questo: «Possibile che si trovino al mondo uomini così goffi, e quel ch'è peggio, che sian quelli stimati saputi? che cosa si potrebbe fare al mondo per farli confessare la verità, se il fargliela vedere con gli occhi proprj non basta? Da una parte me ne rido, dall'altra mi vien collera, e voglia quasi di dire come quel buon religioso, che, se io fossi messer Domenedio, non sopporterei che vivesse tal razza d'uomini irragionevoli. Ma credo che messer Domenedio lasci costoro acciò servano per buffoni della madre natura». Noi diciamo per espiazione a qualche velleità d'ambizione. [321] _Dialoghi_, IV giornata. Surrogava l'esperienza anche all'analisi, come fece cercando la quadratura della cicloide. Costruiva delle cicloidi con foglie che poi pesava accuratamente, e così trovò che l'area di quella curva è eguale a tre volte l'area del circolo descrivente. Si sa quanto attorno a quel problema s'affaticarono, cominciando dal cardinal di Cusa, e finchè l'analisi infinitesimale lo risolse con facilità. [322] Vedasi specialmente Philarete Chasles. [323] ARDUINI, _La primogenita di Galileo_, Firenze 1864. Egli scrive pure che il levar a cielo il poema del Tasso «non è che un pregiudizio della scuola de' Gesuiti e Gesuitisti, finora interessati e privilegiati maestri di lettere d'Italia» (p. 233) e che si servivano di quel poema sulle crociate per assodar la loro dottrina cattolica. È notevole che l'aver censurato il Tasso fu apposto come gran colpa alla scuola di noi altri Lombardi, che allora eravamo chiamati romantici, e dappoi clericali. [324] _Viri Galilæi, quid statis aspicientes in cœlum?_ fu il testo preso da un predicatore a Firenze. Un'altra applicazione felice di testo trovo in una lettera del Pignoria, 26 settembre 1610: «Le do nuova come in Germania il Keplero ha osservato anch'esso i quattro pianeti nuovi, e che vedendoli esclamò, come già Giuliano apostata, _Galilee vicisti_». Guglielmo Libri, che denigra a tutta possa l'operar della Chiesa in quest'affare, non tace che, quando il domenicano Caccini declamò contro Galileo, il Maruffi generale di quell'Ordine ne scrisse scuse a Galileo, dolendosi di dover essere partecipe a qualunque bestialità facessero trenta o quarantamila frati. In Inghilterra, nella patria de' grandi pensatori e non cattolica, e molti anni più tardi, quando Newton insegnò il metodo delle flussioni, v'ebbe dottori che dal pulpito metteano in avviso contro codesti «novatori, gente perduta che cadeano nelle chimere», ed esortavano ad evitare il loro commercio, «pernicioso per lo spirito e per la fede». SAVERIEN, _Dictionnaire des mathématiques_, tom. I. [325] L'autenticità della Bibbia e delle singole sue parti è _dogmaticamente_ stabilita dal Concilio di Trento, dichiarando anatema chi non riceve il sacro testo e le sue parti, _prout in Ecclesia catholica legi consueverunt, et in veteri vulgata latina editione habentur_. Eppure i più savj interpreti tengono che _scientificamente_ possa discutersi di certi versetti e incisi, e anche correggerli; come, a tacer altro, si fece nell'edizione clementina. Vedi una dissertazione del padre Vercelloni, _Sulla autenticità delle singole parti della Bibbia Vulgata_. [326] BREITSCHWERTH, _Vita e influenza di Keplero secondo nuove fonti originali_. Stuttgard 1851. Il _Capitoul_ di Tolosa ordinò a Margherita Melaure, verso il 1690, di vestirsi da uomo, benchè ella dicesse d'esser ermafrodito. Saviard conobbe ch'era una malattia, la guarì, ma ci volle un decreto del re per permetterle di vestir da donna qual era. [327] «Noi Roberto cardinale Bellarmino, rilevato avendo come il signor Galileo è stato calunniato, e come imputato gli fu d'aver fatto un'abjura in nostre mani, e d'esser stato condannato a salutar penitenza; dietro ricerca fattacene, affermiamo, conformemente alla verità, che il predetto signor Galileo non ha fatto abjura di sorta alcuna, nè in nostre mani nè in quelle d'altre persone, per quanto è a nostra conoscenza, nè a Roma nè altrove, d'alcuna delle sue opinioni e dottrine; ch'ei non è stato assoggettato a veruna salutare penitenza di qualsivoglia specie; che solamente gli si è partecipata la dichiarazione del nostro santo Padre, pubblicata dalla Congregazione dell'Indice, cioè come la dottrina attribuita a Copernico, che la terra si muova intorno al sole, e che il sole occupi il centro del mondo senza muoversi dall'oriente all'occidente, è contraria alla sacra Scrittura, e che in conseguenza non è permesso difenderla nè sostenerla. In fede di che abbiamo scritta e sottoscritta la presente di nostra propria mano, questo giorno 26 maggio 1616. Roberto, cardinale Bellarmino». Non è inutile ricordare che del Bellarmino stesso l'opera _De romano pontifice_ fu messa all'Indice, poi levatane. La Chiesa non considerò mai come infallibili i decreti delle Congregazioni. [328] _Dilecte fili, nobilis vir, salutem et apostolicam benedictionem. Tributorum vi et legionum robore formidolosam esse Etrusci principatus potentiam, Italia quidem omnis fatetur: at etenim remotissimæ etiam nationes felicem vocant nobilitatem tuam ob subditorum gloriam ac Florentinorum ingenia. Illi enim novos mundos animo complexi, et oceani arcana patefacientes potuerunt quartam terrarum partem relinquere nominis sui monumentum. Nuper autem dilectus filius Galilæus æthereas plagas ingressus ignota sidera illuminavit, et planetarum penetralia reclusit. Quare, dum beneficum Jovis astrum micabit in cœlo quatuor assectis comitatum, comitem ævi sui laudem Galilæi trahet. Nos tantum virum, cujus fama in cœlo lucet et terras peragrat, jamdiu paterna charitate complectimur. Novimus eum in eo non modo literarum gloriam, sed etiam pietatis studium; iisque artibus pollet, quibus pontificia voluntas facile demeretur. Nunc autem, cum illum in urbem pontificatus nostri gratulatus reduxerit, peramanter ipsum complexi sumus, atque jucunde identidem audivimus florentinæ eloquentiæ decora doctis disputationibus augentem. Nunc autem non patimur eum sine amplo pontificiæ charitatis commeatu in patriam redire quo illum nobilitatis tuæ beneficentia revocat. Exploratum est quibus præmii magni duces remunerentur admiranda ejus ingenii reperta, qui Medicei nominis gloriam inter sidera collocavit. Quinimo non pauci ob id dictitant, se minime mirari tam uberem in ista civitate virtutum esse proventum, ubi eas dominantium magnanimitas tam eximiis beneficiis alit. Tum ut scias quam charus pontificiæ menti ille sit, honorificum hoc ei dare voluimus virtutis et pietatis testimonium. Porro autem significamus solatia nostra fore omnia beneficia, quibus eum ornans nobilitas tua paternam munificentiam non modo imitabitur, sed etiam augebit._ [329] _Galilée_, par le docteur PERCHAPPE, 1865. _Les fondateurs de l'astronomie_; par Joseph BERTRAND. La lettera di Galileo al padre Ranieri, dove racconta per disteso il suo processo, e che dal Tiraboschi fu data come autentica, era stata inventata dal duca Gaetano per prendersi gabbo di esso Tiraboschi. Quando Roma fu invasa dai Francesi, nel 1809, nulla fu più pressante agli spogliatori che di metter la mano sul processo di Galileo. Fu portato a Parigi, e quando nel 1814 Pio VII recuperò gli archivj delle sacre Congregazioni, questo non fu reso, dicendo era bruciato, poi che era smarrito in quell'oceano di carte. Solo Gregorio XVI potè riaverlo; e Pio IX lo consegnò a monsignor Marini che tanto erasi adoprato al suo ricupero; indi reduce da Gaeta, nel 1850 lo donò agli Archivj Vaticani, e fu poi pubblicato da esso monsignor Marini col titolo _Galileo e l'Inquisizione_ (Roma 1850): dov'è compreso anche il processo del 1615. [330] Lettera 27 febbrajo 1633. Leviamo queste frasi dalle _Lettere inedite di uomini illustri_, stampate dal Fabroni, vol. II, p. 272 e seg. [331] Era facile rispondere che, se è onnipotente, potè anche far la terra che gira attorno al sole. Esponendogli io gli argomenti che i geologi danno sull'antichità della terra, Carlo Troya mi rispondeva che Dio come creò piante vecchie, così potè creare e le ossa fossili, e gli strati sovvertiti, e le roccie metamorfosate, ecc. [332] La sentenza fu letta a velo levato nell'aula del Sant'Uffizio; invitativi i professori di matematica e fisica. [333] Il Bernini, nella _Storia delle eresie_, fa star Galileo prigione cinque anni; Pontéconlant dice che, anche nelle carceri dell'Inquisizione, sostenne la rotazion della terra; Brewster, che fu tenuto prigioniere un anno: Montucla riporta altri che dicono essergli stati cavati gli occhi ecc. Il professore Trouessart (_Quelques mots sur le procès et la condamnation de Galilée_ nella _Revue de l'Instruction publique_, 1860) che è forse il più diligente ponderatore, in Francia, delle opere del Galilei, e nemico violento delle cose ecclesiastiche, conchiude: _Galilée ne fut donc pas soumis à la torture physique. C'est à l'idée, non à l'homme qu'on en voulait. Ces pauvres inquisiteurs, qu'on nous represente comme des monstres, étaient, il faut oser le dire, d'aussi braves gens que vous et moi, c'étaient, pour la plupart, des amis, des admirateurs de l'illustre accusé. Ils furent pour lui bons et cléments, bien plus que ne le permettait la redoutable loi inquisitoriale qu'ils avaient à appliquer. Galilée était_ un relaps: sa mauvaise intention, _je parle en style d'inquisiteur, était évidente... et ils eurent à craindre bien plus, dans ce procès, d'étre accusés d'avoir peché par trop d'indulgence que par trop de rigueur. Les inquisiteurs valaient mieux que l'inquisition, et c'est là encore une moralité consolante, que nous esperons avoir fait sortir de ce procès._ Della tortura si trova bensì cenno nel processo. _Et ei dicto quod dicat veritatem, alias devenietur ad torturam, respondit... Io non tengo nè ho tenuto questa opinione del Copernico dopo che mi fu intimato con precetto ch'io dovessi lasciarla. Del resto son qui nelle loro mani, facciano quello che lor piace._ _Et cum nihil aliud posset haberi, remissus fuit ad locum suum._ Ciò prova talmente non essergli stata inflitta, che lo stesso Arduini conchiude: «Dunque Galileo ebbe la tortura morale, la più dolorosa delle torture, quella ove egli è tanto grande ai nostri occhi; e chi gliela inflisse riman condannato per sempre». Oltre i conosciuti, apparvero, nel 1865 e 66, eccellenti articoli di Adolfo Valson nella _Revue d'économie chrétienne_ sul movimento scientifico e intellettuale nel secolo XVII; e nella _Revue des sciences ecclesiastiques_ altri dell'abate Bonix, il quale mostra che il decreto del Sant'Uffizio non ottenne mai le formalità necessarie per trasformarla in atto pontificale. Nel _Dublin Review_ viene esaminata la condanna di Galileo in relazione alle Congregazioni Romane, e l'autore prova che la decisione fu resa in parte come decreto disciplinare, in parte come dottrinale d'una congregazione, il che non porta mai l'infallibilità: il papa non ha proferito. Del resto l'autore sostiene che la Congregazione non fallò, giacchè l'ipotesi di Galileo era inverisimile, secondo le cognizioni d'allora, e poichè pareva intaccare i testi scritturali, era prudente e quasi necessario non abbandonare il senso tradizionale di questi per una teoria poco provata. L'importanza stava nel serbare il principio della interpretazione del testo sacro, ben più prezioso che non la verità scientifica. E la Chiesa, che non s'arrogò men di definire le verità fisiche, non fece che vegliar all'esattezze delle interpretazioni teologiche presentate da Galileo. [334] Lettera di Geri Bocchinieri del 16 aprile 1633. [335] Non è inutile al soggetto il riferire qui la formola d'una sentenza, tolta dal _Sacro Arsenale_ di esso Masini (Bologna 1665), che dà una specie di sillabo delle eresie allora più consuete. — Forma di sentenza e abjurazione contra un eretico formale non relasso e penitente. Noi frà N., Inquisitore ecc. ecc. Noi N., Vicario ecc. Essendo che tu N. N. fosti denunziato in questo Sant'Officio di N. Che ti fossi dato a comporre alcuni libri sopra la sacra scrittura, e specialmente sopra la divina Apocalissi, quali si pretendeva fossero molti empj e cattivi; e ripreso non avessi voluto desistere da così diabolica, operazione: Che avessi ereticalmente trattato della materia del digiuno ecclesiastico; e, essendoti per difesa della santa fede cattolica argomentato contra, avessi allegata l'autorità degli eretici, che di ciò hanno scritto sinistramente, e per ischerno: Che avessi detto, la Chiesa da cinquecento anni in qua esser corrotta, mostrando di non credere l'autorità del sommo pontefice, e della santa Chiesa cattolica e apostolica romana, con dire che credevi in Cristo e nelle Scritture, e che niuno poteva astringerti a creder quello che crede la suddetta santa Chiesa romana: Che essendoti da persona pia e zelante, con vivi argomenti dimostrato che la detta santa Chiesa cattolica romana è la vera Chiesa, avessi parlato in contrario, approvando l'empie e sacrileghe sètte di Giovanni Us, di Martino Lutero e di Calvino: Che avessi detto d'aver fatto venir di fuori una gran quantità di libri per notabil somma di denari, dando, col tuo modo di dire, ad intendere che fossero libri cattivi ed ereticali: Fosti perciò d'ordine nostro carcerato in questo Santo Officio, e fattati la perquisizione de' libri e scritture, furono appresso di te ritrovati molti e molti libri eretici di Calvino e Calvinisti, e anco Luterani, stampati, con un libro scritto a mano, appunto sopra la divina Apocalissi, e altri fogli e quinternetti contenenti atrocissime eresie e orrendissime bestemmie contro la santa fede cattolica. E successivamente furono contro di te pigliate altre informazioni, per le quali rimanesti di più indiciato, Che avessi detto ad alcune persone, quali recitavano l'officio della Beatissima Vergine, non sapendo esse il latino, che non giova il dirlo, mentre non intendevano quello che leggevano; adducendo sopra ciò alcuni, benchè inetti esempj, e quella volgata autorità, _legere et non intelligere, negligere est_: Che avessi dissuaso il frequentare la confessione sacramentale, con dire che bastava confessarsi una volta sola, e non peccare mai più; e che il confessarsi spesso, e poi tornar a peccare, era un burlare Dio: Che avessi detto che il digiuno solito osservarsi dai Cattolici non è altrimenti comandato da Dio, ma che è cosa della Chiesa, e che nostro signor Iddio non guarda se si mangia un poco più o un poco meno: Che, ragionandosi della divozione de' santi del cielo, e delle orazioni che si debbono loro fare, avessi detto che, quando facciamo orazione, dobbiamo pregare Dio e non i santi: Che avessi detto che, se tu avessi comprata una certa villa, forse avresti ordinato d'essere sepolto in detta villa, come facevano gli antichi, aggiungendo altre parole per le quali mostravi di credere sinistramente intorno alla sepoltura ecclesiastica: Che avessi biasimato l'andar spesso ad ascoltar la messa, con dire ad una persona, la quale ciò piamente faceva, che vanno a messa quelli che hanno buon tempo, e che detta persona doveva aver buon tempo: Che avessi detto che la Chiesa fa delle cose assai, e che li frati e preti vanno sempre assottigliando, e fanno per guadagnare e tirare a loro: Che avessi parimenti biasimato l'andar co' piedi scalzi a visitar la chiesa d'un tal santo del paradiso, con dire che la misericordia di Dio è quella che ci può salvare, non certe cose pinzocchere; aggiungendo molte altre parole con le quali mostravi di credere sinistramente intorno alla venerazione e invocazione de' santi: Che avessi più volte, senza alcun legittimo impedimento, e con pericolo di grave scandalo tralasciato d'andar a sentir messa ne' giorni di festa, scusandoti con dire che non eri vestito come volevi. Sopra le quali cose avanti di noi più volte col tuo giuramento esaminato, avendo già riconosciuto in giudicio tutti i libri eretici e perniciosi trovati appresso di te, col libro e fogli scritti a mano, dopo molte scuse, negazioni e tergiversazioni confessasti d'aver creduto tutti gli errori ed eresie da te espresse in detto libro e fogli scritti di tua mano, e altre eresie contenute ne' suddetti libri eretici di Calvino, Calvinisti e Luterani. Ed in particolare, Che l'empia e diabolica sètta calvinista sia la vera Chiesa di Cristo dallo Spirito Santo figurata nella sacra Apocalissi per quella donna che apparve in cielo vestita di sole e coronata di stelle, e che in detta perversa e sacrilega sètta si trovi la vera dottrina evangelica e la salute eterna: Che la sacrosanta, cattolica e apostolica romana Chiesa sia la sinagoga di Satanasso, e la meretrice babilonica, madre di fornicazioni e abominazioni, e Sodoma spiritualmente, quanto alla dottrina che tiene e insegna: Che la suddetta santa Chiesa romana non sia dotata dell'autorità delle chiavi, non creda che si trovi Iddio non sappia, che cosa sia spirito d'intelligenza, non abbia inteso bene le parole di Cristo circa l'autorità concessagli, nè ammetta dispute nè ragioni; ma col ferro distrugga i suoi nemici a torto e crudelmente, e perseguitati empiamente i martiri del Signore, intendendo per martiri gli empj e scellerati eretici, giustamente da lei fatti morire per conto di religione, e appunto come meretrice spogli altrui delle facoltà, e riduca li principi e il mondo in misera servitù: Che il sacrosanto Concilio di Trento rappresentante la santa Chiesa romana, per aver egli proibito i libri d'autori eretici, sia il dragone descritto nella detta sacra Apocalissi, che con la coda tirava a terra la terza parte delle stelle; e che i Padri congregati in detto Concilio per lo spazio di ventidue anni non abbino fatto altro che offendere la Divina Maestà, e che il detto santo Concilio a guisa del suddetto dragone abbia proferito bestemmie contro Dio e contro Cristo, e ingannata la Chiesa, come il dragone ingannò Eva nell'orto: Che li suddetti empj e scellerati eretici siano stati istrumenti della fede, a Dio grati e profetati, e dallo Spirito Santo onorevolmente figurati in più luoghi della divina scrittura da te espressi distintamente nel processo: Che Iddio abbia ripudiata la santa Chiesa romana come meretrice, e datala in concubina a Satanasso, condannando l'uno e l'altro al fuoco eterno: Che tutti quelli che seguitano la dottrina della Chiesa romana siano veramente eretici. Che niun cristiano possa essere astretto dalla Chiesa romana a creder quello che detta Chiesa romana crede e insegna: Che la Chiesa sia corrotta, e che però l'orazione, la quale Cristo disse aver fatta per Pietro apostolo che non venisse meno la sua fede, sia adempita in Calvino, Lutero e altri eretici; li quali pareva a te avessero per mezzo della loro dottrina superata e gittata a terra la Chiesa romana: Che sia bestemmia orrenda il dire che la sacra scrittura prenda autorità dalla Chiesa: Che il papa non sia capo della Chiesa, ma anticristo, rettor di tenebre, e capo del diavolo, anzi il diavolo istesso, e non li convengano in modo alcuno i titoli di santissimo e beatissimo: Che i romani pontefici distruggano quello che Iddio ha fatto, e voltino la grazia in servitù, e la cristiana libertà in perdizione, e leghino gli uomini non solo nel corpo, ma anco nell'anima, e sottopongano il cielo alla terra, e facciano peggio che il diavolo: Che, se fosse vera la dottrina del romano pontefice in materia di religione, la passione e morte di Cristo sarebbe stata più dannosa del peccato di Adamo: e che esso romano pontefice con la sua dottrina cagioni che qualsivoglia legge, ancorchè stolta e pazza, in paragone della legge cristiana paja sapienza: Che i Cattolici, e particolarmente i papi, nel far morire gli eretici siano peggiori del diavolo, successori di Cain, imitatori di Giuda traditore e di Pietro negante, Giudaici venditori del sangue giusto, e persecutori della parola di Dio: Che il papa sia imitatore contrario di Cristo nel negozio della sacra messa: Che sia atto d'idolatria il riverire il papa e i cardinali: Che i Cattolici della sacrosanta Chiesa romana siano anticristiani. Che i sacramenti della Chiesa di Cristo siano solamente due, cioè il Battesimo e la Cena, e non contengano nè conferiscano la grazia; ma siano solamente segni di essa: Che nel santissimo sacramento dell'eucaristia non si contenga altrimenti il vero corpo e sangue di nostro signor Gesù Cristo, ma che detto sacramento sia solamente un segno del corpo e sangue di Cristo, e una memoria della sua passione e morte; e che in questa forma sia stato instituito da Cristo; e che ciò avevi creduto per un tempo, e dopo, mutato proposito, avevi tenuto Che in detto santissimo sacramento, fuori dell'atto del riceverlo, non vi sia altrimenti il corpo e il sangue di nostro Signore, e perciò sia atto d'idolatria l'adorarlo e portarlo in processione: Che proferite le parole della consacrazione resti anco la sostanza del pane e la sostanza del vino con la sostanza del corpo e del sangue di Nostro Signore: Che la Chiesa romana abbia errato nell'articolo della transustanziazione: Che nell'ostia consacrata si trovi solamente il corpo senza il sangue, e nel calice consacrato solamente il sangue senza il corpo di Cristo: Che sia necessario alla salute nostra che tutti ricevino il detto sacramento sotto l'una e l'altra specie: Che la sacra messa non sia vero, proprio e propiziatorio sacrificio instituito da Cristo nella Chiesa, e che non giovi niente, anzi sia un incantesimo, e uno spirito d'abominazione, e non debba celebrarsi con vesti d'oro; e che i riti e cerimonie, quali usa la Chiesa nel celebrarla, siano soverchie, e che non sia ben fatto celebrarla in onor de' santi: Che i santi in cielo non veggano le cose nostre, e che perciò sia cosa vana e soverchia l'invocarli: Che il culto delle sacre immagini sia specie d'idolatria, e che però esse sacre immagini non debbano venerarsi: Che dopo questa vita presente non vi sia purgatorio, ma solamente il paradiso e l'inferno: Che la confessione sacramentale di tutti i peccati mortali avanti al sacerdote non sia necessaria: Che rimessa la colpa, venga anco rimessa tutta la pena, e che perciò la soddisfazione per li peccati sia vana: Che i penitenti vengano a soddisfare per i suoi peccati solamente per la confidenza che hanno nella passione e morte di Cristo: Che le nostre soddisfazioni oscurino e diminuiscano il merito della passione di Cristo: Che la vera penitenza sia il non peccar più: Che i sacerdoti non abbiano autorità di rimettere i peccati: Che gli ordini o instituti monastici siano cattivi, e in essi non si trovi salute: e che li preti e frati eziandio quanto allo stato che professano siano peggiori de' Turchi; e che s'inganni colui che si fa frate per salvarsi: Che l'officio della santa Inquisizione sia cattivo, e instituito per distruggere il Verbo eterno: Che tutte le tradizioni, le quali tiene e crede la santa Madre Chiesa romana, non si debbano credere, ma solamente quello che si contiene espressamente nella scrittura sacra: Che tutte le cerimonie e riti che usa la detta santa Chiesa romana nell'amministrare i santi sacramenti, e in tutte l'altre occorrenze ecclesiastiche siano scioccherie da fanciulli: Che l'opre buone non siano meritorie nella vita eterna; Che la sola fede basti a giustificarci: Che sia lecito a ciascuno il tenere e leggere la sacra scrittura in lingua volgare; e ciò non si possa proibire senza carico di coscienza; e che tal proibizione sia contra Dio e la sua deità: Che le indulgenze nella Chiesa di Dio siano nulle; e in particolare, che i giubilei, le stazioni, gli anni santi, le medaglie, le corone e i grani benedetti siano cose di gioco, e vane: Che i vescovi creati dal pontefice romano non siano veri e legittimi vescovi, ma una finzione umana: Che lo stato conjugale sia megliore di quello de' continenti e vedovi; Che tutte le censure ecclesiastiche siano vane: Che il digiuno solito osservarsi nella Chiesa cattolica non sia cosa comandata da Dio, nè vi sia obbligo alcuno di osservarlo ne' modi e tempi ordinati dalla suddetta santa Chiesa romana: Che l'uomo per il peccato di Adamo abbia perso il libero arbitrio, e che tutta la nostra giustificazione venga da Dio senza alcuna nostra operazione: e qualunque opera buona che noi facciamo venga solamente da virtù divina, senza alcun concorso del libero nostro arbitrio; e che l'uomo pecchi necessariamente: Che sia lecito a' religiosi, sacerdoti e chierici costituiti negli ordini sacri prender moglie a suo volere: Che i matrimonj occulti siano validi, ancorchè non vi siano testimonj nè il parroco, come comanda il sacro Concilio di Trento, e che in ciò basti il giuramento delle parti: Che ogni luogo sia buono per sepellirvi i morti, e che non giovi niente, anzi sia mala cosa sepellirli in Chiesa e in altro luogo sacro, e fare le altre cerimonie solite farsi dai Cattolici: Che i pellegrinaggi ai luoghi santi, il far i voti e adempirli, gli ornamenti delle chiese e degli altari, la venerazione delle reliquie de' santi, l'osservanza delle feste fuorchè delle domeniche, Natale, Pasqua, Ascensione e Pentecoste, siano cose erronee, e da non farne conto: Che i miracoli fatti dai santi del Signore nella Chiesa cattolica e apostolica romana siano invenzioni umane, e alle volte anco diaboliche: Che i sacri dottori scolastici della suddetta Chiesa romana siano stati falsi dottori, e piuttosto umani che evangelici, e anzi filosofi che imitatori di Cristo, e che in materia di religione abbiano scritto per compiacere al loro capo, cioè al papa: Che il recitare l'officio della sacratissima Vergine Maria madre di Dio, e nostra signora, e altre orazioni latinamente, se non s'intende quello si dice non giovi: Che alla custodia di ciascun uomo e donna, infino dalla natività, non sia deputato da Dio un angelo, ma che un solo venga posto alla custodia d'una provincia; e che il credere che ognuno abbia un angelo custode sia un imitar l'idolatria degli antichi pagani. Oltre a ciò confessasti che con animo e mente ereticale avevi ne' suddetti tuoi scritti asserito la maggior parte delle suddette eresie, e sforzatoti, come in detti scritti chiaramente si vede, di confermarle e corroborarle con autorità e figure della sacra scrittura, e specialmente della divina Apocalissi, con mescolarvi esecrande bestemmie, acerbissime ingiurie, asprissime e per avventura non mai più sentite calunnie contra la santa fede cattolica. E che molti anni sono ti furono lasciati i suddetti libri eretici rinchiusi dentro una cassetta da una persona oltramontana, con dirti che erano scritture de' suoi conti; e che venutoti voglia di vedere cosa ciò fosse, avevi aperta la suddetta cassetta, e visto ch'erano libri eretici gli avevi letti con gusto e aderito ai loro errori, e poscia datoti a scrivere contro la suddetta santa fede cattolica; e che eri perseverato nelle eresie sino a dieci giorni dopo la tua carcerazione nel Sant'Officio: negando d'aver imparato da altri le suddette eresie, nè insegnatele _ex professo_ ad alcuna persona, nè meno aver in esse alcun complice nella città, ovvero luogo di N. nè altrove, e dicendo d'esser pentito, d'aver tenuto e creduto le suddette eresie ed errori, e di credere al presente tutto quello che tiene e crede la detta santa cattolica e apostolica romana Chiesa: E avendo noi data piena informazione di questa tua causa e de' meriti di essa alla sacra Congregazione della santa e universale Inquisizione romana, d'ordine espresso della santità del N. S. per aver da te l'intera verità, dopo averti assegnato il termine a far le tue difese, nel quale niuna cosa adducesti a tua discolpa, ti esponessimo, senza però alcun pregiudizio delle cose da te confessate, e contro di te dedotte nel processo al rigoroso e anco repetito esamine, dal quale non essendo risultata alcun'altra cosa di nuovo, similmente d'ordine espresso di sua beatitudine siamo venuti contro di te all'infrascritta diffinitiva sentenza. Invocato il santissimo nome di nostro signore Gesù Cristo, della gloriosissima madre sempre vergine Maria, e di san Pietro martire nostro protettore, avendo avanti di noi li sacrosanti evangelj, acciò dal volto di Dio proceda il nostro giudicio, e gli occhi nostri veggano l'equità; — nella causa e cause vertenti tra il signor N. fiscale di questo Sant'Officio da una parte e te N. suddetto, reo, indiciato, processato, convinto e confesso, come di sopra dall'altra parte; — per questa nostra diffinitiva sentenza, qual, sedendo pro tribunali, proferiamo in questi scritti, in questo luogo ed ora da noi eletti; — diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu N. suddetto, per le cose da te confessate e contro di te provate, come di sopra, sei stato eretico, e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene che sono dai sacri canoni e altre costituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Ma perchè hai detto d'esser pentito de' suddetti tuoi errori ed eresie, e di credere al presente, e voler credere fino alla morte tutto quello che tiene e crede la detta santa madre Chiesa cattolica e apostolica romana, e del tuo grave eccesso dimandato misericordia e perdono, saremo contenti assolverti dalla scomunica maggiore, nella quale per le suddette eresie ed errori sei incorso, e riceverti nel grembo della detta santa Madre Chiesa, purchè prima con cuor sincero e fede non finta, vestito dell'abito di penitenza, ornato del segno della santa croce quale dovrai portare per l'avvenire sopra gli altri tuoi vestimenti, abjuri, maledici e detesti pubblicamente, avanti di noi, li suddetti errori, eresie e sètte, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e sètta che contraddica alla detta santa Madre Chiesa cattolica, come per questa nostra diffinitiva sentenza ti comandiamo che facci nel modo e forma che da noi ti sarà data. E acciocchè questi tuoi gravi errori non ti restino senza il dovuto castigo, e sii più cauto nell'avvenire ed esempio agli altri che si astengano da simili eccessi. Ti condanniamo a tutte le pene degli eretici, contenute ed espresse ne' suddetti sacri canoni e costituzioni pontificie, e a dover perpetuamente, senza alcuna speranza di grazia, esser immurato nel Sant'Officio, dove abbi a piangere la grave offesa da te fatta al sommo creatore Iddio e all'unico redentor nostro Gesù Cristo e alla diletta sua sposa detta, santa, cattolica e apostolica romana Chiesa, madre e maestra di tutte le altre Chiese, fuori del cui grembo non può alcuno trovare la vera e sempiterna salute, e al santissimo pontefice romano sommo e supremo capo e sposo visibile di lei. Ordinando che a maggior detestazione delle suddette tue empietà ed edificazione di tutti i Cattolici, i libri e scritti eretici da te tenuti siano abbruciati in pubblico. E acciocchè dal benignissimo e clementissimo Dio Padre delle misericordie ottenghi più facilmente la remissione e il perdono de' suddetti tuoi errori ed eresie, per penitenze salutari t'imponiamo, Che per tutto il rimanente della vita tua digiuni ogni primo venerdì di ciascun mese semplicemente, e tutti i venerdì di marzo, e anco il venerdì santo, in pane ed acqua: Che per il detto tempo reciti una volta la settimana i sette salmi penitenziali, con le litanie e preci seguenti, e appresso la corona della beatissima sempre vergine Maria, e ogni domenica cinque volte il _Pater noster_ e l'_Ave Maria_, e una volta il _Credo_, inginocchiato avanti qualche sacra immagine. E finalmente Che durante la vita tua, come di sopra, confessi sacramentalmente quattro volte l'anno i tuoi peccati al sacerdote che da noi ti sarà deputato, e di sua licenza ti comunichi nelle quattro principali solennità, cioè nella Natività e Resurrezione di nostro signore Gesù Cristo, della sacra Pentecoste e di tutti li Santi, Riservando alla detta sacra Congregazione del Sant'Officio di Roma l'autorità di mitigare e rimettere, o condonare in tutto o in parte le dette pene e penitenze. E così diciamo, pronunziamo, sentenziamo, dichiariamo, condanniamo, ordiniamo, penitenziamo e riferiamo in questo e ogni altro miglior modo e forma che di ragione potemo e dovemo. — Nella _Revue des questions historiques_, v _livraison_, dopo il mio lavoro fu pubblicato un articolo notevolissimo del signor Enrico de l'Epinois sopra Galileo, dove si valse di tutti gli autori antecedenti, e del processo originale comunicatogli a Roma. Arriva alle medesime conclusioni nostre per altra via; il che tanto più le conferma. «Il decreto dichiarò _falsam_ una dottrina astronomica, che in fatto non lo era: la dichiarò contraria alla Scrittura, e non l'era: s'è dunque ingannato; tutti il concedono, ma lo stato delle cognizioni d'allora non permetteva d'ammettere la nuova teoria del movimento della terra, che non fu mai discussa avanti al tribunale come dottrina scientifica, bensì come contraria al senso tradizionale delle sacre scritture. Per ciò al principio del XVII secolo il tribunale la condanna: nel secolo XIX il tribunale stesso l'adotterebbe, senza perciò modificare i principj sui quali appoggiavasi la sentenza. Fra le due epoche è cangiato non un principio teologico, ma un fatto scientifico, cioè che la teoria di Copernico oggi non è un'improbabilità scientifica, ma una verità constatata dalla scienza. Il decreto del 1616 fu un semplice provedimento di prudenza, perchè non ne soffrisse la verità cattolica: _ne in perniciem catholicæ veritatis serpat._ Questo è il motivo: e a tal riguardo è notevole la differenza fra le espressioni de' consultori e quelle del decreto della Congregazione. I consultori decretano insensata, assurda, eretica quell'opinione: la Congregazione ommette tutti quegli epiteti, e si limita a dichiararla falsa e contraria alla Scrittura. Nella stessa censura de' consultori, la prima opinione è condannata senza riserva; la seconda, cioè l'immobilità del sole, è detta solo erronea. Dunque anche dal lato scientifico il tribunale è men colpevole che non si dica. Secondo Galileo, il sole non aveva alcun movimento locale: oggi è dimostrato il contrario: e l'immobilità del sole è proposizione assurda in cosmografia. Che conchiuderne, se non che la dottrina del moto della terra era ben lontana dall'essere scientificamente stabilita? e come rimproverare, non ad una commissione scientifica, ma ad un tribunale ecclesiastico, di non averla immediatamente adottata, modificando l'interpretazione secolare d'un testo della sacra scrittura?» (pag. 100) Ivi sono moltiplicate le prove del rispetto e della benevolenza de' Romani e dei papi verso Galileo, e dell'assurdità della tortura inflittagli, sulla quale l'ostilissimo Libri non sa addurre altra prova se non che «essa era talmente abituale, che non si prese neppure la fatica d'accennarla». Il qual Libri adduce pure che i manuscritti di Galileo furono saccheggiati e dispersi dai famigli del Sant'Offizio, e la più parte perì, e che poco mancò non si gettasse in una fogna il cadavere di lui. È noto che il granduca Leopoldo II fe fare l'edizione delle opere di Galileo, i cui manuscritti conservava nella preziosissima sua Biblioteca Palatina. Dall'esame del processo stesso risulta che fu una precauzione per lo meno inutile quella di monsignor Marini di non pubblicarlo integralmente. Ivi sono testualmente queste parole di Galileo: «Per maggior conformazione del non aver nè tenuta nè tener per vera la dannata opinion mia della mobilità della terra e stabilità del sole, se mi sarà conceduta, sì come io desidero, abilità e tempo di poterne fare più chiara dimostrazione, io sono accinto a farla; e l'occasione v'è opportunissima, attesochè nel libro già pubblicato sono concordi gl'interlocutori di doversi, dopo certo tempo, trovar ancor insieme per discorrere sopra diversi problemi naturali separati, della materia nei loro congressi trattata. Con tale occasione dunque dovendo io soggiungere una o due altre giornate, prometto di ripigliar gli argomenti già recati a favore della detta opinione, falsa o dannata, e confutarli in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà somministrato». E altrove: «Già molto tempo avanti la determinazione della sacra Congregazione dell'Indice, e prima che mi fosse fatto quel precetto, io stavo indifferente, ed avevo le due opinioni di Tolomeo e di Copernico per disputabili, perchè e l'una e l'altra poteva esser vera in natura. Ma dopo la determinazione sopradetta, assicurato della prudenza de' superiori, cessò in me ogni ambiguità, e tenni, siccome tengo ancora, per verissima ed indubitata l'opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della terra e la mobilità del sole». Qui soggiungerò che sta nell'Archivio di Firenze una cronaca del Settimanni, dove quasi giorno per giorno son notati gli avvenimenti. Il cronista è avversissimo agli ecclesiastici: pure non fa cenno di brutali trattamenti a Galileo. Scrive: «A dì X febbrajo 1632 (stile toscano) giovedì giunse in Roma G. Galilei, celebre astronomo fiorentino, chiamato dalla Congregazione del Sant'Uffizio, e fu arrestato nel palazzo del serenissimo granduca, situato alla Trinità de' Monti, dove abitava l'ambasciadore fiorentino. — Dicembre 1633. Il dottissimo matematico G. Galilei, dopo essere stato circa mesi 5 a disposizione del Sant'Uffizio di Roma, arrestato nel palazzo dell'ambasciadore fiorentino, ed aver abjurato l'opinione di Copernico circa il sistema del mondo, e di poi per ordine del medesimo Sant'Uffizio essere stato circa altri mesi cinque insieme nell'abitazione di monsignor arcivescovo Piccolomini, essendogli stata data libertà di star in campagna, ritirossi alla sua villa di Bellosguardo». Nel carteggio de' cardinali, in esso Archivio, filza LXXXII, sono lettere del cardinale Federico Borromeo e del cardinale Orsino, che promettono al granduca ogni appoggio al Galilei quando era citato a Roma. [336] _Pour ruiner un malheureux, spécialement un talent supérieur... deux ou trois acharnès suffisent a l'œuvre... Dans le procés de Galilée, le mouvement de la terre n'était point en jeu; mais seulement le mouvement de l'envie._ PHIL. CHASLES, _Galileo Galilei_, prefazione. Ripudiando le vulgari dicerie, egli ne imputa l'invidia de' letterati nemici, e la tepidezza degli amici. _Quelle aménité! Ce mond social est si délicat! Le pape punit à regret; le grandduc voudrait sauver le philosophe: Niccolini s'y emploie: Bali Cioli le porte dans son cœur. Partout convenence, bonne grâce, révérences attendries, obéissance acceptée: une régularité accomplie. De justice et d'équité pas un mot. On ne le jette pas en prison, ce qui serait trop féroce. Son agréable ennemi Firenzuola vient le voir, lui sourit, l'interroge, le plaint, l'allaite d'espérances... Les dernières annèes du grand astronome se passérent dans cette ville solitaire. Aucun geólier ne le surveillat, et cette pénitence enfantine aigrissait l'ennuie de la retraite, jointe à de vives souffrances physiques. Le sentiment de sa faiblesse intime, de ses détours inutiles ét de ses inutiles concessions devait y ajouter bien de l'amertume; et le peu du fruit qu'il recueillait de sa longue humilité, devait le lui faire regretter cruellement... Tout savant qui voulait plaire et arriver aux honneurs le couvrait d'injures dans un gros livre dedié aux puissances: on disait et on imprimait tout ce qu'on voulait contre lui: lui ne pouvait rien imprimer ni rien répondre à qui que ce fût... Les Grassi, les Caccini, les Firenzuola se frottaient les mains en achevant cet assassinat à coups d'épingles et à coups de matelas. O personnes dislingués! o mœurs adoucies! ce que vous avez de pire c'est que vous avilissez et dégradez vos victimes... Mais, grand homme, pourquoi vous laissez-vous dégrader? On peut comparer ces doux assassinat qui a duré huit ans, et n'a fini qu'avec sa vie, au meurtre du malheureux Prina, dont les bourgeois d'une autre ville italienne se defirent en 1814 à coups de parapluie lentement, doucement, hommes civilisés qui détestaient ce bruit, opéraient comme les envieux de Galilée, avec componction, sagesse et convenence._ Il protestante Federico De Rougemont (_L'homme et le singe, ou le matérialisme moderne_. Neuchatel 1865) esclama: _On nous parle beaucoup d'un Galilée emprisonné il y a plusieurs siècles par l'Inquisition romaine, et l'on oublie que, l'autre jour, pour ainsi dire, les republicains de 1793 interdisaient à 25 milions de Français le culte de la religion chrétienne._ [337] La Polissena, che fu poi Maria Celeste, morì il 5 aprile 1634. Io trassi un racconto pietoso dalle lettere di lei, che comparvero saviamente scelte nell'edizione dell'Alberi, poi indiscretamente nell'opera dell'Arduini. [338] Guglielmo Libri, che ai dì nostri rinnovellò ed inasprì tutte le vulgarità in proposito del processo di Galileo, fa del Cavalieri uno de' peggiori nemici di questo e suo plagiario. Or bene, Galileo ne parla sempre con affetto e riverenza: e il 26 luglio scrive: «Godo da otto giorni la dolcissima conversazione del molto reverendo padre Bonaventura Cavalieri, _alter Archimedes_». E al 16 agosto: «Il padre matematico di Bologna è veramente un ingegno mirabile». E il 18 ottobre: «Sento gran consolazione della soddisfazione ch'ella (frà Micanzio) mostra della contratta corrispondenza d'affetto col padre matematico di Bologna». Or come il Libri s'ingannò o perchè ingannò? Il Cavalieri era frate _gesuato_, e il Libri lo scambiò per padre _gesuita_: _inde iræ._ [339] La lettera è nel tom. IX, p. 196 delle _Opere di Galileo Galilei_, edite a Firenze. [340] Si fa tanto caso dello _Sta sol contra Gabaon_. Ma anche nelle ipotesi più accettate, il sole si muove con tutti gli altri soli, forse in quella gran nebulosa che si chiama la via lattea. Quando il sole si fermasse, si fermerebbero i pianeti e i satelliti del suo sistema; quindi la terra e la luna. Ciò non toglierebbe quelle incongruenze che gli astronomi riconoscono nel miracolo di fermarsi soltanto la luna e la terra? [341] Lo racconta ella stessa in lettera ch'è fra le inedite del Fabbroni. [342] L'abate Henry ha pubblicato a Parigi, il 1865, _Les protestants revenus à la foi catholique avec l'exposé des motifs qui les ont déterminés_; e la prima serie comprende le conversioni in Francia, la seconda quelle in Germania e Svizzera, la terza gl'Israeliti. Credemmo bene aggiungervi alcunchè per quelle in Italia, dove menzioneremo Alberto Bury, che abjurato in Venezia il calvinismo, stampò colà nel 1576 _Methodus facilis veram Ecclesiam lumine rationis inveniendi, proposita a quodam calvinista seu reformato, in gremio sanctæ Ecclesiæ cath. ap. rom. reducto_. Anche monsignor Rœss vescovo di Strasburgo, stampa ora _Les convertis de la Reforme, d'après leur vie et leurs écrits_; vera controversia in azione. DISCORSO L. IL SECOLO XVII. FILOSOFI. IL QUIETISMO. Da un secolo e mezzo le discordie originate dalla Riforma sovvertivano tutta l'Europa, dove più dove meno sanguinose, e peggio nel paese dove prima era stata annunziata. Perocchè la Germania, campo di battaglie e teatro di dissoluzioni fin dal primo momento, vide alfine prorompere la guerra che si chiamò dei Trent'anni, dove scopo ostentato era la libertà de' credenti; scopo vero, la libertà de' principi di introdurre qual religione volessero. Paesi intieri rimasero spopolati, molti castelli divennero tane di lupi e la civiltà di quel popolo che avea primeggiato nel medioevo, restò affogata nel sangue. Alle due parti spossate caddero alfine le armi di mano, e la pace di Westfalia, conchiusa nel 1648, fu la prima che si combinasse non più, secondo il patto religioso del medioevo, in nome del vangelo e della repubblica cristiana e secondo la prevalenza del papato o dell'impero, ma dietro ad un nuovo diritto politico e al concetto dell'equilibrio materiale fra le potenze. Trent'anni di strazj aveano convinto che ormai una religione non poteva abbattere l'altra, e perciò nella pace si stabiliva che la cattolica, la luterana, la calvinista fossero egualmente tollerate, però entro i confini territoriali che aveano allora. Non si metteano dunque d'accordo le parti, ma si obbligavano a cessare d'osteggiarsi. Costituendo legalmente come protestante tanta parte d'Europa, toglievasi ai papi la speranza di ricondurla all'unico ovile. La Chiesa non recede mai, per venerazione degli eventi, da ciò che legittimamente una volta possedette, per quanto le convenzioni internazionali anche più solenni violino il suo inalienabile diritto. Pertanto Innocenzo X riprovò il trattato di Westfalia[343], destituendolo d'ogni effetto, non perchè non desiderasse la pace, non l'avesse anche sollecitata con ogni studio, ma come pregiudicevole alla religione e alla salute delle anime, giacchè vi si professava un canone assolutamente immorale, cioè che padrone della religione fosse colui ch'era padrone del paese. Dal qual canone nacque il despotismo sulle coscienze, che portò una tirannia, qual mai, dopo caduto il paganesimo, non era pesata sul mondo civile, finchè, spente le vivaci credenze nell'indifferenza del dogma, i principi poterono decretare quello che vollero, senza che ai popoli importasse di resistere. A questa pace finisce il rialzamento che la Chiesa cattolica avea ripigliato dopo il Concilio di Trento. Il principato temporale se ne compì e consolidò. Clemente VIII (1592-1605), che riaperse la Chiesa ad Enrico IV, e mediò la pace di Vervins, nel suo giubileo godette della conversione di molti Ebrei e Musulmani, e ricuperò Ferrara ch'era stata data in feudo; come Urbano VIII recuperò Urbino, Montefeltro, Gubbio, Pesaro, Sinigaglia; e fedele alla bolla _Admonet vos_ di Pio V, che vietava di infeudar possessi ecclesiastici, li negò a' suoi Barberini, accontentandosi d'arricchirli di denari. Già Camerino era stato ripreso da Paolo III nel 1539; poi Innocenzo X nel 1649 riebbe Castro e Ronciglione; restando così compiuto lo Stato Pontifizio secondo la bolla di Pio V, con quanto territorio bastasse ad esercitare liberamente l'augusta sovranità papale. Quasi ristoro alle tante perdite, ampiamente si diffuse la Propaganda, che pose nuove sedi al Brasile, nella California, ai due lembi dell'Africa e nelle sue isole; i Gesuiti si spinsero nel Tibet, fra i Birmani, a Siam, a Malacca, al Tonchin, alla Cocincina. Ma cominciavano le riotte interne, e i principi anche cattolici non rispettavano più la supremazia religiosa, e negavano ai papi fin i riguardi di sovrani. Nelle conferenze che precedettero la pace di Westfalia avea avuto gran mano il cardinale Fabio Chigi senese, che poi divenne papa col nome di Alessandro VII. Un M. Lebrun stampò a Ginevra, colla data dell'Aja 1686, un viaggio in Isvizzera, ove narra che, nelle lunghe trattative co' principi e ministri protestanti, esso cardinale avea concepito stima della loro religione; e mentre prima avea pubblicato, col pseudonimo di Ernesto Eusebio, il _Giudizio d'un teologo_ ove bistratta i dissidenti, allora rimase convinto che nelle loro dottrine nulla vi ha d'ereticale. Non spingeasi però più avanti, sinchè il conte Pompeo, suo prossimo parente, finì d'aprirgli gli occhi. Viveva questi in una terra di Germania, venutagli per eredità materna; e il nunzio, colà andato a trovarlo, vi passò seco tutto un inverno. Dove entrati a parlare di religione e avutone molti colloquj, diedero mano alla Bibbia colle postille del Diodati, e dopo molto disputare caddero d'accordo che la religione protestante è la vera, ed il nunzio promise al suo parente di abbandonare l'errore dopo uscito di nunziatura, e di venir a raggiungerlo e abjurare la religione romana. Il conte Pompeo andò infatti a Orange, dove fece pubblica professione di protestante, del che si levò rumore in tutta Europa; ma presto a Lione morì avvelenato. Di ciò rimase atterrito il nunzio, che poi fatto cardinale e primo segretario della camera apostolica, mutò risoluzione, pure si conservò calvinista nell'anima, e molte stampe in Fiandra lo asserivano. Tutte queste doveano essere baje de' giornalisti del tempo; e quand'era scarsa la stampa accadeva facilmente che notizie false durassero tanto da parer verità. Ma avvertiremo che Sorbière, rispondendo a un tale che aveagli scritto, se andasse a Roma, vi scorgerebbe cose che lo farebbero tornare nella chiesa riformata, afferma non avervi veduto nulla che non lo edificasse, e singolarmente ammira il santo padre, e la sua conversazione affatto famigliare. E che alcuni gentiluomini inglesi avendolo visitato, e inginocchiatisi secondo l'uso, egli, saputo ch'erano protestanti, disse: «Su: alzatevi: non voglio commettiate un'idolatria secondo l'opinione vostra. Non vi darò la mia benedizione, giacchè non credete quel ch'io sono, ma pregherò Dio che vi renda capaci di riceverla»[344]. Raccontasi pure che, quando fu eletto papa, non voleva essere posto in San Pietro per la solita adorazione de' cardinali, e durante quest'atto tenne un gran Crocifisso, perchè a quello si dirigesse l'adorazione. Spogliandolo per indossargli le vesti papali, scopersero sulla sua pelle un aspro cilicio: subito fe prepararsi il feretro, e lo teneva sotto il suo letto. Compì fabbriche suntuose, tra cui il colonnato di San Pietro, e meditava raccogliere in Roma un collegio de' maggiori dotti per valersene nelle controversie della fede, e a confutar le opere eterodosse. Dovevamo far conoscere questo pontefice, poichè tanto male ne fu detto dacchè nacquero acerbe quistioni colla Francia. Se sul modo di coesistere la Chiesa collo Stato aveano sospeso di contendere i principi coi papi finchè entrambi minacciati da nemico comune, ora tornavasi a discutere se il papa sia superiore al Concilio, se abbia primazia sopra le corone onde proteggerne l'autorità e impedirne gli abusi. La Francia voleva restar cattolica, ma a patto che la Chiesa non s'ingerisse nello Stato; ed anche persone dotte e savie credeano, senza rompere l'unità, si potrebbe istituire una chiesa nazionale, avente a capo il re, a giudici le assemblee del clero; formando così una Chiesa _gallicana_, non segregata, ma distinta dalla Chiesa _oltremontana_. Infinite scritture si pubblicarono in proposito, e minacciavasi uno scisma, non in nome della libertà umana, ma dell'assolutismo principesco. Il cardinale Richelieu, ministro di Francia, avea sperato che quelle novità gli procaccerebbe la dignità suprema; e attraversatone, diede alla Corte romana quegli smacchi e quelle noje, con cui i potenti sogliono punirla dell'aver ragione. Re Luigi XIV poi, che introduceva e faceva ammirare il despotismo amministrativo, non voleva aver meno autorità nelle cose sacre che n'avessero i protestanti. L'uccisione di un domestico del cardinale di Estrée a Roma diede occasione al re di pretendere soddisfazioni chiassose, che ad Alessandro VII parvero tanto più indecenti, in quanto che esso Luigi sopportava i vilipendj recatigli dal gransultano, che al suo nunzio De la Haye fece dar la bastonatura in Costantinopoli. Radunatosi poi nel 1682 il clero francese, pubblicò la famosa Dichiarazione, che si tenne come simbolo della Chiesa Gallicana, sebbene in fatto non sia che una consulta di diritto canonico; dove, sancendo la onnipotenza del re, stabilivasi come antica consuetudine di Francia che la decisione del papa in materia di fede non sia irreformabile se non quando v'intervenga il consenso della Chiesa: il re gode il frutto de' benefizj vacanti, sinchè gl'investiti non abbiano prestato il giuramento. Luigi, che alla scenica sua magnificenza voleva accoppiare le campagne teologiche[345], forte nella decisione del parlamento, che avea decretato non dover nessuno esser superiore al re, decretò che questi articoli fossero legge dello Stato, vietando d'insegnar altrimenti; e volle estenderli anche ai paesi che novamente acquistava. Era una nuova fase del conflitto fra Chiesa e Stato: e trentaquattro soli vescovi, ligi al re e radunati per comando del re, pretendevano insegnare alla Chiesa e al capo di essa quel che può o non può. E il fatto e il modo spiacquero al nuovo papa Innocenzo XI, che ricusò confermare i nuovi vescovi di Francia; e quando Bossuet, al modo d'un nostro contemporaneo, gli scriveva a nome de' vescovi, esortandolo «a cedere alla volontà del più cattolico dei re, e mostrare la bontà in un frangente, dove non c'era luogo a mostrar coraggio», Innocenzo rispondeva: _Adversus vos ipsos potius pugnatis dum nobis in ea causa resistitis, in qua vestrarum Ecclesiarum salus ac libertas agitur_. Il re, oltre assalirlo con molte scritture, mossegli querela per le franchigie. Gli ambasciatori aveano ottenuto l'immunità in Roma, per modo che i loro palazzi e le vicinanze fossero esenti dalla giustizia del paese. Tale garanzia, opportuna in tempi di violenza, degenerò in modo, che que' palazzi co' giardini e le piazze circostanti divennero asili di furfanti o di delinquenti, che di là insultavano le leggi e i magistrati; al punto che Roma ormai tornava un ricovero di ribaldi, tanto più che i cardinali e principi paesani pretendeano altrettanto. Innocenzo XI pensò ripararvi col non ricevere più nessun ambasciatore se non rinunziasse quella franchigia. E i più vi s'aquetarono,